29/3/2016 “Dada è un gioco da pazzi uscito dal nulla”: Cento anni di Dadaismo in mostra a ZurigoRead Now![]() Nella Mitteleuropa stravolta dalla follia della Grande Guerra un gruppo di giovani artisti provenienti da diverse nazioni si rifugia nella neutrale Svizzera, a Zurigo, allora epicentro dell’avanguardia europea, per dar vita a un movimento, il Dada o Dadaismo, totalmente fuori dagli schemi, chiassoso e folle, dissacratorio, irriverente e iconoclasta, il cui carattere sovversivo e nichilista avrà un’incidenza straordinaria su tutta quell’arte che siamo soliti raccogliere entro la categoria del contemporaneo. Il 5 Febbraio del 1916, al numero 1 di Spiegelgasse, nel quartiere zurighese di Niederdorf, rifugio d’artisti in esilio, Hugo Ball, giovane attore-musicista-drammaturgo-letterato tedesco e la futura moglie Emmy Hennings, cantante e attrice, fondano il Cabaret Voltaire L’invito di Ball “ai giovani artisti, di tutte le tendenze, a raggiungerci con suggerimenti e proposte” viene accolto con entusiasmo dal poeta di origine rumena, Tristan Tzara, dall’architetto Marcel Janco, dall’artista franco-tedesco Hans Arp e dallo scrittore tedesco Richard Huelsenbeck che Ball aveva già conosciuto a Monaco. Nelle soirée al Cabaret Voltaire, tra reading di poesia, di prosa, performance d’arte e di teatro, esecuzione di musica e lazzi da avanspettacolo, si viene formulando, in quel che è a tutti gli effetti una vera e propria officina di sperimentalismo e d’avanguardia, la poetica di un movimento il cui presupposto fondamentale è la negazione, la decostruzione e la distruzione del sistema di valori borghesi e delle estetiche tradizionali attraverso gli strumenti dissacranti dell’ironia, dell’umorismo e della satira sociale, del gesto anarchico e iconoclasta, dell’arte del paradosso, della contraddizione e del nonsense, della performance provocatoria e assurda, dell’happening spiazzante e sfrontato, della manifestazione insolente e inusuale. Sulle macerie del passato costruire poi un’arte che fosse programmaticamente nuova e originale, che conservasse l’ingenua freschezza, l’aspetto ludico e la gioia primordiale del gesto di un neonato, l’illogicità e l’assoluta mancanza di senso dei suoi primi, confusi vagiti: da-da. “Dada non significa niente”, scrive Tristan Tzara nel Manifesto del 1918 riducendo i margini a qualsivoglia tentativo d’ interpretazione. Dada è tutto, e il contrario di tutto L’esperienza del Cabaret Voltaire durerà poco meno di cinque mesi ma ben più longevo sarà il fascino che eserciterà questo “gioco o farsa per pazzi” sulla totalità delle avanguardie novecentesche e sui gruppi o movimenti artistici del XXI secolo. Proprio dal Cabaret Voltaire, dalla “culla del Dadaismo”, sono partite lo scorso cinque Febbraio le celebrazioni per i cento anni del movimento con manifestazioni e eventi che percorreranno in lungo e in largo tutta Zurigo. Fino all'1 maggio, il Kunsthaus Zurich ospiterà la mostra 'Dadaglobe Reconstructed' con oltre 200 opere e testi spediti a Tristan Tzara nel 1921 da artisti di tutta Europa. Il Museo Nazionale di Zurigo, con 'Dada Universale' punterà i riflettori sulla portata globale e universale del Dadaismo proponendo le icone assolute del movimento come il celeberrimo orinatoio di Marcel Duchamp. Il13 febbraio il Kunsthaus Zurich organizzerà il 'Ballo in maschera dada', dal 25 febbraio all'8 maggio il Museum Haus Konstruktiv proporrà 'Dada anders' dedicata alle esponenti femminili del movimento. Molti gli eventi anche a Marzo, dall’operetta nonsense 'Roue de bicyclette' in scena ai Miller’s Studio all’affascinante retrospettiva sul genio di Francis Picabia. Immagini tratte da:
- Manifesto Dada da: http://www.chille.it/event/laboratori-teatro-iscrizioni-aperte/ - Hugo Ball da: Wikipedia, pubblico dominio - Marcel Janco da: http://www.doppiozero.com/materiali/ars/100-anni-di-dada-il-cabaret-voltaire
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Viaggiando per l’Italia, per l’Europa e non solo si possono incontrare lungo il cammino i possenti resti degli acquedotti romani che per molto tempo hanno rifornito d’acqua le diverse città dell’impero. Ma come arrivava l’acqua dalla fonte alle città? Per la costruzione di un acquedotto il primo passo era quello di individuare la sorgente sotterranea. Una volta individuata la sorgente (caput aquae) veniva costruito un bacino (piscina limaria) in cui l’acqua rimaneva a decantare prima di defluire. L’acqua viaggiava all’interno di un condotto (specus) grazie alla pendenza con cui era stato costruito. Man mano che lo specus avanzava esso presentava una pendenza diversa affinché l’inclinazione e la gravità muovessero l’acqua all’interno del canale. Lungo il cammino vi potevano essere degli ostacoli come le depressioni del terreno. Qualora il percorso fosse segnato da una depressione le soluzioni potevano essere due: 1) La costruzione degli archi sovrapposti 2) L’uso del sifone inverso Nella prima ipotesi si costruivano gli archi che seguivano l’andamento della depressione in modo che la pendenza fosse garantita e l’acqua continuasse il suo percorso. La seconda soluzione veniva utilizzata qualora la depressione fosse stata maggiore di cinquanta metri. Ma in cosa consiste il sifone inverso? Un condotto ad “U” a gravità che permetteva il superamento della depressione. Come si può vedere dall’immagine, l’acqua giungeva prima nel serbatoio a monte, si arrestava e poi con l’aiuto della depressione e del sifone inverso l’acqua aveva la spinta necessaria per giungere all’altro serbatoio a valle. Una volta terminato il percorso, l’acqua non entrava subito in città, ma rimaneva a decantare nel cosiddetto castellum aquae. Da qui, attraverso diverse condutture l’acqua veniva smistata in città per i diversi usi: pubblico (fontane, come la meta sudans che si trovava nei pressi dell’anfiteatro Flavio a Roma), privato (le varie domus e villae) e termale, come si può vedere dai tre fori presenti in basso nella struttura del castellum di Pompei. Il Pont du Gard è un esempio di magnificenza che Roma raggiunse nella costruzione degli acquedotti, un ponte che faceva parte dell’acquedotto che univa Uzes e Nimes in Gallia. Ognuno di noi potrebbe avere in tasca questo ponte, infatti se prendiamo il rovescio della banconota da cinque euro possiamo osservare proprio Pont du Gard. Come le strade, anche gli acquedotti sono il risultato dell’avanzato grado di ingegneria edile a cui erano giunti i Romani. Immagini tratte da:
- Ricostruzione dell'andamento dell'acquedotto da: RomanoImpero, voce: Marco Vitruvio Pollione. - Acquedotto di Segovia, da: Wikipedia, Bernard Gagnon, CC BY-SA 3.0 - Rocostruzione depressione e sifone inverso da: lcs.unical.it - Castellum aquae, da: Wikipedia, Mentnafunangann, CC BY-SA 3.0 - Pont du Gard da: Wikipedia, CC BY-SA 3.0 - Banconota da cinque euro da: Wikipedia, Robert Kalina, CC BY-SA 3.0 Cronaca di un processo d’eccezione![]() Il fitto brusio di voci, perlopiù curiosi e cronisti locali, rompeva insistentemente il silenzio austero dell'aula. Sir Huddleston, giudice dell'udienza, richiamò i presenti all'ordine dopo l'ennesima risata. Cosa destava l'ilarità e lo stupore degli astanti? Perché quel mormorio insistito? Chi animava gli altrimenti severi banchi di quel tribunale? Facciamo un passo indietro. L'inaugurazione della Grosvenor Gallery, spazio a disposizione di giovani artisti emergenti e di meno giovani rifiutati dalla Royal Academy, si rivelò un successo. Tra i capolavori in mostra, apprezzatissimi furono alcuni Notturni londinesi d'un pittore eccentrico e controverso, James McNeill Whistler, americano di nascita, figura di DANDY stravagante e sopra le righe, conversatore tanto piacevole e brillante quanto caustico e spietato fustigatore della bigotta e moralista Londra vittoriana. ![]() A circa due mesi dal vernissage un articoletto mandò Whistler su tutte le furie. Vi si leggeva: “Per il bene di Mr. Whistler non meno che per la protezione dell’acquirente, Sir Coutts Linsday non avrebbe dovuto ammettere in galleria opere nelle quali la mal educata presunzione dell’artista costeggia così da presso l’aspetto di una deliberata impostura. Prima di adesso ho visto e sentito tanta di quella impudenza cockney, ma non mi sarei mai aspettato che un buffone chiedesse duecento ghinee per sbattere un barattolo di vernice in faccia al pubblico”. La stroncatura impietosa e diffamante era a firma del più autorevole e influente critico d'arte dell'epoca, cattedratico di Oxford ed egli stesso artista d'un qualche pregio, John Ruskin. L'affronto non poteva passar impunito e Whitsler trascinò Ruskin in tribunale intentandogli una causa per diffamazione con una richiesta di risarcimento di mille sterline. Ma torniamo un attimo in aula. La raffinata tenzone dialettica tra le parti assume a tratti il tono leggero e scanzonato della boutade: "Ora Mr.Whistler, può dirmi quanto ci ha messo a buttar giù quel notturno?" "Per quanto ricordi circa un giorno" "E per un giorno di lavoro chiede 200 ghinee?" "No, le chiedo per tutto il sapere d'una vita!" (seguirono applausi!) L'arguzia e l'eleganza delle schermaglie verbali trai contendenti scatenarono l'ilarità dei presenti e resero lieve un processo che di fatto risultò disastroso per entrambe le parti. Whistler s'indebitò per sostenere le spese processuali e dichiarò bancarotta di lì a poco, Ruskin si dimise dall'incarico di professore e si ritirò dalla vita pubblica. Il caso Ruskin-Whistler fu emblematico del passaggio da un'estetica ormai superata, troppo attardata su posizioni tradizionali, privilegianti un realismo d'accademia, rifinito, compiuto, realistico, a un'arte fresca, moderna, impressionistica, orientata verso il gioco di colore puro, l'accordo cromatico, l'effetto di luce, un'arte feconda di intuizioni e di spunti sviluppati poi dalle scuole pittoriche del Novecento. Di una cosa ebbe ragione Ruskin: un barattolo di vernice gettato su una tela non varrà duecento ghinee. Con Pollock, di lì a qualche decennio, varrà decine di migliaia di euro. Immagini tratte da:
- Notturno in nero e oro, da Wikipedia, pubblico dominio. - Autoritratto, James McNeill Whistler, da Wikipedia, pubblico dominio. - Autoritratto, John Ruskin, da Wikipedia, pubblico dominio Eccoci nuovamente al tavolo della nostra popina. Accanto a noi ci sono persone che mangiano e chiacchierano tra loro, ma alcuni sembrano intenti a giocare. All’improvviso uno degli uomini scoppia in una fragorosa risata seguita dal nome “Venere” ripetuto più volte. Cosa è successo? Ci avviciniamo e scopriamo che sul tavolo sono stati gettati quattro strani dadi: in realtà si tratta di piccole ossa, gli astragali, ognuno dei quali ha solo quattro facce disponibili, sulle quali sono disegnati altrettanti simboli. Ad ogni lancio i giocatori calcolano il punteggio ottenuto in base alle figure…e le combinazioni sembrano veramente tante. “Il cane, che sfortuna!” esclama uno di loro, facendoci capire che è il colpo peggiore (solo quattro punti). Ci sono poi il colpo di Stesicoro (otto punti), seguito da quello dell’Efebo e da quello del Basiliscus; il colpo di Eurippide (quaranta punti) deriva il suo nome dal greco eurìptein, cioè “lanciare bene”. Ed eccoci infine al tanto agognato colpo di Venere, il lancio migliore, con tutte e quattro le facce diverse.
Continuiamo a camminare: entrando in un vicolo ci imbattiamo in un piccolo drappello di “cavalieri” in sella a semplici bastoni che con opportuna immaginazione sono diventati possenti cavalli, trovandoci così, nostro malgrado, coinvolti in una battaglia che nulla ha da invidiare ad un vero scontro, se non le armi in legno. Usciti indenni dallo scontro, cerchiamo un po’ di riposo in un giardino pubblico: qui alcune ragazze stanno giocando con le loro bambole: in genere hanno sembianze adulte e sono articolate, proprio come le Barbie dei nostri giorni. Tutti i bambini, indistintamente dal sesso, si portano sempre dietro un sacchettino contenente…noci. Con esse si può giocare alle nuces castellate o ludus castellorum: quattro noci vengono disposte per terra, tre per la base ed una sopra. I giocatori, decisa la distanza da cui lanciare, devono riuscire a colpire e demolire i castelli così realizzati. Apprestando un piano inclinato, il gioco cambia ed anziché lanciare le noci, queste vengono fatte rotolare con lo scopo di colpire quelle avversarie ormai ferme. ![]() Una piccola palla dura e ripiena di crini arriva fino ai nostri piedi: viene utilizzata per il gioco del trìgon, nel quale tre giocatori disposti a triangolo, da cui il nome del gioco, si passano la palla l’un l’altro il più velocemente possibile ricevendo con la destra e lanciando con la sinistra. Che dite, ci uniamo a loro? Immagini tratte da:
Bambina che gioca, da Wikipedia, Di Nessun autore leggibile automaticamente. MatthiasKabel presunto (secondo quanto affermano i diritti d'autore). - Nessuna fonte leggibile automaticamente. Presunta opera propria (secondo quanto affermano i diritti d'autore)., CC BY 2.5, voce "Aliossi" Dado, da Wikipedia, fotografia realizzata da Rama, CC BY-SA 2.0 fr, voce "Alea" Turricola, da Wikipedia inglese, di Rheinisches Landesmuseum - Bonn, Public Domain, voce "Vettweiss-Froitzheim Dice Tower" Bambola di Crepereia Tryphaena, da museicapitolini.org Bambini con noci, da Wikipedia inglese, di Marie-Lan Nguyen (2009), CC BY 3.0, voce "Roman Empire" Trigon, da pinterest.com
L’Aurelia, la Cassia, la Flaminia, la Salaria, la Appia (Regina Viarum) sono solo un piccolissimo gruppo delle numerose strade che percorrevano in lungo e in largo l’immenso territorio dell’Impero romano, dall’Atlantico alla Siria, dalla Britannia alle coste del Nord Africa. Per avere un’idea della vastità della rete viaria dell’Impero bisogna osservare la cosiddetta Tabula Peutingeriana, copia medievale di una antica cartina romana di cui vediamo, qui, solo alcune parti: Calabria, Puglia, Sicilia, Balcani e Lucca, Pisa, Luni.
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L’importanza che hanno avuto le strade nel mondo romano e anche nei periodi successivi è rappresentata sia dall’uso che se ne fa ancora oggi di alcuni tracciati sia dallo stesso termine che si è conservato in alcune lingue. Il nome “strada” deriva dal termine latino stratum (plurale - strata) che vuol dire lastricato/pavimento; questa somiglianza con il latino non si è conservata solo nell’italiano, ma la ritroviamo ad esempio nell’inglese con street e nel tedesco con Straße (Strasse).
Sicuramente tutti avranno visto dal vivo o in fotografia una strada romana. Ma se mi seguirete, scoprirete più da vicino come veniva realizzata e quali caratteristiche fondamentali possedeva. Innanzitutto occorre dire che le strade romane furono realizzate per scopi prevalentemente militari. Infatti attraverso le strade l’esercito raggiungeva più velocemente i vasti confini (limites) per difenderli, e in alcuni casi erano proprio gli stessi legionari che costruivano le strade.
Ma come veniva costruita una strada romana?
Prima di tutto si facevano due solchi che rappresentavano la larghezza della strada; dopodiché si scavava un solco fra i fossi fino a trovare un terreno solido. Su questo gremium (grembo) venivano posti quattro strati differenti: 1° strato: statumen (basamento) formato da pietre grosse 2° strato: rudus (pietrisco) formato da pietre spaccate e cementate con la selce 3° strato: nucleus (strato duro) formato da frammenti di mattoni e cocci cementati 4° strato: pavimentum (lastricato) formato da pietre in basalto di forma irregolare. ![]()
Questa tecnica ci viene descritta da Vitruvio (80 a.C.-15 a.C.), ma c’è da dire che non veniva sempre rispettata, infatti, la costruzione variava a seconda delle esigenze e dei materiali disponibili.
Se ci rechiamo a Pompei e incominciamo a camminare per le sue vie, in alcuni punti troveremo dei grandi blocchi di pietre che univano una parte e l’altra della strada. Ma a cosa servivano? Queste grosse pietre venivano usate come un “ponte” così da permettere ai cittadini di non bagnarsi in caso di pioggia poiché l’acqua piovana in abbondanza poteva allagare le strade. Lungo alcune vie si possono vedere, inoltre, dei lunghi solchi scavati nelle pietre. Per molto tempo si è creduto che questi solchi fossero dovuti al continuo passaggio dei carri che con il loro incidere avevano logorato le pietre. In realtà, oggi, si pensa che questi solchi fossero parte integrante del selciato. Cioè che le pietre venivano lavorate già in questo modo e questi solchi erano delle vere e proprie “rotaie” in cui si incastravano le ruote del carro per non farlo slittare.
In conclusione le strade romane sono un’opera di raffinata ingegneria civile che hanno permesso a Roma di conquistare terre, di dominare i popoli e di difendere i confini dell’Impero.
Immagini tratte da:
- Tabula Peutingeriana, da Wikipedia, pubblico dominio - Legionari, da RomanoImpero, voce: Le strade romane - Legionari a lavoro, da Wikipedia, pubblico dominio - Strati di una strada, da RomanoImpero, voce: Le strade romane - Pompei, da Wikipedia, pubblicata da Jensens, pubblico dominio - Solchi, foto dell'autore Capolavori dell'arte Simbolista in mostra a Palazzo Reale a Milano In occasione della mostra "Il Simbolismo. Arte in Europa dalla Belle Époque alla Grande Guerra", in programma a Milano dal 3 Febbraio al 5 Giugno 2016, Palazzo Reale apre ai visitatori ventiquattro delle Sale site al Piano Nobile dell'edificio la cui attuale veste Neoclassica, voluta dagli Asburgo a imitazione delle coeve regge europee, fu commissionata all'architetto di corte, allievo del Vanvitelli, Giuseppe Piermarini. In uno spazio espositivo che è esso stesso Opera d'Arte grazie al lavoro dei maggiori artisti e decoratori attivi nella Milano asburgica, si dispiega il genio inquieto e ammaliatore, il fascino misterioso e irresistibile di Moreau, Böcklin, Redon, Von Stuck, i nostri Previati, Sartorio, Segantini e molti altri artisti più o meno assimilabili a quel movimento simbolista che col suo carrozzone di sogni, fantasmagorie e fascinazioni stregò l'Europa fin du siècle, con insistite eco su tutta l'arte del Novecento. Il Simbolismo, manifestazione anzitutto poetico-letteraria e solo successivamente artistica stricto sensu, nasce in Francia con la fine dell'esperienza del Parnasse e in concomitanza con la pubblicazione nel 1886 sul Figaro, a firma Jean Moreas del Manifesto del Simbolismo e del di poco posteriore Il Simbolismo in pittura, apparso sul Mercure de France e siglato dal critico d'arte Albert Aurier. L'estetica simbolista delineata nei due testi teorici e innumerevoli altre riviste contemporanee si definisce in contrapposizione col realismo scientifico delle esperienze naturalistico-impressioniste, preferendo al rigore e alla precisione descrittiva l'evocazione, la vaghezza, la sfumatura e al dato oggettivo il simbolo. Simbolo che apre a una realtà più ampia e più enigmatica, complessa e indecifrabile rispetto a quella immediatamente percepibile coi sensi e l'intelletto: l'(ir)realtà del sogno, del subconscio, della psiche, dell'irrazionale. La poesia si fa pura, il verso magia verbale, la parola si dissolve in musica, si scioglie “sinesteticamente” in un fluire suggestivo di colori, suoni e profumi di cui il Poeta si serve per rivelare all'uomo l'esistenza di questa realtà profonda e misconosciuta. E' da questa (ir)realtà che la pittura simbolista attinge per riversare sulla tela e sul visitatore il suo universo di demoni e incubi: gli efebici Edipo e le sinuose e lascive Sfingi dal corpo leonino e la testa di donna dipinte da Fernand Khnopff, le maliarde Salomè, la testa tronca di Orfeo e gli altri miti rivisitati dall'estro classicheggiante di Gustave Moreau, i deliri di Odilon Redon, i fauni, i centauri in lotta e il cupo lirismo di Böcklin, le superbe e impenitenti peccatrici di Franz von Stuck, il Poema della Vita di Giulio Aristide Sartorio, l'enigmatico ultimo Segantini e molto altro ancora in mostra nella baudelairiana foresta di simboli di Palazzo Reale, dal 3 Febbraio al 5 Giugno. Sitografia: http://www.mostrasimbolismo.it/ http://www.palazzorealemilano.it/wps/portal/luogo/palazzoreale Immagini tratte da:
- Fernand Khnopff, Wikipedia, distribuita da DIRECTMEDIA, Pubblico dominio - Arnold Böcklin, Wikipedia, distribuita da DIRECTMEDIA, Pubblico dominio - Gustave Moreau, Wikipedia, di Shuishouyue, Pubblico dominio
Strano nome per una rivista, non è vero? La cosa migliore è cercare di capire cosa significa tale parola.
Immaginiamo di fare un salto temporale all'indietro di circa diciannove secoli: eccoci nel 117 d.C., in pieno periodo imperiale, tra le vie di una grande città romana. Ci stupirebbe sicuramente vedere quanto è simile alle nostre. Lungo la larga strada che stiamo percorrendo si apre un locale nel quale è possibile bere e mangiare: qualcuno mangia velocemente un boccone stando in piedi, ma molti sono seduti ai tavoli presenti nella stanza. È l’equivalente di una nostra tavola calda. Di colpo ci viene in mente la visita fatta a Pompei, il cartello e la spiegazione letta: ma certo, il thermopolium. Ecco cos’è! Chiediamo ad un passante come si chiama il locale, già sicuri di ciò che dirà, ma questi ci risponde, spiazzandoci, con una parola: popina. Per quale motivo? Il termine a noi tanto caro deriva dal greco (ϑερμός - thermós «caldo» e πωλέω - poléo «vendere») e nessuno nella Roma imperiale lo utilizza.
Dirigendoci verso lo spazio interno diamo un’occhiata alle pareti del locale e vediamo che ci sono diversi affreschi: non sono di ottima fattura ma in un uno è possibile scorgere delle cibarie mentre un altro riproduce due incalliti giocatori nell'atto di tirare i dadi. Prima non lo abbiamo notato, ma sopra all'ingresso pende un piccolo fallo in metallo con il compito di allontanare la sventura dal locale. Il cortile interno è coperto da un pergolato che poggia su quattro colonne: sono ricoperte da uno spesso strato di stucco e colorate in giallo, ma da una crepa vediamo che sono realizzate in laterizi, quarti di cerchio per l’esattezza.
Finalmente possiamo sederci e gustare il nostro primo pasto romano.
Immagini tratte da:
Ricostruzione popina romana, romanoimpero.com, voce "taberna romana" Bancone, di Aldo Ardetti di Wikipedia in italiano, CC BY-SA 3.0, voce "thermopolium" Giocatori di dadi, Wikipedia, da WolfgangRieger - Filippo Coarelli (ed.): Pompeji. Hirmer, München 2002, ISBN 3-7774-9530-1, p. 146, Public Domain, voce "alea" Affresco thermopolium, foto dell'autore |
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Gennaio 2022
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