Ho appena lasciato Piazza del Duomo e sto lentamente percorrendo via Santa Maria in direzione dell'Arno.
Poco prima di giungervi, sulla mia sinistra, scorgo una chiesa, non molto visibile, ma bellissima. La guardo meglio e comprendo subito che le sue antiche pietre mi stanno parlando: è la Chiesa di San Nicola. Appoggio l'orecchio ad una colonna e sento la sua voce. Mi racconta la sua storia. È molto antica. Fu costruita nel 1097 ed aveva un convento annesso. Pare che fra il 1297 e il 1313 sia stata affidata agli Agostiniani ed ampliata per mano di Giovanni Pisano, ma non è molto sicura di ricordare questo particolare. Sai, è successo molto tempo fa... Recentemente un professore universitario ha scoperto che, nell'intarsio della lunetta dell'arco alla sinistra della porta principale, sarebbe celata la sequenza di Fibonacci. Infatti, secondo il professor Armienti, i rapporti tra il diametro dei vari cerchi raffigurati nell'intarsio, quando ordinati dal più piccolo al più grande, seguono la serie numerica del celebre matematico pisano. Un bel mistero, non c'è che dire. Mi dice anche che nel seicento fu aggiunto l'altare del Sacramento, attribuito a Matteo Nigetti. Sono stupito, ma lei mi zittisce e continua, invitandomi ad entrare. La meraviglia che mi coglie non appena oltrepassata la soglia della porta è indescrivibile. L'eco dei miei passi si disperde leggero tra le travi alte e gli occhi si abituano immediatamente alla luce soffusa, mentre un leggero odore di incenso misto a cera fusa penetra le mie narici. Resto immobile al centro della chiesa, mentre la sua voce mi indica le opere una ad una: la trecentesca Madonna col Bambino di Francesco Traini, San Nicola che salva Pisa dalla peste del XV secolo, tele del Maruscelli e di Giovanni Bilivert, sculture lignee dei secoli XIV-XV, un Crocifisso di Giovanni Pisano, una Madonna col Bambino di Nino Pisano, l' Annunciata di Francesco di Valdambrino... Sono senza fiato. Poi mi dice di aprire una piccola porticina seminascosta. Eseguo senza neppure sapere il perché e mi ritrovo in una tromba di scale ottagonale leggermente inclinata. La voce mi dice di salire ed obbedisco. Non ho paura né della mancanza di una ringhiera, né della pendenza. È un luogo troppo bello per ingenerare timore. Salgo senza fatica ammirando la crudità della pietra, finché non arrivo alla vetta e non vedo lo splendore della decorazione. Pietre grigie e nere che si intersecano tra loro a formare quasi un mosaico. Alzo gli occhi e, meraviglia, la cella campanaria ha una forma piramidale. Da lassù vedo la città e sento la pendenza. Capisco di aver scoperto un altro grande tesoro pisano. Peccato che sia sconosciuto ai più...
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Wikipedia Italia, Di Sailko - Opera propria, CC BY 2.5, voce "Chiesa di San Nicola (Pisa)"
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Leggere un libro significa prima di tutto liberare pienamente la propria fantasia. Le lettere formano le parole e le parole generano immagini, che nella nostra mente si uniscono e danno vita alle storie. E se un libro avesse anche una “plasticità”, trasformando così la letteratura in un’opera d’arte figurativa a tre dimensioni? Quando eravamo bambini, tutti noi abbiamo sfogliato infinite volte un libro pop-up, che, più degli altri libri di favole e racconti incantati, era in grado di sprigionare tutta la magia insita nella lettura stessa.
Attraverso una selezione dalla prestigiosa e ricchissima – contando circa tremila titoli – collezione di Massimo Missiroli, la Fondazione Culturale Hermann Geiger, con sede a Cecina (LI), ci conduce fra le pagine animate di una storia lunga ormai un secolo e mezzo, raccontandoci l’origine e la raffinata tecnica di realizzazione dei primi libri tridimensionali, giungendo quindi ai moderni pop-up, che hanno a poco a poco coinvolto anche il mondo degli adulti, con forme e strutture dal design sempre più artistico e “ingegneristico”. Paper engineers, o cartotecnici, è infatti il termine con il quale fin da subito l’editoria ha indicato gli autori di libri animati, veri e propri artisti della carta. La mostra, perla rara al centro della cittadina turistica sulle coste tirreniche, occupa i due piani del palazzo al numero 32 di Piazza Guerrazzi. Il criterio espositivo, scelto dalla curatrice Giulia Santi, fa compiere allo spettatore un salto indietro nel tempo di qualche anno, o di qualche decennio, nella propria infanzia. La visita – con ingresso sempre gratuito – ha inizio osservando libri pop-up dall’aspetto e dai soggetti familiari, perché di più recente esecuzione: si tratta di edizioni contemporanee, risalenti al massimo agli anni ’80 del secolo scorso. Il corpo umano, la fotografia, i più celebri film hollywoodiani, la saga di Star Wars sono soltanto alcune delle tematiche che nei libri esposti assumono un rilievo e sembrano prendere vita. Vi sono quindi i pop-up d’autore, come i capolavori dell’artista cecoslovacco Vojtěch Kubašta (1914-1992) che, a causa della Guerra Fredda, raggiunsero l’Ovest europeo soltanto grazie a un accordo con la casa editrice londinese Bancroft, passando per l’Andy Warhol’s Index (Book) del 1967, fino alle colorate e complesse figure geometriche di David Carter le quali, per alcuni aspetti, ricordano il mondo dell’astrattismo e i Mobiles dello scultore americano Alexander Calder (1898-1976), oppure alle monocrome ed eleganti sculture di carta di David Pelham, i cui disegni sono stati esposti, fra gli altri musei, al MOMA di New York, negli anni 2000.
Un pannello della mostra è poi dedicato al processo di realizzazione di un libro pop-up, che vede la collaborazione di numerose figure professionali, illustrato passo dopo passo da Missiroli, lui stesso cartotecnico per passione. Salendo infine al primo piano, l’esposizione assume una dimensione storica, ripercorrendo, attraverso le tipologie e gli esemplari più significativi, i momenti salienti dell’evoluzione che ha portato alla nascita del libro pop-up, da collocarsi nel 1932, quando cioè il termine “pop-up” stesso divenne un marchio registrato e tutelato da copyright, e prima che indicasse semplicemente una categoria. Dagli scenic book di fine Ottocento, alla realistica tecnica del floating layers, dal felice connubio con gli studi Disney ai “libri-teatro”, i pop-up non finiscono di stupire grandi e piccoli, e, da generazioni, continuano a educare divertendo, non senza un pizzico di magia.
La mostra è aperta tutti i giorni, dalle 16 alle 20, fino al 18 febbraio 2018 – ingresso libero e copia del catalogo in omaggio.
Per ulteriori informazioni: www.fondazionegeiger.org/it/la-fondazione/contatti.html Foto tratte da: Immagini 1-2: www.fondazionegeiger.org immagine 3: www.creatiefboekbinden.be immagine 4: www.edsykesblog.blogspot.it Immagini 5-6: www.fondazionegeiger.org Potrebbe interessarti anche:
Siamo nei primi anni del Cinquecento quando, per volere del duca Alfonso I d’Este, lavorò a Ferrara uno scultore di origini veneziane dalle eccellenti doti scultoree: Antonio Lombardo.
Frammentarie e scarse sono le informazioni biografiche che possediamo, ma consolidata è la sua genialità. Nel 1507 il duca di Ferrara gli commissionò una serie di rilievi a soggetto mitologico che avrebbero decorato lo Studio dei Marmi, ossia uno degli ambienti collocati all’interno del suo appartamento privato presso Via Coperta. Attualmente, i rilievi non occupano più la loro originaria collocazione, ma sono in gran parte custoditi presso il Museo dell’Ermitage a San Pietroburgo. L’ideatore del programma iconografico fu Mario Equicola, un umanista campano dell’epoca, mentre nei panni di consulente vi fu il poeta e uomo di corte Niccolò da Correggio. Il primo tra i quattro altorilievi maggiori ad essere stato scolpito rappresenta La Contesa tra Minerva e Nettuno per il dominio sull’Attica.
Il mito racconta la sfida tra Minerva (Atena) e Nettuno (Poseidone) per mezzo dei regali che le due divinità avrebbero offerto alla città di Atene.
La scena è ambientata sull’Acropoli e Minerva e Nettuno hanno con sé i loro doni, rispettivamente un albero di ulivo con la civetta a protezione delle Arti e un cavallo. Di notevole interesse, però, è la figura all’estrema destra, una sorta di giudice colto nell’atto di esprime le proprie considerazioni in merito al futuro della città. Il soggetto in questione non è stato ancora ben identificato, ma potrebbe trattarsi di Dionisio, il dio dell’estasi e del vino che tanto aveva affascinato il duca estense. All’anno successivo si colloca, invece, un rilievo che nel corso del tempo è stato oggetto di numerose interpretazioni, noto come Allegoria di Ferrara.
Oggetto di discussione, infatti, è la figura femminile al centro dell’opera: la donna è seminuda e con una mano afferra una tavola epigrafica in cui compare un passo tratto dal De Officiis di Cicerone, in cui si delineano come esempi di virtus repubblicana Catone e Scipione l’Africano, due personalità di spicco nelle quali Alfonso I era chiamato a identificarsi.
Inizialmente la fanciulla fu interpretata come Anfitrite, ma attualmente è più accreditata l’attribuzione che la vede nelle vesti della fondatrice della città: il mito, infatti, narra che una fanciulla proveniente da Troia giunse in Italia per fondare Ferrara. Dunque, tale rilievo risulterebbe un vero e proprio omaggio alla città estense e alla sua fondatrice. Nel 1509 nel palazzo Ducale di Ferrara venne messo in scena uno spettacolo che aveva come protagonisti Vulcano e i Ciclopi. Parallelamente Antonio Lombardo stava realizzando per lo Studio dei Marmi La Fucina di Vulcano.
La scena è ambientata nella fucina del dio del fuoco in cui i ciclopi sono colti in varie pose e occupazioni. I loro corpi alludono, indubbiamente, alla maestosa bellezza del Laocoonte, celebre scultura di età ellenistica che, probabilmente, Alfonso I ebbe modo di ammirare l’anno precedente durante il suo viaggio romano in compagnia di Antonio Lombardo. Oltre ai ciclopi si osserva un giovane munito di mantello che irrompe sulla scena. Questa figura maschile, se confrontata con quella di Vulcano nel Parnaso (1497) di Andrea Mantegna, con tutta probabilità rappresenterebbe proprio il dio del fuoco.
Infine, il quarto dei rilievi maggiori che all’epoca si poteva ammirare nello Studio dei Marmi è L’apoteosi di Ercole sull’acqua (1510) in cui si allude alla memorabile vittoria di Ferrara su Venezia, passata alla storia come Battaglia di Polesella.
Dunque, Alfonso I non commissionò dei semplici rilievi marmorei, ma affidò ad Antonio Lombardo il compito di rendere omaggio alle virtù e al vigore del duca, nonché di fissare su pietra e nella memoria un vero e proprio trionfo estense.
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Oggi vorrei parlare, dal punto di vista archeologico, del paese che per ben diciotto anni ha rappresentato la mia casa: Sarno.
Sarno è una piccola cittadina campana in provincia di Salerno, situata ai piedi del monte Saro. Tra le frazioni che la compongono, quella denominata “Foce” ha restituito alla luce tombe, oggetti e monumenti antichi.
Fra le diverse bellezze emerse vorrei citare il teatro ellenistico-romano la cui prima fase si data intorno al 100 a.C., modificato successivamente in età augustea. Venne scoperto negli anni sessanta mentre si svolgevano i lavori per la costruzione di una fabbrica Star. Del teatro è visibile in parte la cavea (dove si sedevano gli spettatori) con la proedria (i sedili più vicini alla scena) in blocchi di tufo, l’orchestra, le parodoi (gli ingressi laterali) e la base del pulpitum (il palcoscenico). La proedria terminava ai lati con la decorazione di due figure alate: una sfinge e un leone. Simboli che erano riservati per le alte personalità cittadine.
Tale decorazione si ritrova, ad esempio, nel teatro di Pietrabbondante (Molise), datato intorno al II secolo a.C., dove le estremità della proedria sono decorate con zampe di grifo e anche nel piccolo teatro di Pompei, che però si data intorno all’80 a.C.
Per comprendere l’importanza di tale teatro basti pensare che teatri in muratura all’interno della città di Roma non vi saranno, per opposizione del Senato, fino al 55 a.C. quando Pompeo ne farà costruire uno. Infatti, fino a quella data gli spettacoli come le commedie di Plauto e di Terenzio, per intendersi, venivano messe in scena a Roma all’interno di teatri in legno che, alla fine della performance, venivano smontati. Invece, in ambiente italico, a partire dal II secolo a.C., vi sarà una proliferazione di teatri in muratura. I tre meglio noti di Sarno, di Pietrabbondante e quello grande di Pompei (II secolo a.C.), oltre a essere accomunati, coma abbiamo visto, da elementi decorativi, sono molto vicini anche dal punto di vista architettonico. In particolar modo, il teatro grande di Pompei si avvicina molto alla prima fase del teatro di Sarno per la scena, per i proscenia e la paradoi coperte. Altri elementi di raccordo fra i tre teatri sono le parodoi parallele alla scena, la simile conformazione dell’orchestra e la parte inferiore della cavea formata da pochi filari di gradini.
Come abbiamo visto, questa è solo una delle bellezze riemerse dopo tanto tempo di oblio, ma ce ne sono tante altre che, a Sarno e nei suoi dintorni, aspettano soltanto di essere scoperte.
Foto tratte da: Wikimedia commons, autore GinafrancoVitolo CC BY-SA 4.0. ZOn.it. Sylvhem, CC BY-SA 3.0, voce: Teatro Grande di Pompei.
È una bellissima giornata e il sole splende alto nel cielo riflettendosi sull'Arno che scorre tranquillo.
Decido di fare due passi e imbocco il Lungarno Galilei da Piazza Venti Settembre. Poco dopo vengo fermato da un paio di turisti che, in un italiano stentato, mi chiedono: "Cosa essere quella?" indicandomi la Chiesa del Santo Sepolcro. Sto per aprire bocca, quando un uomo anziano si avvicina: "Se permetti rispondo io." mi dice sorridendo, mentre mi mette una mano ossuta sulla spalla. Poi riprende: "Quella che vedete è una costruzione molto speciale. È stata progettata dal Diotisalvi, lo stesso architetto che ha realizzato il Battistero e nel 1113 esisteva già. C'è una lapide sul campanile e recita HUIUS OPERIS FABRICATOR DeuTESALVET NOMINATur. E' una specie di firma." Mi giro e vedo i due turisti estasiati, ma in realtà lo sono anch'io. L'uomo è felice di raccontare questa storia, glielo si legge in faccia. Fa una piccola pausa per assicurarsi di essere seguito e riprende: "Questa è una chiesa importante. Già, apparteneva all'Ordine dei Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme e vi erano annessi anche un convento e un ospedale. L'ospedale, in realtà, era immediatamente fuori dal quartiere di Kinzica, a pochi passi da qui." Si guarda intorno e fa un profondo respiro. È incredibile la passione con cui riesce a raccontare la storia di quel monumento e in suoi occhi spaziano, quasi stessero cercando qualcosa. I turisti lo incitano a procedere. Gli sorride e riprende a parlare: "Come potete vedere ha una forma ottagonale. Non è certo un caso. Riproduce la moschea di Omar, che a quel tempo si riteneva fosse il Tempio di Salomone e all'interno la pianta circolare riproduce il Sepolcro di Cristo. Vi sono altri esempi in Europa, il più famoso dei quali è la Temple Church di Londra, che però era templare. Quando l'Ordine fu soppresso passò a quello di Malta, suo erede naturale." Ancora un sospiro e gli occhi che si alzano al cielo: "Il nome Santo Sepolcro nasce dal volere dei pisani che, dopo una crociata con me alla loro testa, vollero costruire un edificio che fosse chiesa, convento, albergo ed ospedale insieme." Trasecolo, mentre i turisti sembrano non aver capito: "Ma, mi scusi, come si chiama lei?" chiedo tremante. Sorride sornione: "Daiberto, Arcivescovo di Pisa..." Immagini tratte da www.medioevo.org
Talvolta, nei film Disney, capita di trovare affinità con opere d'arte, e fu proprio una statua a ispirare Walt Disney nella creazione di uno dei personaggi più emblematici della storia dei film d’animazione.
Nel 1935, la Walt Disney lavora alla creazione del primo lungometraggio di animazione di Disney con protagonisti non animali antropomorfizzati ma esseri umani: Biancaneve e i sette nani. Si cercano i modelli per i protagonisti e nello studio di animazione tutto è in fermento. Le scrivanie sono colme di schizzi, libri di fiabe e testi d'arte; si tratta del momento più faticoso e creativo, in cui ogni idea viene vagliata con attenzione. Dopo aver individuato le fattezze di Biancaneve, si vuole dare un volto alla matrigna della candida fanciulla, il cui nome dalle assonanze wagneriane è già pronto: Grimilde. Il grafico Wolfgang Reitheman, figlio di un immigrato tedesco finito in California, suggerì al suo capo l'immagine di Uta, che aveva conosciuto attraverso una serie di libri d'arte del padre. Disney fu colpito dalla fotografia della statua indicatagli dal suo collaboratore: «Era proprio bella, anzi impressionava e quasi raggelava, forse era da pensare a lei come modello per quella che ormai tutti erano d’accordo di chiamare col bel nome tedesco di Grimhilde (…)». Disney partì nello stesso anno per un tour europeo assieme al fratello Roy, durante il quale acquistarono più di trecento volumi d’arte in vista del lungometraggio (è noto a tal proposito come gli alberi parlanti ricordino quelli disegnati da Gustavo Doré per la Divina Commedia di Dante) e, seguendo il consiglio del grafico dall’idea brillante, i due visitarono Naumburg e ammirarono da vicino la statua della bella Uta. Fu proprio lei a prestare i suoi occhi verdi e la sua bellezza ammaliante alla matrigna di Biancaneve! La somiglianza è notevole.
Benché la storia di Biancaneve e di Grimilde sia nota a tutti, meno conosciuta è invece colei che ha donato il volto all’antagonista più celebre delle fiabe.
Uta di Ballenstedt, più nota come Uta di Naumburg, è stata margravia di Meissen dal 1031 al 1046 e moglie di Eccardo II, della dinastia Ekkehardinger. La statua che la raffigura si trova nella chiesa di Naumburg, piccola cittadina della Sassonia che possiede una splendida cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, considerata il più importante edificio della transizione dal romanico al gotico di tutta la Germania e, forse, di tutta l'Europa. La celebrità di questa nobildonna medievale è dovuta al fatto che il cosiddetto Maestro di Naumburg, operante nel cantiere del duomo gotico tra il 1250 e il 1260, realizzò nel coro, dodici statue in arenaria dei margravi, tra cui quelle di Uta e del marito.
La donna appare molto bella e visibilmente distaccata dalla vita di Eccardo, divisi dalla sua spada e dallo scudo. Indossa una veste ornata da un prezioso medaglione e stringe tra le sue mani un pesante mantello dall’ampio bavero, rialzato sulla nuca, che copre completamente il suo corpo. Il volto è racchiuso da un bianco soggolo orlato d’oro, sovrastato da un diadema decorato con dei gigli. Gli occhi a mandorla, le sopracciglia arcuate, il naso dritto e le labbra appena ravvivate di rosso carminio richiamano nella mente l’immagine dell’eleganza e della raffinatezza, le stesse caratteristiche della donna che incarna la crudeltà e l’invidia della matrigna che interroga il suo specchio magico chiedendogli chi sia “la più bella del reame”. Grazie a Walt Disney e in particolare al suo grafico, forme d’arte statica si intrecciano a forme d’arte dinamiche, la statua di Uta rivive in Grimilde e nel mondo fantastico delle fiabe Disney!
Immagini tratte da: http://blog.labottegadimanuzio.com http://www.engramma.it
L’ascesa al trono macedone di Perseo, figlio di Filippo V, e il suo progetto di restituire alla Macedonia l’antico splendore attraverso una serie di forti alleanze, spinge i Romani a intervenire nello scenario ellenistico dando così inizio alla terza guerra macedonica (171-168 a.C.).
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In seguito all’andamento altalenante delle sorti della guerra, il Senato decide di affidare, nel 168 a.C., il comando delle operazioni al console designato Lucio Emilio Paolo, figlio del console caduto a Canne e uomo di grande esperienza politica e militare. Le truppe di Perseo sono attestate oltre il fiume Elpeo, in una posizione difficilmente espugnabile con un assalto frontale: per tale motivo la strategia di Emilio Paolo è quella di dividere le forze per aggirare e circondare l’esercito macedone. Perseo viene però avvisato del piano da un disertore ed ha la possibilità di ritirarsi più a nord, accampandosi al di là del fiume Leuco, a 20 km dalla città di Pidna. Il console si posiziona invece sul lato opposto del fiume e fortifica la sua posizione: 37 mila Romani e 42 mila macedoni divisi solo da un corso d’acqua.
È un cavallo a causare l’inizio dello scontro: il 22 giugno, verso le tre del pomeriggio, un cavallo scappa dall’accampamento romano e si dirige verso il fiume inseguito da tre uomini; sull’altra sponda, due Traci si separano dal loro gruppo e si immergono nelle acque per prenderlo. Lo scontro che ne scaturisce determina la morte di uno dei Traci e la pronta risposta dell’intero contingente che si prepara per guadare il Leuco e vendicare il compagno.
Sia Emilio Paolo che Perseo schierano a questo punto i loro eserciti. Il centro dello schieramento macedone è tenuto dall’impenetrabile falange greca composta dai leucaspidi, soldati scelti con scudo bianco e armatura dorata, e dai numerosi calcaspidi, i reparti con gli scudi di bronzo; sul lato destro sono disposti i Traci, vestiti con tuniche bianche e nere e armati con asce da battaglia e scudi, mentre a sinistra la mancanza di uniformità nelle armi è attribuibile alla presenza dei mercenari assoldati da Perseo. Alla falange il console oppone le legioni, mentre a destra e sinistra dispone rispettivamente gli alleati latini e gli alleati greci. La cavalleria occupa le ali di entrambi gli eserciti, ma i Romani dispongono anche di un certo numero di elefanti da guerra.
L’impeto iniziale dei reparti macedoni spinge i Romani ad indietreggiare e la falange si ritrova ad avanzare su un terreno non più perfettamente pianeggiante: nell’impenetrabile barriera di lunghe lance e scudi tondi si aprono dei pericolosi varchi nei quali Emilio Paolo spinge subito i manipoli di una legione, esortando anche l’altro comandante a fare lo stesso con la seconda legione.
In breve la falange si sfalda ed i macedoni, obbligati a combattere con spade e pugnali, vengono sopraffatti dai legionari: molti tentano la fuga in direzione del mare dove la flotta romana, calate le scialuppe, procede a uccidere tutti coloro che si trovano in acqua. Una carica di elefanti massacra quelli che indugiano sulla riva.
Perseo, di fronte alle sue truppe in rotta, si rifugia dapprima a Pella, poi a Samotracia, tentando di trattare con il vincitore per mantenere la sua pozione regale ma viene catturato durante uno degli spostamenti successivi e fatto prigioniero. Portato a Roma per essere esibito durante il trionfo nel 167 a.C., muore in prigione due anni dopo.
Il campo di battaglia vede la morte di 20 mila macedoni e la cattura come prigionieri di altri 11 mila uomini, contro le 100 perdite romane: ha così termine la terza guerra macedonica, in seguito alla quale la Macedonia viene suddivisa in quattro repubbliche indipendenti perdendo la possibilità di tornare la potenza tanto sognata da Perseo. Immagini tratte da: Perseo, da Wikipedia Italia, By PHGCOM (Own work by uploader, photographed at the British Museum), Public Domain, voce “Perseo di Macedonia” Mappa, da Wikipedia Spagna, De Pydna.jpg: Marsyas (discusión · contribuciones)derivative work: rowanwindwhistler (discusión) - Pydna.jpg, CC BY-SA 3.0, voce “Battalla de Pidna” Ara Domizio Enobarbo, da Wikipedia Italia, Di sconosciuto - Jastrow (2007), Pubblico dominio, voce “Esercito romano della media repubblica” Falange macedone, da www.pinterest.com Scontro, da www.capitolium.it
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Il Marte di Todi è una statua etrusca risalente alla fine del V secolo a.C. e conservato, oggi, ai Musei Vaticani. Si tratta di un’opera in bronzo fuso ritrovata nei pressi della città umbra di Todi. È stato definito come Marte, ma c’è anche un’altra ipotesi: potrebbe rappresentare un generale in partenza per la guerra.
La statua poggia sulla gamba destra tesa, mentre la gamba sinistra è portata in avanti e piegata. Il busto presenta un sinuoso movimento a “S” ed è coperto da una lorica. Con la mano sinistra doveva tenere una lancia e nella mano destra una patera con la quale stava compiendo una libagione. Gli occhi sono lavorati in argento e sul capo doveva tenere un elmo. La statua reca anche una dedica: Ahal Truttis dunum dede (Ahal Truttis ha offerto in dono). Lo stile ricorda molto da vicino quello delle statue greche e tali schemi iconografici venivano recepiti in ambito etrusco soprattutto dalla città di Volsinii, l’odierna Orvieto. Mettendo insieme questi elementi si pensa che la statua sia stata realizzata a Volsinii e poi donata da questo Ahal Truttis a un santuario presso l’odierna città di Todi. ![]()
Da Montescudaio (PI) proviene invece un cinerario a impasto datato alla prima metà del VII sec.a.C e oggi conservato al Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Si tratta di un’urna etrusca decorata con figure realizzate plasticamente. Sul coperchio dell’ossuario è presente una scena di banchetto a cui prendono parte due figure: una donna, forse una serva, in piedi accanto a un grande cratere, simile a quelli greci e una figura seduta alla trapeza (tavola) sulla quale sono posti diversi cibi. Si tratta di un banchetto funebre in onore del defunto che è rappresentato seduto sull’ansa. Quest’ultimo ha la testa leggermente alzata e lo sguardo rivolto in avanti.
Nel lontano 16 maggio 1898 nacque a Varsavia una donna destinata a lasciare un’impronta estremamente decisiva e duratura nel panorama artistico di inizio Novecento. Stiamo parlando di Tamara Rosalia Gurwik, meglio nota come Tamara de Lempicka.
Tamara de Lempicka trascorse i primi anni di vita insieme alla madre e ai fratelli poiché il padre la abbandonò quando era ancora una bambina. Fondamentali furono l’affetto e il sostegno della nonna Clementine. Grazie a lei, infatti, frequentò il prestigioso Collegio Polacco di Rydzyna e la Villa Claire di Losanna, in Svizzera. Nel 1907 ancora in compagnia della nonna Clementine, Tamara de Lempicka compì il suo primo viaggio in Italia manifestando così la sua sfrenata passione per la pittura. Con la morte dell’amorevole nonna, a solo 18 anni la futura pittrice si trasferisce a San Pietroburgo dove per la prima volta le viene commissionato un ritratto. Successivamente, a causa del clima di tensione alimentato dalla Rivoluzione Russa del 1918, Tamara de Lempicka si trasferì a Parigi dove, insieme al marito, iniziò a frequentare i salotti dell’alta società. All’età di 24 anni, invece, partecipò alla sua prima esposizione al Salon d’Automne (un’esposizione di opere d’arte che si tiene annualmente a Parigi) che le permise di affermarsi nelle vesti di ritrattista. I protagonisti delle sue tele erano per lo più celebri donne parigine; donne irraggiungibili, tanto raffinate quanto malinconiche. Al 1925 risale la Danzatrice russa, un’opera che, di fatto, presenta un’elegante figura femminile colta in un momento di riflessione.
Lo sguardo rivolto alla destra dello spettatore allude, infatti, a un istante in cui la donna è totalmente assorta nei suoi pensieri.
Ben presto la pittrice di origine polacca, però, precipitò nel vortice dei vizi e dell’eccentricità della vita mondana. Si circondò di amanti, cominciò a fare uso di sostanze stupefacenti e frequentò gli ambienti più in voga dell’epoca. Tuttavia, la vita mondana divenne motivo di forte stimolo per l’attività pittorica di Tamara de Lempicka. Negli anni Trenta del Novecento la sua fama è ormai universale; numerosi, infatti, furono i viaggi in Europa e ricorrenti furono le mostre che portavano la sua firma. Di questo fertile periodo si ricorda il celeberrimo Autoritratto nella Bugatti verde (1932).
Si tratta di un olio su tavola commissionato per la copertina della rivista di moda Die Dame e attualmente riconosciuto come il capolavoro più rappresentativo e noto di Tamara de Lempicka. La pittrice si raffigura nelle vesti di una femme fatale. Una bellissima donna che con la sensualità dello sguardo e la cura del vestiario è capace di ammaliare un uomo in un istante. Altro elemento che esprime il legame con la moda del tempo è, indubbiamente, l’automobile, oggetto che a partire dall’estetica avanguardistica dei Futuristi fu in grado di suscitare il medesimo fascino di una donna.
Dal punto di vista pittorico, invece, i colori sono vivaci e le linee nette e decise. Con l’avvicinarsi degli anni ’40, però, la sua notorietà andò offuscandosi a causa di una grave depressione. Di questi anni rimembriamo La fuga, un’opera attualmente custodita al Musée des Beaux-Arts di Nantes che rimanda ai tragici eventi generati in Europa dal Nazismo.
Il soggetto, infatti, è una tenera madre che con il proprio bambino tra le braccia mostra sul volto i segni della disperazione e della paura.
Nonostante ciò un’ulteriore svolta si presentò nel 1943 quando si trasferì negli Stati Uniti per ritrovare quella pace ormai smarrita. Qui, infatti, trovò nuovamente la sua meritata fama e la sua serenità. La vita di Tamara de Lempicka si concluse nel marzo del 1980 in Messico; per sua volontà il corpo venne cremato e le sue ceneri furono sparse sul vulcano Popocatepeti. Foto tratte da: www.delempicka.org www.inturintoday.com www.artesplorando.it www.caffetteriadellemore.forumcommunity.net |
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Gennaio 2022
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