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Il titolo sembra un controsenso: “Ma come?” si chiederà qualcuno “Il motore a vapore non è stato inventato nel corso del 1700?” Certo, molti di noi pensando alla macchina a vapore portano il pensiero al Regno Unito del XVIII secolo e all’ingegnere scozzese James Watt, ma non sanno che il più antico antenato di questa invenzione risale a molti secoli addietro.
Ci dobbiamo spostare in Egitto, nel I secolo d.C., per incontrare il geniale inventore padre della macchina a vapore: Erone di Alessandria. Il suo motore è chiamato “Eolipila” (la “Sfera di Eolo”): è composto da una sfera di rame dalla quale partono due tubicini a forma di L, piegati l’uno all’opposto rispetto all’altro. La base, anch’essa in metallo, presenta due cannule che sostengono la sfera e vi si inseriscono all’interno. La sfera viene riempita con acqua e riscaldata: in tal modo l’acqua contenuta all’interno si tramuta in vapore che, occupato tutto lo spazio, tende ad uscire dai due tubicini, permettendo così alla sfera di ruotare su se stessa. Il funzionamento è sicuramente semplice e può farci sorridere, ma l’intuizione di Erone fu geniale: era riuscito a ricavare energia meccanica imbrigliando la forza del vapore. Purtroppo la sua invenzione non fu mai sfruttata: probabilmente la grande disponibilità di forza lavoro schiavile fu la causa dello scarso interesse per questa invenzione da parte dei suoi contemporanei. Possiamo solo domandarci a quale livello di tecnologia saremmo oggi se lo sviluppo del motore a vapore fosse avvenuto 1700 anni prima, all’epoca del grande Erone.
Immagini tratte da:
- Erone, da Wikipedia Italia, Di sconosciuto - http://www.xtec.es/~jcanadil/imatges/personatges/actius/Heron.jpg, Pubblico dominio, voce "Erone di Alessandria" - Eolipila, da Wikipedia Italia, Di Katie Crisalli - The photograph comes from an article at the AFRL Propulsion Directorate website., Pubblico dominio, voce "Eolipila"
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Il Bar delle Folies-Bergères è uno degli ultimi dipinti di Edouard Manet, realizzato quando ormai il pittore era stato colpito da una malattia che da lì a poco gli avrebbe fatto perdere la vita. Manet, seppur si fece convincere a dipingere en plein air dagli amici, restò per lo più fedele alla sua abitudine di lavorare in ambienti chiusi, come testimonia questo suo ultimo capolavoro.
Quest’opera rievoca le ore passate dal pittore nel celebre caffè, dove egli amava recarsi; uno dei luoghi tipici della vita notturna parigina, il bar di un locale alla moda. Il pittore sceglie però di rappresentare, più che la vivacità delle persone sedute ai tavolini, una cameriera. La giovane donna, Suzon, domina la scena. Le sue proporzioni contrastano con lo sfondo, suggerendo l’idea di solitudine e senso di distacco dal chiacchiericcio delle persone sedute ai tavolini, che vediamo riflesse nell’ampia specchiera dietro al bancone, che oltre a riflettere il locale, sdoppia la figura della donna. Ne risalta la complessità psicologica: la giovane svolge un lavoro noioso e monotono che è in contrasto con la sua sensibilità. L’idea dello specchio dà continuità allo spazio, trasforma la realtà oggettiva in realtà filtrata attraverso gli occhi del pittore. Sul bancone, Manet rappresenta in primo piano bottiglie di champagne, vari liquori, una fruttiera e un bicchiere con due rose bianche. Questi oggetti sono resi con tocchi di colore e luci riflesse; al centro appare la figura di Suzon: una massa cromatica piramidale blu e azzurra, che conduce l’attenzione verso il suo viso. Tutto intorno c’è uno scintillio di luci e di vitalità che si oppone alla tristezza del volto della donna. Il Bar delle Folies-Bergères è un’opera portatrice di un messaggio profondo di Manet, il pittore che aveva amato la vita e le atmosfere allegre di cui aveva fatto parte fino a quando la malattia glielo aveva impedito. Egli evoca il suo rammarico per lo scorrere del tempo, la malinconia per quella vita che non può più condurre. Manet, come la donna malinconica, perso in quel mare di folla piena di vita. Immagine tratta da: Arteworld.it
Nell’ottobre del 1911, Marinetti riteneva che il gruppo futurista fosse ormai pronto al debutto sulla scena artistica internazionale. Da tempo progettava di inaugurare quello stesso autunno una grande mostra a Parigi. Qui, dai primi anni del secolo risiedeva Gino Severini, perfettamente inserito nel clima culturale della città, come testimoniano le numerose ballerine che affollano le sue tele, soggetti ispirati dalla vita notturna dei caffè parigini e già molto cari a Degas e Toulouse-Lautrec.
Di ritorno a Milano, Severini ebbe modo di constatare quanto i compagni futuristi fossero lontani, nonostante le premesse teoriche che muovevano la loro arte, dalle straordinarie novità stilistiche messe a punto nella capitale francese dai pittori cubisti. L’indomani, a spese di Marinetti, Boccioni, Carrà e Russolo partirono alla volta di Parigi per una sorta di accelerato corso di aggiornamento in vista della loro prossima esposizione, rimanendo profondamente colpiti dalla lezione cubista. Rientrati in Italia lavorarono senza posa fino ai primi di febbraio del 1912, quando presso la galleria Bernheim-Jeune poté finalmente aprire la mostra futurista, con i colori non ancora del tutto asciutti sulle tele.
Colui che, tra gli altri, meglio seppe sfidare l’estetica del Cubismo fu senza dubbio Boccioni. Nelle sue nuove opere infatti, inserì con disinvoltura elementi cubisti, geometrizzando e solidificando ogni residuo, o quasi, di Divisionismo. Questo processo risulta particolarmente evidente nelle due versioni, realizzate a pochi mesi di distanza l’una dall’altra, del medesimo trittico dedicato agli Stati d’animo, raffigurante il tentativo di fissare su tela quanto di più astratto, evanescente ed effimero possa esistere: un’emozione. Nella prima versione, risalente all’inizio dell’estate del 1911, la pennellata “divisa” è portata alle estreme conseguenze. Coppie di figure nell’atto di unirsi in un abbraccio sofferto si distinguono appena, così immerse nei flutti ondeggianti e coloratissimi del primo quadro del trittico, intitolato Gli addii, come per conferire una dimensione tangibile all’ingombrante presenza del vapore sprigionato da quello che verosimilmente è un treno in partenza. Fitte e parallele linee diagonali traducono il punto di vista, che sfreccia da una prospettiva all’altra, di Quelli che vanno, mentre Quelli che restano avanzano come appesantiti da un sentimento di lugubre tristezza, che incombe e si riversa su di loro nella forma di una pioggia di linee discendenti dai toni acidi.
Umberto Boccioni, Stati d’animo: Gli adii; Quelli che vanno; Quelli che restano, primavera-estate 1911, Milano, Museo del Novecento
Nella seconda versione de Gli adii, dipinta verso la fine dell’autunno del 1911, dopo la conoscenza della rivoluzione cubista, ed esposta nella mostra in questione, la locomotiva sembra materializzarsi dal fondo, divenendo visibile al contempo di fronte e di lato, scomposta e sfaccettata, con in risalto una serie di numeri stampigliati, elemento tipico di un collage o di un papier collé di Picasso e Braque. I volti di Quelli che vanno appaiono ora delle chiare caricature cubiste, così come la gamma cromatica in Quelli che restano, virata verso tinte più scure, allude alle tavolozze monocrome dei principali testi del Cubismo.
Umberto Boccioni, Stati d’animo II: Gli adii; Quelli che vanno; Quelli che restano, fine 1911, New York, MOMA
Dalle sprezzanti critiche mosse nei confronti della mostra futurista dal poeta Guillaime Apollinaire, al quale spettò “il posto più eminente fra i critici del Cubismo” secondo Carlo Carrà, insorse l’abitudine di considerare il Futurismo un mero fratello minore del Cubismo. In realtà, dopo tre settimane a Parigi, la mostra passò immediatamente alla Sackville Gallery di Londra - salutata da Marinetti come “città futurista” per eccellenza, data l’idea “totalmente nuova del moto, della velocità” che si poteva sperimentare prendendo la metropolitana - quindi a Berlino, Amsterdam, Zurigo, Vienna e Budapest. La diffusione internazionale del Futurismo era iniziata, dando vita, negli stessi anni, alle ricerche cubofuturiste dell’Avanguardia russa.
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Uno scultore greco importantissimo per i suoi studi intorno alla rappresentazione della figura umana in movimento nello spazio è Lisippo.
Lisippo, nativo di Sicione (Peloponneso), fu molto influenzato dalle opere di Policleto di Argo (Peloponneso), autore del Dorifero, di cui egli si diceva seguace. Infatti anche secondo Lisippo la natura era regolata da formule matematiche, ma a differenza di Policleto, egli creerà statue con rapporti diversi: corpi più slanciati, movimenti liberi ed elementi del volto più accostati a fornire maggiore intensità ed espressione. Le statue di Policleto, infatti, nate da calcoli matematici, non erano aderenti alla realtà, ma raffiguravano un qualcosa di virtuale.
Fra le diverse opere di Lisippo, Aghias, Ercole Farnese e altre, è importantissimo trattare dell’Apoxyomenos.
La statua venne realizzata intorno al 330-320 a.C. e rappresenta un atleta stante frontalmente e nudo. Qui vengono sperimentate formule del tutto nuove che caratterizzeranno la scultura successiva. Innanzitutto la gamba destra è sì flessa e portata all’indietro, ma riceve parte del peso del corpo in modo da conferire alla figura un’idea di attesa e di movimento che è sul punto di compiersi, infatti la statua è sbilanciata come si denota dalla posizione degli arti e sembra quasi muovere verso lo spettatore. Il braccio sinistro è proteso in avanti in una posizione ignota alle sculture precedenti. Il braccio destro è piegato e tende verso il sinistro. La mano destra doveva tenere lo strigile, ossia un raschiatoio per togliere via dal corpo il sudore e l’olio di cui erano cosparsi gli atleti. Rispetto alle opere di Policleto, le statue di Lisippo sono meno pesanti, infatti, il corpo e gli arti dell’atleta sono più luighi, la testa più piccola le cui ciocche di capelli sono mosse ad indicare lo sforzo appena compiuto. Gli elementi del volto sono accostati quasi a formare un triangolo e la bocca dischiusa forniscono l’idea della stanchezza per la prova eseguita. Lisippo con questi espedienti animerà le sue figure tese a conquistare la terza dimensione più di quanto i capolavori precedenti avessero fatto. Per capire bene la differenza che intercorre fra Policleto e Lisippo è bene riportare la celebre frase a lui attribuita: “ Io rappresento l’uomo com’è e non come dovrebbe essere”.
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Era il 1592 quando nel cuore della città di Utrecht nacque uno dei pittori olandesi più celebri e affascinanti del Seicento: Gerard Van Honthorst.
Siamo nei primi anni del XVII secolo nel momento in cui Van Honthorst decide di recarsi in Italia, più precisamente a Venezia e a Firenze, per poi stabilirsi a Roma. Durante questo soggiorno nella penisola italiana, il pittore completa e perfeziona la sua formazione non solo attraverso lo studio dell’arte antica, ma anche grazie alla visione dei capolavori dei grandi maestri italiani. Fondamentale, di fatto, fu il contatto diretto con le opere di Michelangelo Merisi, meglio noto come Caravaggio. Gli studi pittorici sulla luce e l’adesione al Realismo, ossia a una pittura volta a una rappresentazione cruda e veritiera delle cose, faranno di lui un vero e proprio pittore caravaggesco. Una luce artificiale e soffusa emanata da un’unica fonte luminosa, come il bagliore di un’umile candela, diventa l’elemento caratterizzante della sua pittura. Questo è il motivo per cui Van Honthorst viene definito un “Candlelight Master”, nonché il maestro della pittura a lume di candela. Tutto ciò è facilmente osservabile nella produzione artistica realizzata durante il suo soggiorno in Italia. In essa, infatti, si ammira un’ambientazione notturna illuminata esclusivamente da una luce intensa, ma circoscritta. Fu così che l’artista olandese ottenne l’epiteto di Gherardo delle Notti. Durante la sua permanenza a Roma Van Honthorst realizza diversi capolavori tra cui Sansone e Dalila (1619-1620), conservato al Museum of Art di Cleveland. ![]()
Il dipinto ripropone una scena tratta da un storia biblica in cui viene messo a punto un inganno da parte di Dalila, evidenziando la crudeltà e l’astuzia femminile contrapposta alla debolezza di uomini inerti. All’interno dell’opera, due sono gli elementi che incentrano l’attenzione dello spettatore sulla fanciulla in azione: la luce della candela e la figura passiva di Sansone. La candela, sostenuta dalla mano di un’ancella, è posta al centro della tela e illumina con vigore la figura di Dalila, intenta a tagliare i capelli di Sansone privandolo così della sua forza.
Celeberrimi sono anche altri dipinti a tema religioso come la Derisione di Cristo (1616-1617), conservata al Los Angeles County Museum of Art e Gesù nella bottega di Giuseppe (1617-1618), custodita agli Uffizi.
Entrambe le scene sembrano prendere vita nel cuore della notte e i protagonisti, Cristo nella prima opera menzionata e Giuseppe e Gesù nella seconda, vengono messi in risalto dal bagliore di una luce visionaria e artificiale. È attraverso questa luce, dunque, che i personaggi emergono timidamente dalla tela e assumono un’energica corporeità tale da far sì che l’oscurità non li nasconda, ma li circondi soltanto.
Possiamo concludere affermando senza esitazione che la vera protagonista delle tele di Gerard Van Honthorst è quella luce artificiale che con estrema intensità dona calore e sottolinea le azioni, la gestualità e le espressioni dei soggetti raffigurati. Il risultato, pertanto, non può che essere una pittura tanto coinvolgente quanto originale e suggestiva.
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La dama con l’ermellino è uno dei dipinti più conosciuti di Leonardo da Vinci. L’opera risale al 1489-1490 ed è conservata a Cracovia, nel castello del Wawel.
In quest’opera Leonardo raffigura la giovane Cecilia Gallerani, l’amante di Ludovico il Moro, duca di Milano, su commissione dello stesso. La donna, oltre a essere la protagonista dell’opera, tiene in braccio un ermellino, il quale ha molta importanza nella lettura dell’opera; entrambi i soggetti sono dotati di un grande valore simbolico. L’ermellino è un animale che raramente troviamo rappresentato nei ritratti.
Leonardo lo utilizza alludendo al prestigioso titolo onorifico di cavaliere dell’Ordine dell’Ermellino conferito al Moro da Ferrando d’Aragona, re di Napoli, nel 1488. Inoltre, la traduzione della parola ermellino in greco è galè, un termine che richiama al cognome di Cecilia ed essendo questo animale simbolo di purezza e di incorruttibilità, allude anche alle virtù della fanciulla.
Il secondo fattore da prendere in considerazione per l’analisi di quest’opera è la spontaneità, data soprattutto dallo sfondo scuro. Di conseguenza, grazie alla luce che proviene da destra, la dama viene messa in risalto, catturando l’attenzione dello spettatore che ne coglie la dolcezza e i lineamenti del viso. La posizione della donna è estremamente naturale, torce leggermente il collo quasi come se si fosse voltata un attimo prima, incuriosita da qualcosa o da qualcuno; al tempo stesso ha l'imperturbabilità solenne di un'antica statua. Lo sguardo della dama appare forte e deciso. Esso simboleggia tre qualità della ragazza: intelligenza, raffinatezza ed eleganza. Sia la donna che l’ermellino guardano nella stessa direzione, forse per la sorpresa provata per la presenza di qualcuno, forse il duca stesso, sopraggiunto in quel momento nella stanza in cui si trovano. Un impercettibile sorriso aleggia sulle labbra della nobildonna. Non bisogna trascurare i dettagli dell’abbigliamento che Leonardo mette in risalto nel ritratto: curatissimo, ma non eccessivamente sfarzoso. Come tipico nei vestiti dell'epoca, le maniche sono le parti più elaborate, in questo caso a sbuffo e di due colori diversi. La donna non ha molti gioielli a parte la lunga collana di perle scure e un laccio nero sulla fronte che tiene fermo un velo dello stesso colore dei capelli raccolti. Notevole è il gioco dei contrasti tra il nero delle perle della lunga collana e il pallore del collo e del petto, tra il nero laccio che tiene fermo il velo scuro che ricopre i capelli dello stesso colore e la luminosità della fronte, cinta dal sottile nastro di un marroncino chiaro.
Leonardo coglie la dama non solo nelle sue fattezze esterne: egli la immortala in movimento, come in una fotografia, che ne restituisce il carattere e lo stato d’animo vissuto in quel momento, in modo tale che la forma esterna corrisponda alla forma interna, rendendo così visibile l’interiorità del personaggio.
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La storia di oggi inizia nel 72 d.C., nella Giudea Romana. Il clima politico in queste zone è tutt’altro che sereno: appena due anni prima il figlio dell’imperatore Vespasiano, Tito, ha portato a termine la conquista della città di Gerusalemme dopo la grande ribellione giudaica iniziata nel 66 in seguito alla politica del governatore Gessio Floro. Rimane però ancora un ultimo baluardo di resistenza ed i Romani sono decisi a metter fine una volta per tutte alla rivolta dando un chiaro segno della loro potenza.
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Masada, a circa 100 km a sud-est di Gerusalemme, si erge su un altopiano a 400 metri sul livello del mare. La cittadella fu fortificata per volere di Erode il Grande che la rese una roccaforte pressoché inespugnabile: circondata da ripide pareti di roccia era accessibile solo da due strade: una ad ovest, più semplice da percorrere, e la “Via del Serpente” ad est, un cammino tortuoso e tanto stretto che “chi lo percorre deve piantare saldamente or l’uno or l’altro piede per l’evidente pericolo di morte”.
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La città è cinta da una muraglia alta cinque metri e larga quattro provvista di torri alte venti metri. Le abitazioni sono addossate alle mura per lasciare la parte centrale, molto fertile, adibita a coltura. Oltre a ciò la cittadella dispone di magazzini per lo stoccaggio di cibo e diverse cisterne sotterranee per la raccolta e la conservazione dell’acqua piovana caduta durante l’inverno. Giuseppe Flavio, l’“inviato” che ci racconta gli eventi del periodo, ricorda che la città, al momento dell’arrivo dei Romani aveva riserve di grano, olio, datteri e legumi, oltre ad armi sufficienti per diecimila uomini, bronzo, piombo e ferro da lavorare. I circa mille Zeloti che risiedono nella città si sentono al sicuro e dalla loro postazione controllano la regione circostante.
Il nuovo governatore della regione, Lucius Flavius Silva, giunge alla base dell’altopiano nell’autunno del 72 d.C. alla testa della legio X Fretensis e sei coorti di ausiliari, per un totale di oltre tredicimila uomini. Memore del lungo assedio contro Gerusalemme, Silva fa circondare l’intero altopiano con un lungo muro di pietre, in modo tale che nessuno possa uscire o portare aiuto alla città. Nel frattempo ordina la costruzione di otto campi militari, dei quali sono ancora oggi ben visibili i muri di cinta e alcune strutture interne in pietra. L’assedio è iniziato, ma la città di Masada, come detto, dispone di grandi riserve di cibo ed acqua e prendere gli assediati per stremo risulta un’impresa che richiede troppo tempo. Silva deve trovare il modo per espugnare la rocca: gli Zeloti hanno bloccato il passaggio occidentale e la Via del serpente è ben difesa da una imponente torre. Da un’altura, che Giuseppe Flavio chiama “la Bianca”, il dislivello per giungere alla sommità dell’altopiano è minore, “solo” 137 metri. È proprio qui che il generale romano ordina la costruzione di un’imponente rampa in terra e con impalcatura interna in legno, alta circa 90 metri. Su questa, poiché non appare sufficientemente resistente per sorreggere il peso di una torre d’assedio, viene realizzata, sotto il continuo tiro nemico degli assediati, una piattaforma di blocchi di pietra alta 29 metri.
Siamo alla fase finale dell’assedio: per i Romani è ora necessario innalzare la torre, dotarla di balliste e catapulte per allontanare i difensori dalle mura e avvicinarla alle fortificazioni di Masada. Gli abitanti della città non sono certo stati ad aspettare ed hanno rinforzato le mura con una struttura in terra e legno. Ad aprile del 73, la torre, alta 27 metri, viene portata sotto le fortificazioni e a niente valgono le frecce infuocate degli Zeloti: il gigante di legno è protetto da una spessa corazza di ferro. Gli uomini al suo interno azionano il pesante ariete ed il primo colpo viene sferrato. Il rinforzo realizzato funziona: demolito lo strato esterno di pietra, la terra assorbe ogni colpo e si compatta. Ma bastano alcune torce per vanificare il lavoro dei difensori facendo crollare la struttura. ![]()
A sera viene aperta una breccia nelle mura. I Romani si ritirano nei campi per espugnare l’indomani la cittadella; all’alba irrompono nella città ma rimangono esterrefatti non trovando nessun nemico. Un inquietante silenzio riempie l’aria. Ad un certo punto due donne e cinque bambini escono alla scoperto: si sono nascosti nei condotti delle cisterne sotterranee e raccontano quanto successo durante la notte. Gli Zeloti, ormai certi dell’esito della battaglia, decidono di commettere un atto estremo. Pur di non finire in schiavitù procedono ad un suicidio di massa: tramite frammenti di ceramica vengono estratti a sorte dieci uomini incaricati di porre fine alla vita di tutti gli uomini rimasti, dopo che questi hanno ucciso i loro cari.
Anche l’ultimo focolaio della rivolta è stato estinto. Così è caduta Masada.
Immagini tratte da:
Visione laterale con Via del Serpente, da Wikipedia Inglese, By http://www.flickr.com/people/69061470@N05 - http://www.flickr.com/photos/government_press_office/7307407062/, CC BY-SA 3.0, voce “Masada” Carta geografica, da google.maps Masada , da Wikipedia Italia, Di Andrew Shiva / Wikipedia, CC BY-SA 4.0, voce “Masada” Campo legionario principale, da Wikipedia Italia, Di Original uploader was DE.MOLAI at it.wikipedia - Originally from it.wikipedia; description page is/was here., Pubblico dominio, voce “Masada” Carta di Masada, da google.maps (modificata dall’autore) Visione laterale con rampa, da Wikipedia Italia, Di Andrew Shiva / Wikipedia, CC BY-SA 4.0, voce “Assedio di Masada” Visione laterale con rampa e campi legionari, da Wikipedia Italia, Di Original uploader was אסף.צ at he.wikipedia - Originally from he.wikipedia., Pubblico dominio, voce “Masada” Torre d'assedio, da pinterest
Energia, audacia, ribellione, velocità, lotta, guerra sono soltanto alcune delle parole cardine sulle quali si imposta il Manifesto del Futurismo, l'atto di fondazione di un movimento culturale d'avanguardia tra i più reazionari, contraddittori e discussi del XX secolo. Il 20 febbraio del 1909, sulla prima pagina del quotidiano parigino "Le Figaro", preceduto da una breve introduzione e da un preambolo dai toni del racconto mistico e simbolista, il Manifesto fece la sua rumorosa e aggressiva comparsa, articolato in undici punti programmatici, nei quali prendono vita l'ideologia e l'estetica del Futurismo. L'autore fu Filippo Tommaso Marinetti, poeta, scrittore e direttore di "Poesia", rivista da lui fondata a Milano, ma inadatta a diffondere la pubblicazione del Manifesto, dato il clima ristagnante e "passatista" della cultura italiana del tempo. Marinetti, che dedicò tutta la vita alla diffusione internazionale del movimento e alla difesa dell'arte moderna, lanciò un grido iconoclasta contro la sterile ed edulcorata produzione artistica e letteraria di età umbertina, colpevole di ostacolare il progresso della modernità. Il mito della macchina e quello della velocità diventarono tangibili con lo sviluppo industriale e la nazionalizzazione delle ferrovie. Marinetti stesso fu tra i primi a possedere un'automobile: una Fiat quattro cilindri. Le scoperte scientifiche e la cronofotografia di Marey e Muybridge produssero nuove concezioni del mondo, i cui elementi si compenetrano in un perpetuo "dinamismo universale", come si legge nel Manifesto tecnico della pittura futurista dell'aprile del 1910. "Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente. [...], le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono". I segnatari del Manifesto tecnico - Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini - continuarono, per qualche anno, ad attingere alla tecnica pittorica e al repertorio dei temi prediletti da alcuni artisti appartenenti a una generazione precedente e da loro considerati maestri, ossia i divisionisti, incompresi dalla critica accademica italiana e liquidati come postimpressionisti di seconda mano. In realtà, la spiritualità di Segantini, il simbolismo di Previati e la coscienza sociale di Pellizza da Volpedo, perseguiti mediante brevi pennellate di colore puro "diviso", destinato a fondersi nel processo di percezione visiva restituendo unità all'opera nel suo insieme, aveva dato vita ad una sintesi artistica tutta originale.
Se Balla, il più anziano fra i futuristi (presso il suo studio romano infatti si erano formati gli stessi Boccioni e Severini) era giunto al Divisionismo tramite l'impiego come fotografo e l'attenzione alla resa della luce, per gli altri, e per Boccioni in particolare, rappresentò il punto di partenza più naturale. Nel 1904, Giacomo Balla dipinse un olio su carta rielaborando in chiave moderna i polittici antichi. La cornice va così a scandire, dall’alba, al mezzogiorno e infine al tramonto, come in una sequenza cinematografica, le ripetitive e alienanti azioni quotidiane de La giornata dell’operaio (Lavorano, mangiano, ritornano). Grande attenzione è posta alla restituzione delle condizioni luminose – anche artificiali – e dell’atmosfera. L’uso magistrale del colore divisionista e la tematica del lavoro sono ripresi poco dopo da Umberto Boccioni, il quale, in opere come Officine a Porta Romana, raffigura il prepotente sviluppo urbano della periferia milanese nei primi anni dieci del Novecento. Cantieri e ponteggi sono ancora una volta i protagonisti della metropoli nella sua irrefrenabile corsa verso la modernità, nella tela, oggi conservata al Museum of Modern Art di New York, intitolata La città che sale. Risalente al 1910-11, l’opera costituisce un primo e felice connubio di Divisionismo e Futurismo. Ai piedi delle svettanti impalcature che solcano lo sfondo, la febbrile attività di costruzione si trasforma in un turbinio dinamico, dal cui magma emergono uomini e animali. Il possente e indomabile cavallo in primo piano appare come un anacronistico simbolo di sforzo fisico, in contrasto con la città industrializzata e con lo sbuffo di vapore della locomotiva retrostante. Immagini tratte da:
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Gennaio 2022
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