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31/1/2017

Il Settecento e la pittura di costume

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di Ilaria Ceragioli
Nell’Inghilterra della prima metà del Settecento il pittore ed incisore William Hogarth diede vita a un genere pittorico capace di conquistare e incuriosire i suoi contemporanei: la pittura di costume.
Hogarth, che fu anche l’autore di un noto trattato di estetica intitolato The Analysis of beauty (1753), sintetizzò i suoi intenti artistici attraverso lusinghevoli e affascinanti parole: “Ho voluto comporre pitture su tela simili a rappresentazioni sulle scene; e spero che vengano giudicate con lo stesso criterio; ho cercato di trattare il mio soggetto come un autore drammatico; il mio quadro è il mio palcoscenico, e attori sono uomini e donne che pe mezzo di atti e gesti figurano una pantomima”.
Si tratta di una pittura moraleggiante e narrativa in cui a diventare protagonisti sono i costumi e la quotidianità della società borghese del tempo. Evidente, inoltre, è l’ispirazione al teatro e alla letteratura inglese del Settecento.
All’interno della produzione artistica di William Hogarth celebre è il ciclo Il matrimonio alla moda comprendente sei tele in cui il tema principale ruota intorno a un matrimonio combinato che vede come protagonista la figlia di un ricco mercante, il quale intende sacrificarla al fine di ottenere un’affermazione sociale.
Una di queste tele è intitolata Il contratto (1744) e si può ammirare alla National Gallery di Londra.

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La scena è ambientata in un’ampia sala della residenza di Squanderfield e i personaggi sono raffigurati nell’atto di conversare. Sulla sinistra e seduto ad un tavolo vi è il padre della sposa che, accuratamente, sta leggendo il contratto nuziale. Minuziosa è la resa dei dettagli, degli abiti e della gestualità dei soggetti borghesi illustrati.
La pittura di costume e la fama delle opere di Hogarth giunsero anche in Italia e incantarono artisti come Giorgio Traversi, Giuseppe Baldrighi e il più noto Pietro Longhi.
Riferimenti a Hogarth e a un raffinato interesse per il teatro si colgono nell’opera Contratto nuziale (1750) di Traversi conservata presso la Galleria d’Arte Antica a Roma.

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Baldrighi, invece, si dedicò soprattutto al ritratto e degno di menzione è l’Autoritratto con la moglie (post. 1756) conservato nella Galleria Nazionale a Parma.
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Nel quadro possiamo osservare un divertente gioco di sguardi: il pittore, infatti, osserva la moglie, la quale è intenta a guardare verso lo spettatore e il gatto che ha in grembo è impegnato ad osservare un uccellino all’interno di una gabbia.
Un successo ancor più maggiore travolse la produzione artistica del veneziano Pietro Longhi.
Nelle sue tele l’artista propone scene d’interni in cui protagonista è l’alta borghesia mercantile e ancora una volta chiari sono i rimandi al teatro.
Eloquenti, in questo senso, sono la Lezione di ballo (1740) presso Gallerie dell’Accademia a Venezia e Il Cavadenti (1752) che si trova alla Pinacoteca di Brera a Milano.

La pittura di metà Settecento giunse così a trarre ispirazione e insegnamento dal teatro, dal costume e dall’elegante gusto della società borghese del tempo mettendo in evidenza atteggiamenti raffinati, forti valori e intensi sguardi che caratterizzarono l’esprit du siècle.

Immagini tratte da:
wikipedia, pubblico dominio, voce: William Hogarth
fondazioneneri.uni
wikipedia, CC BY 3.0, voce: Autoritratto con la moglie
wikipedia, pubblico dominio, voce: Pietro Longhi
oliaklodvenitiens.wordpress



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30/1/2017

La Colonna Traiana

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di Antonio Monticolo
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Procedendo lungo via dei Fori Imperiali in direzione del Vittoriano si può vedere, sulla destra, il foro dell’imperatore Traiano. Ciò che colpisce immediatamente è la maestosa e monumentale colonna fatta erigere dallo stesso imperatore per celebrare la vittoria in Dacia.
La colonna Traiana è un’invenzione del tutto nuova nel panorama artistico romano; nel corso del tempo, infatti, colonne onorarie erano state costruite anche a Roma. Ma la novità risiede nel fregio decorativo a spirale che avvolge l’intera colonna e che era sormontata dalla statua dell’imperatore Traiano (sostituita nel 1587 con l'attuale statua di San Pietro).
La colonna è formata da 17 rocchi di marmo greco e raggiunge un’altezza di 39,86 metri ca., se si include il piedistallo alla base e la statua alla sua sommità.
Il rilievo molto probabilmente è stato creato una volta che la colonna era stata totalmente montata e si svolge in ventitré giri per duecento metri di rilievo. Man mano che si sale, i pannelli decorativi posti in alto aumentano in grandezza per contrastare l’effetto ottico della distanza e permettere, dunque, a tutte le fasce di apparire ad altezza uniforme.
Le figure sono ottenute a rilievo ed evidenziate con un solco di contorno che mette in risalto il disegno, mentre alcuni elementi delle figure sono ottenuti ad incavo.
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Come dice Ranuccio Bianchi Bandinelli:” Con questi accorgimenti e con il variare della consistenza delle superfici è stato ottenuto un rilievo quanto mai corsivo, pittorico, che riesce […] a dare l’illusione di ariose prospettive spaziali entro le quali le figure si muovono senza sforzo.”
Le scene rappresentano le due guerre daciche combattute da Traiano negli anni 101-102 d.C. e 105-170 d.C. I fatti sono raccontati in ordine cronologico e sono indicati anche tutti i tipi di armamentario dei vari corpi militari. Sono raffigurati i diversi momenti della spedizione: partenza, costruzione di strade, discorso alle truppe, assedio, sottomissione dei nemici, in pratica tutto ciò che aveva a che fare con la guerra. Ognuno di questi temi viene modificato con particolari in base alle situazioni e questo permette “che nel ripetersi dei temi e delle figure non si presenti mai un attimo di stanchezza, una ripetizioni di schemi, una inserzione di elementi puramente riempitivi, e si svolga invece con inesausta inventiva e freschezza” (Ranuccio Bianchi Bandinelli).

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Suicidio di Decebalo raggiunto dai romani
Come detto in precedenza la colonna Traiana racconta le imprese di Traiano in Dacia (l’odierna Romania) e pertanto ciò che è raffigurato ha carattere di propaganda e di celebrazione della figura dell’imperatore che appare più come un giudice che come un vincitore assetato di sangue, a differenza invece di quanto verrà rappresentato sulla Colonna Antonina, dove il nemico è trucidato e massacrato. In sostanza la Colonna Traiana mette in risalto la virtù dell’imperatore vincitore.
Concludiamo con le parole di Ranuccio Bianchi Bandinelli che studiò per moltissimo tempo questo capolavoro dell’arte romana: “Dal punto di vista artistico […] dobbiamo riconoscere nel fregio della Colonna Traiana la più alta e la più originale espressione del rilievo storico romano e una delle più significative opere d’arte di tutta l’Antichità”.
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Traiano a colloquio con Licinio Sura
Bibliografia:
Ranuccio Bianchi Bandinelli, L'arte romana al centro del potere

Immagini tratte da:
- National Geographic.it
- pinterest.com
- wikipedia, pubblico dominio, voce: Colonna Traiana
- wikipedia, pubblico dominio, voce: Colonna Traiana

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24/1/2017

Il Cristo Velato

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di Marianna Carotenuto


Il Cristo velato è una delle opere più suggestive al mondo. La scultura marmorea, opera di Giuseppe Sanmartino, è posta al centro della navata della Cappella Sansevero di Napoli.
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Inizialmente, il principe di Sansevero, Raimondo di Sangro, aveva commissionato la statua ad Antonio Corradini, che per lui aveva già scolpito la Pudicizia.
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Nel 1752 Corradini morì, riuscendo a terminare solo un bozzetto in terracotta, oggi conservato al Museo di San Martino.

A causa della perdita, il principe commissionò l’opera ad un giovane artista napoletano, Giuseppe Sanmartino. Al giovane scultore venne incaricata la creazione di “una statua di marmo scolpita a grandezza naturale, rappresentante Nostro Signore Gesù Cristo morto, coperto da un sudario trasparente realizzato dallo stesso blocco della statua”.

Fu così che nel 1753, Giuseppe Sanmartino creò uno dei più grandi capolavori della scultura di tutti i tempi: il Cristo morto, disteso su un materasso marmoreo, coperto da un velo dal quale si intravedono i segni del martirio subito. Lo scultore ha saputo rendere con eccelsa maestria la sofferenza del Cristo nei suoi attimi prima della morte, divenendo immagine simbolica del destino e del riscatto dell’intera umanità.
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Stupefacente la cura dei dettagli: il capo reclinato da cui affiora una vena gonfia e ancora palpitante sulla fronte; le trafitture dei chiodi sui piedi e sulle mani torturate che ormai si concedono alla morte liberatrice; il costato scavato e rilassato; il sudario di cui lo scultore riproduce anche i bordi ricamati; gli strumenti del supplizio (la corona di spine, la tenaglia e alcuni chiodi); il velo fine, delicato, che si adagia sul corpo del Cristo in pieghe che evocano drammaticità.
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Tale velo, talmente realistico e trasparente, è stato creduto per molti secoli, frutto di un processo alchemico di “marmorizzazione”, compiuto dal principe di Sansevero , che avrebbe adagiato sulla statua un vero e proprio velo, marmorizzatosi nel tempo attraverso un processo chimico.

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In realtà, il Cristo velato è un’opera interamente in marmo, ricavata da un unico blocco di pietra, lavorato in modo così sapiente che lo stesso principe lo definì “fatto con tanta arte da lasciare stupiti i più abili osservatori”.

Lo stesso Antonio Canova, venne rapito dalla strabiliante scultura, tanto che tentò di acquistarla, dichiarandosi disposto a dare dieci anni della propria vita pur di essere l'autore di questo capolavoro incomparabile.

Tanti hanno commentato il capolavoro di Sanmartino, in particolare Matilde Serao ne ha reso l’immagine più suggestiva:  «Sopra un largo piedistallo è disteso un materasso marmoreo; sopra questo letto gelato e funebre giace il Cristo morto. […] Giace lungo disteso, abbandonato, spento: i piedi dritti, rigidi, uniti, le ginocchia sollevate lievemente, le reni sprofondate, il petto gonfio, il collo stecchito, la testa sollevata sui cuscini, ma piegata sul lato dritto, le mani prosciolte. I capelli sono arruffati, quasi madidi del sudore dell’agonia. Gli occhi socchiusi, alle cui palpebre tremolano ancora le ultime e più dolorose lagrime. In fondo, sul materasso sono gettati, con una spezzatura artistica, gli attributi della Passione, la corona di spine, i chiodi, la spugna imbevuta di fiele, il martello [...] E più nulla. Cioè no: sul Cristo morto, su quel corpo bello ma straziato, una religiosa e delicata pietà, ha gettato un lenzuolo dalle pieghe morbide e trasparenti, che vela senza nascondere, che non cela la piaga ma la mostra, che non copre lo spasimo ma lo addolcisce ».

Il maestro Riccardo Muti ha scelto il volto del Cristo per la copertina del suo Requiem di Mozart e uno dei più grandi poeti contemporanei, Adonis, lo ha definito “più bello delle sculture di Michelangelo”.

Nel corso degli anni tantissimi sono stati gli estimatori di tale capolavoro e tanti altri continuano a mostrarsi stupiti dinanzi a cotanta bellezza.

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Immagini tratte da:

www.pinterest.com
AmalfiNotizie.it
www.marcovuyet.com
www.imparziale.com
www.museosansevero.it
www.warnerclassics.com


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24/1/2017

Sorano - città del tufo

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​Articolo gentilmente concesso da
Viaggiando in Toscana
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​di Francesca Perozziello
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Scorcio panoramico di Sorano
A Sorano, in provincia di Grosseto, c’è un luogo in cui il tempo sembra essersi fermato secoli fa. In questo incontaminato angolo della Maremma sorge il Parco Archeologico Città del Tufo, inaugurato nel 1998 per tutelare la splendida “area dei tufi”, come viene chiamata, una zona che abbraccia Sorano, Sovana e Vitozza.
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Cavone a Sorano
Cosa rende tanto speciale questo parco? Si tratta di un connubio più unico che raro di storia e natura, dove il periodo etrusco si fonde con quello medievale, permettendo al visitatore di ammirare reperti mozzafiato come la tomba Ildebdranda e di camminare fra le cosiddette Vie Cave, percorsi scavati nelle pareti tufacee secoli fa.
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Via Cava
Gli Etruschi sono sicuramente gli abitanti più famosi di questa zona e furono proprio loro a scavare le Vie Cave, imponenti canali scavati nel tufo che servivano a collegare gli insediamenti etruschi e la necropoli, oltre che costituire un sistema di difesa. Gli antichi Romani utilizzarono questo sistema di vie, noto anche come Cavone, collegandolo alla via Clodia. Quest’importante via, una diramazione della via Cassia, rappresentava uno snodo fondamentale nel sistema viario romano. Anche durante il Medioevo abbiamo testimonianze di un forte utilizzo di queste cavità, adibite a rifugio per gli animali, laboratori di ceramica, falegnamerie e persino conventi.
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Rocca Aldobrandesca (Sovana)
Immersi nei boschi di lecci e castagni, dove diverse specie animali vivono indisturbate, possiamo ancora oggi visitare le meraviglie che ci sono state lasciate da chi ha abitato l’area in passato. In epoca medievale, infatti, la frazione di Sovana fu scelta come dimora dalla ricca famiglia degli Aldobrandeschi.
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Sovana
Quando, nel 1293, Anastasia Aldobrandeschi sposò il conte Romano di Gentile Orsini, la dinastia degli Orsini sostituì definitivamente la precedente nel dominio della zona. A Sorano si può ammirare tuttora la Fortezza Orsini, che la famiglia ereditò dagli Aldobrandeschi e rinforzò per resistere alla nuove esigenze belliche, in particolare agli scontri con la Repubblica di Siena.
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Facciata della Fortezza Orsini (Sorano)
Tornando a Sovana, invece, ci attende la necropoli etrusca, un complesso di epoca etrusca risalente al III-II sec. a.C., il cui monumento più famoso è sicuramente la tomba Ildebranda. Completamente scavata nella roccia, la tomba fu scoperta nel 1924 da Gino Rosi e poi studiata in maniera approfondita da Ranuccio Bianchi Bandinelli nel 1929.
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Tomba Ildebranda (Sovana)
Con la sua ampia facciata e due scalinate laterali, la tomba è costruita interamente nel tufo, senza bisogno di aggiungere elementi architettonici aggiuntivi. Dagli studi effettuati sulla tomba, sono emersi alcuni particolari davvero affascinanti: un tempo, stucchi policromi abbellivano l’interno, anche se a noi sono arrivati solo pochi frammenti.
Immagini tratte da: 
- Scorcio panoramico di Sorano, da Wikipedia Italia, Di Sidvics - Opera propria, CC BY-SA 3.0, voce "Sorano"
​- Cavone a Sorano, da www.reporterinviaggio.it
- Via Cava, da Wikipedia Italia, Di Sidvics - Opera propria, CC BY-SA 3.0, voce "Parco archeologico Città del Tufo"
​- Rocca Aldobrandesca (Sovana), da Wikipedia Italia, Di Sailko - Opera propria, CC BY 3.0, voce "Rocca Aldobrandesca (Sovana)"
​- Sovana, da flickr.com
- Facciata della Fortezza Orsini (Sorano), da Wikipedia Italia, Di Sidvics - Opera propria, CC BY-SA 3.0, voce "Fortezza Orsini" 
- Tomba Ildebranda, da Wikipedia Italia, Di Sidvics - Opera propria, CC BY-SA 3.0, voce "Parco archeologico Città del Tufo"

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17/1/2017

Pillole di Arte Contemporanea: Pier Paolo Calzolari, il mio letto così come deve essere (1968)

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di Alessandro Rugnone

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Il mio letto così come deve essere, (1968)
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Il mio letto così come deve essere, (1968) n.2

“Il luogo comune è entrato nella sfera dell'arte e l'insignificante ha iniziato ad esistere”

(Arte Povera - Im Spazio, Germano Celant)

Se in Italia l'insignificante ha iniziato ad esistere limitatamente alla sfera dell'Arte Contemporanea lo si deve a uno sparuto gruppo di giovani artisti perlopiù torinesi (e in seguito anche romani) il cui lavoro, nei turbolenti anni della contestazione studentesca e operaia, sul finire degli Anni Sessanta, venne delineato dal critico e curatore d'arte Germano Celant che ebbe il merito d'introdurre nel panorama artistico nazionale ed internazionale il concetto di Arte Povera. Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti (che aderì solo formalmente al movimento), Luciano Fabro, Piero Gilardi, Jannis Kounellis, Mario e Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giovanni Penone, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio, Emilio Prini. Personalità profondamente complesse, poliedriche, sfaccettate, difficilmente assimilabili a una pratica, a una teoria, a un'idea, eppure accomunati dalla medesima visione, dallo stesso modo d'intendere l'arte quale organismo vivente che possa evolversi e svilupparsi nel tempo e nello spazio come la vita stessa. Un'arte libera che si fonda con il quotidiano, che si nutra e che tragga alimento dai comportamenti e dalla natura dell'uomo, che non abbia altro mezzo che non se stessa e che si serva per le sue creazioni non dei mezzi tradizionali o dei riferimenti al passato, ma degli stessi materiali di cui è fatta la vita, dall'acqua al legno, dal sole alla terra, dal ghiaccio alle pietre, ai minerali e ai vegetali. Le loro installazioni più riuscite si modificano attraverso l'interazione degli elementi tra di loro e di questi con lo spazio che li ospita, obbligando lo spettatore a rispondere attivamente alle sensazioni che lo sollecitano.
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Pier Paolo Calzolari
Forte dell'avvallo critico di Celant e grazie al lavoro di collezionisti e galleristi di fama internazionale come Gian Enzo Sperone, Luciano Pistoi e Christian Stein, il collettivo Arte Povera, dopo la celebre prima esposizione alla galleria La Bertesca di Genova del 1967, comincia a farsi conoscere anche fuori dai confini nazionali.
L'esposizione che ne segna la definitiva consacrazione è Live in Your Head: When Attitude Become Form, alla Kunsthalle di Berna nel 1969.
Di fondamentale importanza, accanto a questo gruppo tutto torinese, il lavoro di altri artisti, su tutti il bolognese Pier Paolo Calzolari, le cui considerazioni sull'arte lo porteranno a discostarsi sensibilmente dalla ricerca degli altri membri del movimento e ad assumere una fisionomia personalissima e affatto originale. Calzolari agisce nel campo della performance accostando felicemente azione e parola, situazione e lirismo. Molti dei suoi lavori chiudono nello spazio dell'opera reminiscenze letterarie o riferimenti alla tradizione poetica alta, sia nei titoli come in Senza Titolo (mortificatio, imperfectio, putrefactio, combustio, incineratio, satisfactio, confirmatio, compositio, inventio, dispositio, actio, mneme) che nello svolgersi della performance stessa.
E la parola s'accorda perfettamente con la varietà dei materiali poveri da lui utilizzati come le foglie di tabacco, il carbone, il legno, il muschio, il sale e la margarina, nella spasmodica resa d' una pura poesia visiva che sembra essere il fine ultimo di tutta la sua ricerca artistica.
Il mio letto così come deve essere viene presentata in occasione della mostra Op Losse Schroeven, allo Stadelijk Museum di Amsterdam nel 1969. L'opera è composta di lettere metalliche che si estendono, poggiate al pavimento, per circa due metri, fra le quali, a metà frase, è disposto un elemento di rame avvolto nel muschio. L'insieme degli elementi forma una croce. Le lettere metalliche chiudono nella sacralità d'un epigrafe il pensiero dell'artista “IL MIO LETTO COSI' COME DEVE ESSERE”. E' una figura, nel suo complesso, poetica e spaesante insieme. La croce, le lettere in bronzo, il freddo pavimento che rimanda alle fattezze d'una lapide, la terra con cui è rivestito l'elemento in rame, tutto chiama al pensiero della morte in una composizione che ha la stessa potenza espressiva d'una vanitas rinascimentale. Così l'artista immagina la sua eterna quiete, la pace del suo riposo, esorcizzando al contempo gli aspetti più cupi connessi all'idea della morte.
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Senza Titolo (mortificatio, imperfectio, putrefactio, combustio, incineratio, satisfactio, confirmatio, compositio, inventio, dispositio, actio, mneme), (1970)

Immagini tratte da:

- 1, 2, 3, www.repubblica.it
- 4 www.arttribune.it

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17/1/2017

Paul Gauguin: spiritualità e filosofia tra i mari del Sud                         

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di Olga Caetani
Benestante agente di banca e pittore part-time, Paul Gauguin dal 1879 iniziò a collezionare opere pittoriche di artisti a lui contemporanei e ancora poco noti, come Cézanne e Pisarro, assimilandone la lezione. Nell’aprile di quell’anno, su invito di Degas e dello stesso Pisarro, prese parte alla quarta mostra impressionista. L’accoglienza della critica fu tiepida e il successo alle mostre seguenti altalenante. Gauguin non riuscì a guadagnarsi le simpatie di Renoir e Monet, il quale, più tardi, confessò di non averlo mai preso sul serio nelle vesti di pittore. In realtà, la crisi che aveva investito le banche francesi nel 1882 indusse Gauguin a dedicarsi alla pittura a tempo pieno, nel tentativo, mal riuscito, di far fronte alle nuove ristrettezze economiche. Con il 1886 si concluse la grande stagione dell’Impressionismo. Dei suoi maggiori protagonisti, Gauguin, alla fine della sua carriera, scrisse con disprezzo che “studiarono il colore esclusivamente come effetto decorativo ma senza libertà, perché non superarono l’impaccio della rappresentazione”. La ricerca della semplificazione formale e il rifiuto della moda del pointillisme spinsero Gauguin a lasciare più volte la vita parigina all’insegna della modernité per immergersi in culture dal sapore arcaico e primitivo, come quella di eredità inca, con la quale era entrato in contatto durante l’infanzia trascorsa in Perù. Risalgono infatti ai suoi viaggi in Bretagna, a Tahiti e nelle Isole Marchesi i suoi capolavori.
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La visione dopo il sermone, 1888, Edimburgo, National Gallery of Scotland
L’aspro e selvaggio promontorio della costa nord-occidentale della Francia ispirò opere come La visione dopo il sermone. Gauguin, allo stesso modo di Émile Bernard e di altri giovani artisti che trascorrevano l’estate nella cittadina bretone di Pont-Aven, fu attratto dal folklore e dal misticismo religioso delle donne del luogo, con il tipico costume dalla candida cuffia inamidata. Il rosso infuocato e bidimensionale che fa da sfondo all’episodio biblico di Giacobbe che lotta con l’angelo - immagine che riecheggia l’omonimo dipinto murale della chiesa parigina di Saint-Sulpice, realizzato quasi trent’anni prima da Eugène Delacroix - preannuncia l’antinaturalismo del colore dei Fauves. Non mancano i riferimenti alle stampe giapponesi in voga all’epoca, nel curvo tronco d’albero che divide diagonalmente la composizione.
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Il Cristo giallo, 1889, Buffalo, Albright-Knox Art Gallery
L’uso del colore liberato da ogni illusione di realtà ritorna ne Il Cristo giallo, le cui rigide e taglienti fattezze guardano alla scultura lignea medievale. Marcate linee scure delimitano le campiture di colori accesi e in prevalenza primari, conferendo loro risalto
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Aha oe feii? (Come! Sei gelosa?), 1892, Mosca, Museo Puškin
La colonizzazione francese aveva trasformato le incontaminate spiagge polinesiane in un paradiso perduto, già sul finire del XIX secolo. L’ipocrisia occidentale, introducendo nelle isole il cristianesimo, dall’altro costumi e pratiche come la prostituzione, sconosciuta tra la popolazione maori, rischiò di far perdere la memoria delle tradizioni locali, ricostruite pazientemente da alcuni antropologi. Gauguin si servì anche dei loro studi per realizzare i dipinti dei soggiorni tropicali. La primigenia bellezza delle donne tahitiane è celebrata, tra le altre, nell’opera Aha oe feii? (Come! Sei gelosa?) del 1892. I monumentali corpi bruno-dorati delle due fanciulle riposano su una spiaggia dalla sabbia rosea, lambita dal mare che riverbera colori in senso puramente pittorico e non naturalistico.
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Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, 1897-98, Boston, Museum of Fine Arts
Il testamento spirituale dell’artista, che morirà pochi anni dopo, nel 1903, malato e tormentato dai debiti, è rappresentato dalla grande tela intitolata Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Come se si trattasse di un antico affresco, gli angoli superiori “rovinati” lasciano intravedere un fondo oro. Gauguin, in una lettera all’amico De Monfreid, suggerisce di leggere l’opera procedendo da destra verso sinistra. In un lussureggiante Eden tropicale, nel quale uomini e animali convivono, alcune donne sedute sembrano fissare l’osservatore rivolgendogli i propri dubbi sull’esistenza. Poco oltre, un Adamo dai lineamenti polinesiani sta cogliendo un purpureo frutto. L’idolo azzurro della dea Hina rappresenta l’aldilà, e corrisponde idealmente al vertice della piramide con alla base le tre età dell’uomo. Una speranza si intravede: la lucertola, stretta negli artigli dell’uccello bianco al margine estremo del quadro, è simbolo di fede e resurrezione.
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Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, particolare
Immagini tratte da:
  • icapolavoridellarte.weebly.com
  • geometriefluide.com
  • http://omiocapitano.altervista.org/wp-content/uploads/800px-Paul_Gauguin_141.jpg
  • Di Paul Gauguin - Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=717355
  • By Paul Gauguin - cropped from Image:Where.jpg (actually Image:Woher kommen wir Wer sind wir Wohin gehen wir.jpg), Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3543798

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10/1/2017

Il Secolo d’oro dell’Olanda: il Realismo nella pittura olandese del Seicento

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di Ilaria Ceragioli

Solo nel 1609 l’Olanda ed altri Stati appartenenti ai Paesi Bassi ottennero la tanto attesa e sperata indipendenza dalla Spagna. La pittura cessò di essere un fatto di élite e si sviluppò un fiorente mercato di quadri. In questo clima di pace interna e di dilagante passione per l’arte e per il collezionismo, il Realismo pittorico olandese recuperò l’interesse da parte del pubblico soprattutto grazie agli influssi italiani assorbiti dagli artisti olandesi durante frequenti soggiorni in Italia. Un caso a parte, però, fu quello del ritrattista Frans Hals che si limitò a brevi permanenze ad Anversa e ad Amsterdam, non recandosi mai nella penisola italiana.
La sua eccellente abilità di ritrattista è facilmente riscontrabile nell’opera Allegro bevitore (1630) conservata al Rijksmuseum di Amsterdam.


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Hals coglie l’istantaneità e il naturalismo della gestualità del soggetto attraverso pennellate rapide e violente. A detta di numerose testimonianze bibliografiche, nel volto e nell’atteggiamento dello spensierato bevitore si celerebbe la figura dell’artista, uomo ripetutamente alle prese coi debiti e dedito all’alcool. 
Altro importante protagonista del panorama pittorico olandese della prima metà del Seicento fu Rembrandt. La sua formazione avvenne nella città di Amsterdam ed ebbe subito un enorme successo presso il pubblico, ma la sua prospera e fortunata produzione artistica cominciò a risentire dei numerosi lutti familiari che determinarono il tramonto della sua carriera. L’animo afflitto e sofferente dell’artista giunse così a coinvolgere i soggetti stessi delle sue tele. Eloquente, in questo senso, è l’opera Uomo dall’elmo d’oro (1650) oggi custodito al Staatliche Museen Preussicher Kulturbesitz di Berlino.

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Da uno sfondo scuro e tenebroso emerge la figura di un uomo di mezza età, dallo sguardo assorto e rivolto verso il basso. L’uomo dall’elmo dorato e luminoso viene così immortalato in un momento in cui pensieri e spiacevoli tormenti affollano la sua mente. In quest’espressione meditativa e silenziosa trova così rivelazione l’interiorità del pittore.
Tuttavia, in ambito olandese, ancor più noto è l’artista Jan Vermeer autore della celeberrima Ragazza col turbante forse più nota come Ragazza con l’orecchino di perla (1665-66).

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Sin dagli esordi Vermeer si specializza in scene di interno adottando sempre le stesse ambientazioni che, con tutta probabilità, non erano nient’altro che le varie stanze della sua dimora. Tra queste degna di nota è La lattaia (1658), un dipinto a olio su tela che si può ammirare oggigiorno al Rijksmuseum di Amsterdam.
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L’opera propone un tema che ebbe molta fortuna nei Paesi Bassi già a partire dal Cinquecento, ossia quello delle scene di cucina. La robusta lattaia è colta nell’atmosfera silenziosa di un’azione quotidiana. Numerosi, inoltre, sono i riferimenti all’amore e al calore, si notino lo scaldino e i putti alati raffigurati sulle piastrelle dello zoccolo.
Infine, in questo terreno particolarmente fertile per l’arte olandese del Seicento trovò diffusione ed ampi consensi anche la pittura di nature morte. Uno dei più grandi pittori olandesi di natura morta e largamente apprezzato in ambito europeo fu Jan De Heem. Un vaso di fiori dai colori brillanti e armoniosi, farfalle e chiocciole diventano gli unici protagonisti del dipinto. Questo è ciò che si può ammirare nell’opera Natura morta con fiori in un vaso di vetro (1650-1683).

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Fiori di ogni varietà e dimensione emergono dal nero dello sfondo che gli conferisce una maggiore corporeità e spazialità.
Fu proprio a questi e a molti altri artisti olandesi che si deve il merito di aver riportato in auge e omaggiato generi pittorici e scelte stilistiche personalizzate e originali all’interno del panorama artistico olandese che, insieme alla prosperità dei commerci e alla divulgazione della scienza furono motivo di arricchimento culturale non solo per l’Olanda, ma anche per gli altri Stati europei.

 

Immagini tratte da:
valterniselli.blogspot.com
wikipedia, publico dominio, voce: Ragazza con il turbante
archimagazine.com 
wikipedia, publico dominio, voce: Lattaia
it.wahooart.com


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9/1/2017

L' Afrodite di Milo: "Ecco la meraviglia delle meraviglie!"

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di Antonio Monticolo

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L’Afrodite di Milo (più comunemente Venere) è una delle opere maggiormente conosciute del mondo antico. Ritrovata nel 1820 da un contadino nell’isola greca di Melos, l’opera purtroppo è priva delle braccia e del basamento. La statua venne sequestrata da un ufficiale turco e poi, dopo varie vicissitudini, fu portata in Francia dove venne mostrata a Luigi XVIII e infine esposta al Louvre.
In base all’iscrizione ritrovata sul basamento, ormai perduto, si è potuto attribuire l’opera ad Alessandro di Antiochia attivo nel II sec.a.C. datandola così al 130-100 a.C.
Afrodite è rappresentata in piedi, stante, ed è coperta nella parte inferiore da un veste che le sta scivolando dai fianchi. Le due gambe si stringono affinché il drappo non cada del tutto scoprendola totalmente. La vitalità prorompente di tale opera è data da una parte dal movimento delle gambe, infatti la gamba sinistra si inclina verso il lato destro con il piede sinistro elevato e nascosto dalle pieghe del panneggio e dall’altra dalla solidità del modellato. Un’altra caratteristica è la contrapposizione fra la morbida e delicata pienezza del nudo e l’increspatura violenta del panneggio.
Le pieghe del panneggio presenti all’altezza del ventre sono, oltretutto, anche il modo attraverso il quale l’artista è riuscito a nascondere la giuntura delle due parti della statua. Infatti tale opera è stata realizzata lavorando separatamente due blocchi di marmo pario poi messi insieme. Tale opera emana una grande sensualità propria della dea dell’amore.
Ma come ha fatto l’artista a donare all’Afrodite questa sensualità?


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La geometria delle proporzioni che crea la sinuosità del contorno e la veste che sta per cadere, lasciando intravedere i lombi, creano un effetto sensuale che avvolge completamente lo spettatore.
Così la descrisse Auguste Rodin: “Ecco la meraviglia delle meraviglie! Un ritmo squisito simile a quello delle statue che abbiamo appena ammirato; ma in più, qualcosa di meditativo: perché qui non troviamo più la forma convessa, al contrario, il busto in questa dea si curva un po’ in avanti come nella statuaria cristiana. E tuttavia niente di inquieto né tormentato. Quest’opera è uno dei più alti momenti dell’ispirazione antica: è la voluttà regolata dalla misura, è la gioia di vivere cadenzata, moderata dalla ragione” (L’arte. Conversazioni raccolte da Paul Gsell).

Immagini tratte da:
Cultura - Biografieonline.it
wikipedia, mzopw, pubblico dominio, voce: Venere di Milo
wikipedia, Adert,
CC BY-SA 3.0, voce: Venere di Milo

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3/1/2017

The art of the brick : la seconda vita delle opere d’arte

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di Marianna Carotenuto


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Il giovane Nathan Sawaya, ha sempre amato ricostruire il mondo con i Lego. Crescendo non ha abbandonato la sua passione, tanto da trasformare le sue creazioni in vera e propria Arte.

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Parliamo dell’arte dei mattoncini, che l’artista statunitense espone nella sua mostra itinerante “The art of the brick”. Si tratta di una mostra di arte moderna, che unisce la Pop Art al Surrealismo. Considerata dalla CNN “una delle 10 mostre da vedere al mondo”, emoziona e stupisce i suoi  spettatori per le  sbalorditive creazioni 2D e 3D.
Ha ottenuto un grandissimo successo da  New York a Los Angeles da Melbourne a Shanghai, da Singapore a Londra, da Parigi a Roma ed ora è a Milano alla  Fabbrica del Vapore, fino al 29 Gennaio.


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La mostra offre al visitatore una grande varietà di sculture:  creazioni  originali ideate dal giovane artista americano,  riproduzioni in chiave Lego  di capolavori della storia dell’arte, come la Gioconda di Leonardo Da Vinci, la Venere di Milo, il Bacio di Klimt, la Notte stellata di Van Gogh, il Pensatore di Rodin, la Ballerina di Degas, il David di Michelangelo, ma anche enormi sculture, come lo scheletro di T-Rex lungo 6 metri, costruito con oltre 80.000 mattoncini.
Così, il gioco più amato di tutti i tempi, si trasforma in creazione artistica. Un’armonia perfetta tra gioco, immaginazione e  creatività; elementi che hanno da sempre contraddistinto il giovane Sawaya.
Egli stesso ha affermato di  “aver voluto trovare un modo per creare opere d’arte che fossero collegate a tante persone, per rendere l’arte accessibile. Utilizzare i Lego è un modo per  connettere le persone all’arte ad un livello semplice, un modo per democratizzare l’arte”.
Nathan Sawaya è riuscito magistralmente nel suo intento, catturando l’attenzione di adulti e bambini. Ma non solo, egli  ha colpito  anche la particolare Lady Gaga, che ha richiesto nel video del suo singolo G.U.Y. una  scultura dell’artista.

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The art of the brick è quindi una delle mostre più innovative ed accessibili degli ultimi tempi, capace di stupire tutti i suoi spettatori.
http://artofthebrick.it/


Fonte intervista:
http://www.ilgiorno.it/milano/cultura/lego-mostra-1.2603709


Immagini tratte da:
http://itlug.org/
http://www.mycoolbin.com/
http://milano.corriere.it/
https://avventureconpinocchio.wordpress.com
http://www.wbur.org/
http://www.piacenzabrick.it/

 

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3/1/2017

Villa Adriana a Tivoli

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​di Andrea Samueli
Quest’oggi andiamo alla scoperta di una delle più grandi residenze private del mondo romano: la villa dell’imperatore Adriano a Tivoli.
Publio Elio Traiano Adriano viene eletto imperatore nel 117 d.C. e sin dal 118 inizia la costruzione della sua residenza privata, che durerà sino alla sua morte nel 138. Volendo rifuggire il caos della capitale ed essendo un grande appassionato di architettura, progetta egli stesso un enorme complesso da edificare nella zona di Tibur (odierna Tivoli), sui monti Tiburtini: la Villa appare così composta da uno svariato numero di edifici con funzioni differenti, molti dei quali ispirati ad Adriano dai suoi numerosi viaggi nell’Impero. Troviamo così riproduzioni di edifici noti e, di conseguenza, la compresenza di stili differenti, per lo più quello greco e quello egiziano. 
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Pianta della Villa Adriana
Vediamo insieme alcuni edifici. Ci avviciniamo da nord ed ecco aprirsi dinanzi ai nostri occhi uno splendido quadriportico (una piazza colonnata detta pecile) che ci ricorda la Stoà Poikile di Atene: possiamo passeggiare sotto il doppio porticato che cinge il perimetro della piazza e delimita il giardino interno con la grande piscina centrale. 
Veduta aerea del Pecile
La grande vasca del Pecile
FotoAbside della Sala dei Filosofi
Usciamo dal quadriportico e continuiamo ad esplorare il complesso. Superate le due colonne all’ingresso, la cosiddetta sala dei filosofi ci appare come una stanza di enormi proporzioni: l’abside, sullo sfondo, presenta sette nicchie ognuna delle quali ospita la statua di un grande filosofo del passato; il preziosissimo porfido rosso che riveste le pareti ed il pavimento ci permette di intuire la funzione di questa ala del palazzo, adibita all’accoglienza e alle riunioni con ospiti illustri. 

Alle sue spalle si trova il luogo di ritiro dell’imperatore: si tratta di un’isola artificiale di 45 m di diametro, sulla quale è stata eretta una domus in miniatura che ricalca in tutto e per tutto la planimetria di una grande residenza aristocratica (comprensiva persino di un piccolo impianto termale). La domus è separata dal resto mediante un canale circolare ed è accessibile grazie alla presenza di un ponte ligneo mobile. 
Il complesso dell'isola artificiale (detto Teatro Marittimo)
Il Teatro Marittimo sulla sinistra e la Sala dei Filosofi sulla destra
Sul lato est del complesso si trova quella che è definita, per la ricchezza di decorazioni, come Piazza d’oro: marmi, statue e fontane dovevano rendere questa zona estremamente lussuosa ed adatta a funzioni pubbliche, come banchetti. L’ingresso all’area è costituito da una sala ottagona coperta da una cupola; esattamente come nel primo quadriportico, anche qui l’edificio è composto da un giardino centrale, tagliato da una vasca, intorno al quale si imposta un grande porticato con colonne in marmo cipollino e granito egiziano. 
Veduta aerea della Piazza d'Oro
Pianta della Piazza d'Oro
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Nelle immediate vicinanze del Pecile si trovano gli ambienti che vanno a costituire la residenza privata dell’imperatore: l’atrio è composto da un edificio con tre esedre introdotto da un ambiente caratterizzato dalla presenza di una grande fontana rettangolare; da questo si passa in un ampio giardino, parte del quale impiegato nel periodo estivo come area per banchetti, avente la forma di uno stadio per poi giungere alla residenza vera e propria. Alle spalle di questa Adriano inserisce una peschiera, cioè una vasca rettangolare circondata da un porticato e arricchita da un ciclo statuario. Collegato alla residenza è anche il complesso delle Piccole Terme, il cui enorme sfarzo nelle decorazioni e la vicinanza stessa con la domus, ne determinano l’attribuzione come terme private della famiglia imperiale. Le Grandi Terme invece sono destinate all’uso da parte degli ospiti della Villa e del personale stesso.

Pianta dell'Edifio con Tre Esedre
Le Piccole Terme
Le Grandi Terme
La villa è dotata anche di un lungo canale scenografico, circondato da colonne e decorato con statue in basalto, chiamato Canopo, per ricordare il medesimo canale che collega la città di Canopo con Alessandria d’Egitto, sul delta del Nilo; il complesso non ha alcuna funzione religiosa, ma solo l’obiettivo di ricreare un’ambientazione nilotica.
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Canopo
Il complesso prevede anche la presenza di una caserma, per l’alloggiamento di una piccola guarnigione a protezione della proprietà e dell’imperatore stesso, di un teatro su modello di quelli greci e di biblioteche.
La Villa continua ad essere impiegata anche dopo la morte di Adriano, almeno sino al III secolo d.C. Nel periodo medievale l’area è abbandonata ed il colossale impianto decorativo viene smantellato per la decorazione di altri edifici del periodo facendo della residenza imperiale una “cava” di materiali pregiati.
Immagini tratte da:
  • Pianta generale, da www.romanoimpero.com
  • Pecile 1, www.villaadriana.beniculturali.it/index.php?it/134/pecile
  • Pecile foto aerea, da youtube
  • Sala dei filosofi www.villaadriana.beniculturali.it/index.php?it/191/sala-dei-filosofi
  • Teatro marittimo, da Wikipedia Italia, Di Tango7174 - Opera propria, GFDL, voce “Villa Adriana”
  • Teatro marittimo e Sala dei filosofi www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Eventi/visualizza_asset.html_1263467417.html
  • Piazza d’Oro, da Wikipedia Italia, Di Davide 01 - Opera propria, CC BY-SA 4.0, voce “Villa Adriana”
  • pianta Piazza d’Oro da pinterest
  • pianta edificio con tre esedre e pianta residenza imperiale www.villa-adriana.net/pages/ita/page10.html
  • Piccole Terme, da Wikimedia Italia, File:Piccole Thermae of Villa Adriana.jpg
  • Grandi Terme, da Wikipedia Italia, Di Jastrow - Opera propria, Pubblico dominio, voce “Villa Adriana”
  • Canopo, da Wikipedia Italia, CopyrightedAttribution, voce “Villa Adriana” 

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