Energia, audacia, ribellione, velocità, lotta, guerra sono soltanto alcune delle parole cardine sulle quali si imposta il Manifesto del Futurismo, l'atto di fondazione di un movimento culturale d'avanguardia tra i più reazionari, contraddittori e discussi del XX secolo. Il 20 febbraio del 1909, sulla prima pagina del quotidiano parigino "Le Figaro", preceduto da una breve introduzione e da un preambolo dai toni del racconto mistico e simbolista, il Manifesto fece la sua rumorosa e aggressiva comparsa, articolato in undici punti programmatici, nei quali prendono vita l'ideologia e l'estetica del Futurismo. L'autore fu Filippo Tommaso Marinetti, poeta, scrittore e direttore di "Poesia", rivista da lui fondata a Milano, ma inadatta a diffondere la pubblicazione del Manifesto, dato il clima ristagnante e "passatista" della cultura italiana del tempo. Marinetti, che dedicò tutta la vita alla diffusione internazionale del movimento e alla difesa dell'arte moderna, lanciò un grido iconoclasta contro la sterile ed edulcorata produzione artistica e letteraria di età umbertina, colpevole di ostacolare il progresso della modernità. Il mito della macchina e quello della velocità diventarono tangibili con lo sviluppo industriale e la nazionalizzazione delle ferrovie. Marinetti stesso fu tra i primi a possedere un'automobile: una Fiat quattro cilindri. Le scoperte scientifiche e la cronofotografia di Marey e Muybridge produssero nuove concezioni del mondo, i cui elementi si compenetrano in un perpetuo "dinamismo universale", come si legge nel Manifesto tecnico della pittura futurista dell'aprile del 1910. "Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente. [...], le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono". I segnatari del Manifesto tecnico - Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini - continuarono, per qualche anno, ad attingere alla tecnica pittorica e al repertorio dei temi prediletti da alcuni artisti appartenenti a una generazione precedente e da loro considerati maestri, ossia i divisionisti, incompresi dalla critica accademica italiana e liquidati come postimpressionisti di seconda mano. In realtà, la spiritualità di Segantini, il simbolismo di Previati e la coscienza sociale di Pellizza da Volpedo, perseguiti mediante brevi pennellate di colore puro "diviso", destinato a fondersi nel processo di percezione visiva restituendo unità all'opera nel suo insieme, aveva dato vita ad una sintesi artistica tutta originale.
Se Balla, il più anziano fra i futuristi (presso il suo studio romano infatti si erano formati gli stessi Boccioni e Severini) era giunto al Divisionismo tramite l'impiego come fotografo e l'attenzione alla resa della luce, per gli altri, e per Boccioni in particolare, rappresentò il punto di partenza più naturale. Nel 1904, Giacomo Balla dipinse un olio su carta rielaborando in chiave moderna i polittici antichi. La cornice va così a scandire, dall’alba, al mezzogiorno e infine al tramonto, come in una sequenza cinematografica, le ripetitive e alienanti azioni quotidiane de La giornata dell’operaio (Lavorano, mangiano, ritornano). Grande attenzione è posta alla restituzione delle condizioni luminose – anche artificiali – e dell’atmosfera. L’uso magistrale del colore divisionista e la tematica del lavoro sono ripresi poco dopo da Umberto Boccioni, il quale, in opere come Officine a Porta Romana, raffigura il prepotente sviluppo urbano della periferia milanese nei primi anni dieci del Novecento. Cantieri e ponteggi sono ancora una volta i protagonisti della metropoli nella sua irrefrenabile corsa verso la modernità, nella tela, oggi conservata al Museum of Modern Art di New York, intitolata La città che sale. Risalente al 1910-11, l’opera costituisce un primo e felice connubio di Divisionismo e Futurismo. Ai piedi delle svettanti impalcature che solcano lo sfondo, la febbrile attività di costruzione si trasforma in un turbinio dinamico, dal cui magma emergono uomini e animali. Il possente e indomabile cavallo in primo piano appare come un anacronistico simbolo di sforzo fisico, in contrasto con la città industrializzata e con lo sbuffo di vapore della locomotiva retrostante. Immagini tratte da:
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Gennaio 2022
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