La Cappella Sistina prende il nome da Papa Sisto IV della Rovere, pontefice dal 1471 al 1484. Uomo colto, amante dei libri e dell’arte, durante il suo pontificato, arricchì la biblioteca vaticana di preziosi classici rendendola accessibile agli umanisti e, inoltre, creò il primo nucleo di quelli che saranno poi i musei capitolini.
Tra il 1477 e il 1480 Papa Sisto fece ristrutturare l'antica Cappella Magna, aula fortificata di età medioevale, che accoglieva le riunioni della corte papale. Secondo alcuni studiosi, le sue imponenti dimensioni (40,23 metri di lunghezza, 13,40 metri di larghezza e 20,70 metri di altezza) fanno pensare a un’importante similitudine con il grande tempio di Salomone a Gerusalemme.
L’esterno della Cappella presenta una struttura semplice, solida e austera, con finestre alte e strette e nessun parato decorativo. Al contrario, per l’interno il pontefice richiese una decorazione ricca e sfarzosa. A tal proposito, incaricò i più grandi pittori del tempo come Botticelli, Ghirlandaio, Cosimo Rosselli, Signorelli, Perugino e Pinturicchio. Essi realizzarono all’altezza delle finestre, inseriti entro nicchie monocrome, i ritratti a figura intera dei papi che hanno preceduto Sisto IV; l’Assunzione al cielo della Vergine Maria sull’altare e nella fascia mediana, quella più importante, scene di storie bibliche con episodi della vita di Mosè e di Cristo. Per il soffitto della Cappella invece, era stata prevista una decorazione con stelle dorate su fondo azzurro ad opera del pittore Pier Matteo d’Amelia.
Alla morte di Papa Sisto IV venne eletto il nipote, Papa Giulio II, che decise di modificarne in parte la decorazione. Così chiamò a Roma Michelangelo Buonarroti, artista già molto famoso a Firenze, che accettò, con iniziali polemiche, di ridecorare la volta raffigurando la storia dell’umanità nel periodo che precede la venuta di Cristo. Le difficoltà che il Buonarroti affrontò non furono poche. La superficie era vastissima e Michelangelo non volle l’aiuto di collaboratori. Nonostante ciò portò a termine l’opera in quattro anni di duro lavoro (dal 1508 al 1512). Il pittore dipinse in nove riquadri le Storie della Genesi, dalla Creazione alla Caduta dell'uomo, dal Diluvio alla rinascita dell'umanità con Noè. É probabile il riferimento alla prima lettera di Pietro, dove l'acqua del diluvio è vista come segno profetico dell'acqua del Battesimo. Negli spazi tra le vele compaiono cinque Sibille e sette Profeti seduti sui loro troni. Nei quattro pennacchi angolari appaiono le Salvazioni miracolose di Israele, mentre nelle vele e nelle lunette figurano gli Antenati di Cristo.
Verso la fine del 1533, Papa Paolo III Farnese, volle apportare l’ennesima modifica alle decorazioni della cappella. Egli incaricò Michelangelo di rinnovare completamente la parete d’altare. Così l’Assunzione della Vergine e le prime due scene dei cicli di Mosè scompaiono dando spazio alla celeberrima scena del Giudizio Universale (1536 e il 1541). Il tema rappresentato questa volta è il Fato che incombe su tutti gli uomini del cui destino Dio è arbitro assoluto. Michelangelo non rinuncia al nudo, diventa anzi un mezzo indispensabile per rappresentare la resurrezione della carne. Ma nel clima della Controriforma quei corpi però creano scandalo. Le figure considerate “scandalose” vengono coperte da panneggi.
Negli anni Ottanta e Novanta del Novecento la Cappella Sistina ha subito un grande intervento di pulitura. Per quasi cinquecento anni il fumo prodotto dai ceri si è depositato sulle pareti, rendendo scuri i colori originari.
Immagini tratte da: Wikipedia, pubblico dominio, voce: Cappella Sistina www.cappella-sistina.it
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di Andrea Samueli ![]() Titolo: Guerra segreta nell’antica Roma Autrice: Rose Mary Sheldon Casa editrice: Libreria Editrice Goriziana (collana LeGuerre) Pagine: 478 Prezzo: formato cartaceo 26 € EAN: 9788861020214 Colonnello dell’esercito e docente di storia antica al Virginia Military Institute, Rose Mary Sheldon unisce le due carriere in questo saggio riguardante le attività di intelligence nel mondo romano, con il duplice obiettivo di sfatare il mito secondo cui i Romani non ne avrebbero fatto uso per senso dell’onore e fornire un’accurata documentazione dell’attività spionistica di Roma. I primi capitoli sono infatti dedicati ad un’analisi storica e cronologica dell’evoluzione del pensiero militare romano: l’autrice parte dal IV secolo a.C. mostrando i primitivi, seppur presenti, metodi di raccolta di informazioni in uso nel periodo, dall’utilizzo di ricognitori ed esploratori agli interrogatori di prigionieri e disertori, sino alle più mistiche rivelazioni religiose. Il passare del tempo porta a mutamenti nell’esercito, dalla falange al manipolo, ed anche nel settore dell’intelligence ci sono una serie di cambiamenti, primo fra tutti una maggiore consapevolezza dell’importanza di reperire informazioni utili su nemici e altri popoli presenti nello scacchiere internazionale. Per fare ciò, fondamentali sono le relazioni intrecciate con i popoli alleati e soprattutto i resoconti dei mercanti, veri occhi e orecchie di Roma all’estero. L’incontro/scontro con il mondo punico e le pesanti sconfitte subite ad opera di Annibale obbligano Roma a rivedere nuovamente il settore spionistico avvalendosi all’estero di diplomatici, commercianti, messaggeri e spie. Le capacità romane si affinano ma la mancanza di specializzazione è ancora evidente, come emerge soprattutto dal contatto con il mondo ellenistico. Grandi cambiamenti avvengono verso la fine della Repubblica: generali come Giulio Cesare comprendono che la buona riuscita di una battaglia o di una campagna dipende anche dalle informazioni raccolte e debitamente diffuse. Cesare fa ampiamente ricorso all’uso di esploratori a cavallo (exploratores) e di spie infiltrate tra le tribù nemiche (speculatores); a lui va la creazione di un primo sistema di posta ufficiale per l’invio di informazioni affidato a messaggeri di fiducia. Ma è con Augusto, il primo imperatore, che si assiste ad una vera svolta in questo settore. Il servizio postale viene potenziato e centralizzato (cursus publicus) e, al fine di avere maggiori informazioni per future conquiste, si intraprendono missioni esplorative militari. Ogni legione è ora dotata di un corpo di intelligence affidato agli speculatores e gli stessi militari possono svolgere incarichi “in borghese”. Augusto non si limita a ricercare informazioni oltre i confini dell’impero, ma realizza anche un sistema di sicurezza interno volto a scoprire eventuali cospiratori e a sedare ribellioni e rivolte. Giunti ad Augusto, l’autrice interrompe l’analisi cronologica per dedicarsi allo studio di argomenti specifici. I corrieri, i codici e i segnali luminosi, in sostanza i sistemi di trasmissione delle informazioni in uso in epoca imperiale, le permettono di prendere in esame le linee difensive in Britannia e sul limes germanico. I due capitoli successivi sono incentrati infine sulle figure professionali impiegate nei servizi segreti, i frumentarii prima, militari per lo più con compiti di spionaggio e assassinio, e gli agentes in rebus e i notarii poi, corrispettivo civile dei primi. La grande conoscenza della materia da parte dell’autrice è evidente, così come la volontà di creare un testo che possa avvicinarsi anche ai non “addetti ai lavori”. Nonostante l’argomento sia molto specialistico, questo non appare appesantito grazie allo stile semplice e lineare; gli eventi e le informazioni date vengono sempre spiegate accuratamente, rimandando per eventuali approfondimenti al ricco apparato di note al termine di ogni capitolo. Inevitabilmente l’enorme arco di tempo preso in esame, dalle origini sino al II secolo d.C., fa sì che molti eventi storici non vengano analizzati e ciò influisce sulle considerazioni finali dell’autrice (o forse sono proprio le idee della Sheldon a portare alla scelta di determinati eventi). Prendere in esame, in un lasso di tempo di sei secoli, solo alcune, seppur fondamentali, battaglie, come esempi della mancanza di un sistema di intelligence adeguato nel mondo romano, appare perlomeno avventato: sicuramente non tutti i generali e gli ufficiali romani si comportarono come Crasso o Varo e la dimostrazione è la durata stessa dell’impero (conclusione alla quale sembra poi giungere, contraddicendosi, anche l’autrice nell’ultimo capitolo). Bisogna poi considerare i mezzi e le conoscenze del periodo ed è questo ciò in cui pecca probabilmente il saggio, l’immedesimarsi in un mondo così distante dal nostro. L’esempio di Cesare in Britannia è emblematico: definire Cesare più fortunato che abile significa sottovalutare la situazione in cui il generale si trovò, costretto alle prese con una terra completamente sconosciuta e con i sistemi di trasmissione a disposizione. Nel complesso si tratta comunque di un ottimo libro, ricco di spunti di riflessione e punto di partenza per studi più approfonditi. Immagine tratta da:
www.ibs.it 200 le opere dell'artista americano sono esposte alla Cittadella della località ligure sino al 4 marzo Una grande mostra degna di prestigiosi e noti spazi espositivi che consentirà a Sarzana di compiere quel salto di qualità nella proposta delle mostre d'arte che la porrà al pari di grandi città italiane. Non può che definirsi così la mostra dedicata a Andy Warhol, il famosissimo padre della Pop Art, che si terrà dal 24 novembre 2017 al 5 marzo 2018 alla Fortezza Firmafede e che, senza ombra di dubbio, richiamerà nella nostra città migliaia di turisti. Dunque a trent'anni dalla morte Sarzana sceglie di fare un omaggio a uno dei più importanti e influenti artisti del XX secolo. Grande infatti è il patrimonio lasciato in eredità da Warhol e l'esposizione sarzanese, curata da Eugenio Falcioni, studioso, esperto e tra i maggiori collezionisti dell'artista americano, e da Matteo Bellenghi, già curatore di diverse mostre, ne proporrà uno spaccato unico nel suo genere, con opere esclusive, oltre a una tra le più importanti collezioni di polaroid. "Con la mostra di Andy Warhol e le sue 200 opere esposte - dice il sindaco Alessio Cavarra- Sarzana compie quello scatto in avanti che ci consente di entrare nel circuito delle città italiane capaci di ospitare grandi mostre d'arte, un obiettivo che ci eravamo prefissati e che oggi abbiamo orgogliosamente raggiunto". In effetti in Italia non esistono città delle dimensioni di Sarzana che ospitano mostre di questo livello: per trovare un paragone bisogna cercarlo in città ben più grandi come Milano, Genova, Firenze. “Qualche mese fa- continua l'assessore alla cultura Nicola Caprioni- abbiamo aperto lo spazio della Cittadella alla mostra delle macchine di Leonardo da Vinci ed è stato un successo che ci ha convinti a proseguire su questa strada, come poi abbiamo fatto con la mostra di opere di Helene De Beauvoir. Oggi siamo davvero contenti di poter proporre la mostra di un artista conosciutissimo e trasversale a più generazioni come Andy Warhol”. L'esposizione che, come detto, sarà aperta alla Cittadella dal 24 novembre sino al 5 marzo 2018, avrà più scopi e letture: da una parte la visione e la fruizione di una esposizione divisa per sezioni che, attraverso circa 200 opere, permetterà di interpretare in modo antologico il modus operandi di Andy Warhol (dai primi anni '50 includendo rarissimi disegni di accessori sino all'ultima produzione prima della morte nel 1987; dall'altra la possibilità di una interpretazione didattico-scientifica che, grazie all'esposizione degli acetati fotografici (molti dei quali inediti) provenienti dall'elaborazione delle polaroid, sarà istruttiva e anche divertente per le visite delle scolaresche per le quali verranno organizzati una serie workshop. Tra le curiosità più affascinati della mostra sarzanese il parallelismo che vede coinvolto lo stesso Warhol con il celebre computer Amiga 1000 della Commodore: mediante l'installazione di floppy disk sarà possibile proiettare in un Amiga 1000 originale dell'epoca i disegni digitali realizzati da Andy Warhol in persona, durante incontri promozionali pubblicizzati dalla stessa Commodore. Nell'esposizione alla Cittadella, tra le altre opere, ci saranno dalla serigrafia iconografica di Marilyn Monroe, al ritratto di Mick Jagger, Mao Tze Tung, dalla ormai celebre e assoluta Campbell’s soup, al partenopeo Vesuvius, dalla serie dei ritratti di drag queen Ladies and Gentlemen, alle fiabe dello scrittore Christian Andersen, fino alle polaroid di celebrità come Ron Wood, Silvester Stallone, Grace Jones, oltre ai ricercati self portraits. Sito ufficiale http://www.andywarholsarzana.it/index.html
Facebook https://www.facebook.com/events/191338978093175/ di Olga Caetani Luci soffuse e le note di Blue moon del grande Frank Sinatra in sottofondo: l’attore pisano Paolo Giommarelli, come in un jazz club di Manhattan, ha accolto così, lo scorso venerdì pomeriggio, presso l’auditorium di Palazzo Blu, gli invitati alla presentazione del “2008/2018 – Periodo Blu”, momento di riflessione sui successi passati e di annuncio degli eventi futuri, in occasione del compimento dei primi 10 anni di mostre e attività culturali di Palazzo Blu, rese possibili dall’immancabile sostegno della Fondazione Pisa. Anche noi de Il Termopolio abbiamo avuto il privilegio di partecipare all’incontro e vogliamo raccontarvi, in poche righe, quali saranno le numerose novità che dipingeranno la città di Pisa di tinte blu nei prossimi mesi. E proprio il blu, declinato in tutte le sue sfumature, è stato il protagonista del monologo d’apertura di Giommarelli, citando opere letterarie e cinematografiche, frammenti delle più famose canzoni di Mina, Modugno, Battiato e Rino Gaetano, fino alle tanto chiacchierate auto blu, un colore di sogno e serenità, ma anche sinonimo di nobiltà, data la preziosità che lo ha sempre contraddistinto, anche nella storia dell’arte, per i costi con i quali veniva ottenuto, attraverso la polvere del lapislazzulo. La parola, con la mediazione di Roberto Guiggiani, giornalista ed esperto di marketing territoriale, è subito passata al presidente della Fondazione Palazzo Blu, Cosimo Bracci Torsi. L’appellativo di Periodo Blu per designare il primo decennale della Fondazione Palazzo Blu, è stato adottato, a detta sua, con scarsa modestia, in quanto è chiara l’allusione all’omonimo periodo picassiano. In realtà, il grande successo della mostra “Escher. Oltre il possibile”, appena conclusa, e illustrata attraverso alcuni dati statistici da Alessandro Cerami, conferma il ruolo preponderante di Palazzo Blu, che dal Lungarno Gambacorti, si fa centro culturale di altissimo livello e cuore pulsante di promozione dell’identità e della conoscenza della città di Pisa, anche attraverso la sua ricca collezione permanente. Una media di 90-100 mila visitatori ha percorso, in questi anni, le sale delle grandi mostre d’arte autunnali, ospitanti artisti del calibro di Chagall, Mirò, lo stesso Picasso, Modigliani, Toulouse-Lautrec, Dalí, solo per citarne alcuni. Fondamentali poi le mostre considerate “minori”, per entità, ma non per importanza e interesse, che arricchiscono le primavere pisane. Illustrate da Emma Rovini, trattano di argomenti storici e scientifici, con una attenzione particolare al territorio, e sono sempre accompagnate da numerose attività didattiche, curate da Valeria Barboni, della cooperativa Kinzica. Durante la presentazione, sono stati quindi svelati, con trepidante attesa e curiosità di tutto il pubblico, i prossimi appuntamenti a Palazzo. René Magritte sarà il protagonista indiscusso della prossima mostra autunnale, che va a concludere il discorso sul Surrealismo iniziato con Dalí nel 2016-17. Nel frattempo, potremo guardare verso Oriente attraverso gli occhi e l’obiettivo del giapponese Michael Yamashita, fotografo di National Geographic, visitando, a partire dal 24 marzo (sino al 1 luglio), la mostra “Il viaggio di Marco Polo”. A giugno invece, ci attende il grafico italiano Lorenzo Mattotti, autore di numerose copertine del New Yorker, nella temporanea curata da Giorgio Bacci. Di bruciante attualità ed estrema urgenza sarà un’esposizione dedicata al 1938, anno della promulgazione delle leggi raziali nel nostro paese. Inaspettatamente, al termine della presentazione, dalla platea dell’auditorium, si sono levate le voci del Libero Coro Bonamici, diretto da Ilaria Bellucci, con l’intramontabile Nel blu dipinto di blu, che quest’anno compie 60 anni. Queste sono alcune delle numerose iniziative che avranno luogo molto presto a Palazzo Blu. La redazione de Il Termopolio vi terrà costantemente aggiornati. Potrebbero interessarti anche: Immagini tratte da:
Foto dell’autore Foto numero 3, gentilmente concessa da Beatrice Ghelardi
Le Gallerie d’Italia – Palazzo Zevallos Stigliano presentano fino all’8 aprile 2018 la mostra “Da De Nittis a Gemito. I napoletani a Parigi negli anni dell’Impressionismo”, a cura di Luisa Martorelli e Fernando Mazzocca, patrocinata dal Comune di Napoli, dal Comune di Barletta e dall’Institut Français di Napoli. In rassegna, una panoramica sui grandi pittori e scultori partenopei a Parigi negli ultimi anni dell’Ottocento, fino al primo Novecento, ripercorrendo lo sviluppo della pittura napoletana presentando i generi più amati di quel tempo: il paesaggio, le marine, la veduta urbana e soprattutto le scene della vita moderna di cui gli Impressionisti e Giuseppe De Nittis sono stati i maggiori esponenti.
La Parigi del XIX secolo, capitale mondiale della cultura moderna, ha accolto artisti provenienti da tutto il mondo, ma il legame con l’Italia è tra i più forti. Nel corso del secolo si consolida una relazione privilegiata con Napoli a tal punto che la presenza di artisti partenopei è ancor più intensa rispetto a qualsiasi altra scuola italiana. L’arte napoletana si traferisce in Francia, proponendosi ai Salon annuali e alle Esposizioni Universali, conquistando molti premi e riscontri positivi dalla critica. La figura emblematica della mostra, è senza dubbio Giuseppe De Nittis, pugliese d’origine ma napoletano per spirito e cultura. Formatosi inizialmente all’Accademia delle Belle Arti di Napoli, presto si dedica alla pittura di paesaggio aderendo alla scuola di Resina. Nel 1869 si trasferisce a Parigi che ribadisce di amare più di qualsiasi altro francese. De Nittis è riuscito a diventare in breve tempo uno dei grandi protagonisti della pittura della vita moderna e fare della sua dimora uno dei luoghi più frequentati di Parigi. Il pittore ormai conosciuto da tutti, si confronta con Degas, Monet, Manet e fino al 1879 partecipa annualmente al Salon con una serie di opere che conquistano il pubblico francese, che ne elogia la capacità di variare i soggetti dei suoi dipinti, dai paesaggi del sud Italia come la serie delle vedute vesuviane del 1872 (Sulle falde del Vesuvio, Sulle pendici del Vesuvio, L’eruzione del Vesuvio) e il suggestivo Pranzo a Posillipo, a quelle che ritraggono Londra e Parigi, ai ritratti delle raffinate donne parigine.
Altro grande protagonista della mostra è Vincenzo Gemito, scultore e disegnatore napoletano recatosi a Parigi a fine Ottocento per presentare il suo Pescatore e il ritratto di Verdi al Salon parigino. L’ammirazione per le sue opere fu universale. Tra tutti Gabriele D’Annunzio, apprezzò oltremisura il busto di Verdi, tanto che scrisse “A Napoli fioriva un giovinetto meraviglioso […] La forma espressiva uscita dalle sue mani aveva tanta intensità e larghezza di vita, perché lo sforzo d’arte era come sviluppato da un sogno confuso ma palpitante che comprendeva in sé le visioni, quasi direi, favolose delle potenze ond’è governato l’Universo. Egli aveva nome Vincenzo Gemito”.
È grazie al successo ottenuto a Parigi che Gemito sarà considerato uno dei grandi rinnovatori della scultura moderna insieme a Rodin e Medardo Rosso.
Prendendo parte alla mostra sarà possibile ammirare anche le opere dei tanti altri napoletani a Parigi, come Cammarano, Campriani, Caprile, De Gregorio, De Nittis, De Sanctis, Di Chirico, A. Mancini, F.L. Mancini, Michetti, Miola, Netti, N. Palizzi, P. Palizzi, Rossano, Tofano, Toma, Leto, che ci raccontano come nacque la “pittura della vita moderna”. Info e biglietti: www.gallerieditalia.com Immagini tratte da: foto dell’autore.
Eccoci nuovamente per le strade dell’antica Roma, in epoca imperiale. Questa volta faremo attenzione all’abbigliamento: la moda, nel mondo romano così come nel mondo contemporaneo, è un elemento che segue dettami molto rigidi.
Sulla sedia accanto a noi ci sono tutta una serie di indumenti, troppi forse per la conoscenza filmica che abbiamo del vestiario antico. Partiamo dall’intimo: i Romani non portano mutande come le nostre, prediligendo invece una specie di perizoma di lino, costituto da una semplice fascia avvolta in vita detta subligar. La tunica è senza dubbio l’abito più utilizzato: indossato direttamente sopra l’intimo, lo troviamo sia nel guardaroba dei ricchi che dei meno abbienti, ovviamente con differenze nel tipo di tessuto, dalla lana, al cotone, sino al costoso lino e alla seta. È composta da due rettangoli di stoffa cuciti assieme intorno al collo e ai lati, lasciando libere le braccia; una cintura, in stoffa o cuoio, la chiude in vita. Due strisce di color porpora (clavi) possono essere tessute o cucite sopra, più larghe per l’ordine senatorio (laticlavi) e più strette per quello equestre (angusticlavi). Al di sotto, durante il periodo invernale, vengono indossate altre tuniche, la prima delle quali detta subucula (intima), le altre indusium (esterne).
La toga è appannaggio solo dei cittadini romani: si tratta di un enorme telo, largo sei metri, a forma di semicerchio che avvolge tutta la persona. Per indossarlo è necessario un aiuto esterno, spesso uno schiavo, che drappeggi il tessuto nel modo giusto: la toga viene infatti appoggiata sulla spalla sinistra, lasciandone cadere una parte fino alle caviglie; il resto è fatto passare sotto l’ascella destra, fa un giro sul torace ed è fissato nuovamente alla spalla sinistra. A questo punto la stoffa rimanente, che è ancora molta, compie un altro giro e si posa sul braccio sinistro. Veste ufficiale dei senatori per volere di Augusto, in età imperiale è indossata spesso sopra la tunica.
Per ripararsi dal freddo o dalla pioggia l’indumento migliore è il mantello. Il più diffuso si chiama paenula: realizzato in lana, dotato di cappuccio, copre l'intero corpo ed ha forma semicircolare chiusa sul petto. Cappelli e guanti di lana sono altrettanto utilizzati, così come i calzini (undones) nelle regioni fredde. Un indumento poco presente sono invece i pantaloni, considerati a lungo un capo barbarico ed entrati nell’uso civile dal mondo militare. Semplici sandali in cuoio, stivaletti e modelli chiusi come le nostre scarpe (calcei), completano l’abbigliamento dell’uomo Romano.
E le donne? Gli indumenti femminili non si discostano molto da quelli maschili. L’intimo è composto da un perizoma più raffinato e da un reggiseno, strophium (o mamillare), che consiste in una semplice fascia di tessuto o pelle. Guardando il mosaico di Piazza Armerina (Sicilia) rimaniamo colpiti dalla modernità dei “costumi” che le donne romane indossano per fare esercizi ginnici: veri e propri bikini.
La tunica femminile, detta stola, è lunga fino ai piedi, ricorda molto il chitone greco; anche per le donne vige l’abitudine di indossare più tuniche nei mesi freddi. La cintura non si limita a stringere l’indumento in vita, ma si incrocia anche sui seni in modo da dare maggiore risalto alle forme ed è impensabile non portarla, in quanto parte fondamentale dell’abbigliamento.
La toga, prerogativa solo maschile, è sostituita da un largo scialle che serve a coprire anche la testa (palla) e arriva sino alle ginocchia. I tessuti con cui questi indumenti sono realizzati variano a seconda della classe sociale ed in genere gli indumenti femminili hanno colori più sgargianti rispetto a quelli della controparte.
Nei livelli più alti della società le acconciature sono parte integrante dell’abbigliamento e le matrone passano molto tempo per farsi pettinare dalle ancelle secondo la moda del momento, dettata dall’imperatrice e dalle altre donne a palazzo.
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Giocatori di dadi, Wikipedia, da WolfgangRieger - Filippo Coarelli (ed.): Pompeji. Hirmer, München 2002, ISBN 3-7774-9530-1, p. 146, Public Domain, voce "alea" Tiberio togato, da Wikipedia Italia, By Marie-Lan Nguyen - Own work, Public Domain, voce “Toga” Paenula, foto dell’autore Donna romana, da www.romanoimpero.com, voce “L’abbigliamento romano” Mosaico di Piazza Armerina, da Wikipedia Italia, Di {{creator: }} - Fotografia autoprodotta Andreas Wahra am 9. Mai 1999This image was copied from wikipedia:de., Pubblico dominio, voce “Villa del Casale” Donne, da www.romanoimpero.com, voce “L’abbigliamento romano” 6/2/2018 Frida Kahlo: “Non sono malata. Sono in rovina. Ma sono felice fintanto che posso dipingere.”Read Now
Emozioni, sensazioni e stati d’animo sono stati spesso i veri protagonisti di innumerevoli opere d’arte. Colei che mediante la pittura ha saputo dar voce al suo mondo interiore, talvolta segnato dal dramma e dalla malinconia, è senza dubbio la celeberrima pittrice messicana Frida Kahlo.
La sua esistenza può essere riassunta nel significato della parola “sofferenza”: una condizione tormentosa provocata dall’assiduità del dolore. Frida Kahlo, infatti, dovrà affrontare un destino particolarmente avverso sin dai suoi primi anni di vita. Affetto da spina bifida, il suo fisico è molto debole e fragile, ma d’altro canto le permetterà di sviluppare un carattere forte e tenace. Nel 1925 un evento fortemente tragico cambia radicalmente la sua vita già travagliata: da poco salita su un autobus la futura pittrice viene coinvolta in un terribile incidente stradale che le causa la frattura multipla della spina dorsale, di alcune vertebre e del bacino. Subisce ben 32 interventi chirurgici ed è costretta a trascorrere il suo tempo paralizzata a letto, in totale solitudine. A partire da questo momento l’immaginazione e la pittura diverranno due fedeli compagne attraverso le quale l’artista riuscirà ad oltrepassare le pareti della sua camera, trovando così qualche istante di felicità. Per agevolare la sua attività pittorica i genitori decidono di porre sul soffitto uno specchio, in modo tale che Frida Kahlo possa ritrarsi nei lunghi giorni solitari. Lei stessa dirà: “Dipingo autoritratti perché trascorro molto tempo da sola, perché sono il soggetto che conosco meglio.” Da questa condizione hanno così origine numerosi autoritratti che mostrano una donna dal volto inespressivo, dai profondi occhi scuri e dalle caratteristiche folte. Varie, inoltre, sono le opere in cui la pittrice riproduce sé stessa affianco di animali, quali gatti, scimmie e pappagalli. Ad esempio, al 1938 risale Autoritratto con scimmia, oggi appartenente alla collezione Albright-Knox Art Gallery di Buffalo (New York).
In questo caso Frida Kahlo si raffigura in compagnia di una scimmia, animale che nella mitologia messicana è simbolo di protezione delle danze, ma che in questo capolavoro diviene la protettrice della pittrice stessa. La scimmia, dunque, è la fidata amica di Frida Kahlo capace di alleviare il suo senso di solitudine.
Occorre rimembrare anche l’Autoritratto con collana di spine e colibrì (1940), attualmente appartenente alla Nickolas Muray Collection in Texas.
Frida Kahlo è affiancata nuovamente da una scimmia e da un gatto nero, ma qui di notevole suggestione è la collana da lei indossata; non di perle, ma una collana di spine che le procura delle ferite sanguinanti. Ad essa è intrappolato un colibrì incapace così di riprendere il volo. Tutti questi elementi non possono che rimandare al dolore fisico e psicologico della pittrice.
Quattro anni più tardi sarà la volta di un autoritratto dal titolo Colonna spezzata.
L’opera, indubbiamente, ricorda il terribile incidente subito in età adolescenziale. Il suo esile corpo è squarciato, mutilato e ricoperto di chiodi. La colonna vertebrale è sostituita da un’antica colonna e il viso è segnato da lacrime colme di dolore e di afflizione. Dunque, non possiamo fare a meno di notare che davanti a noi non si ha un autoritratto qualsiasi, ma una vera e propria apoteosi della sofferenza.
Nel 1929 sposa il noto pittore Diego Rivera che sarà per lei un’ulteriore fonte di angoscia e dolore. Soggetta ai continui tradimenti del marito Frida Kahlo continuerà a sentirsi sola e lei stessa rimembrerà: “Ho subito due gravi incidenti nella mia vita: il primo è stato quando un tram mi ha travolto e il secondo è stato Diego Rivera.” A tal proposito è lecito mostrare una tela legata a quel noto pittore che le donò questo amore così tormentato: Autoritratto come Tehuana conosciuta anche come Pensando a Diego (1943).
Nel 1954 dopo una vita breve, ma intensa Frida Kahlo si spegne a soli 47 anni a causa di un’embolia polmonare.
Concludo, inoltre, invitando i lettori a visitare la mostra dedicata alla pittrice presso il Museo delle Culture (MUDEC) di Milano che si terrà dal 1 febbraio al 3 giugno. Link della mostra: http://www.mudec.it/ita/frida/ Immagini tratte da: Wikipedia, pubblico dominio, voce: Frida Kahlo www.albrightknox.org www.artribune.com cultura.biografieonline.it www.ilpost.it |
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Gennaio 2022
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