Appia Annia Regilla Atilia Caucidia Tertulla, più comunemente conosciuta come Annia Regilla, era un nobildonna romana del II sec.d.C. Nacque a Roma intorno al 125 a.C. da famiglia aristocratica che aveva legami di parentela con Annia Galeria Faustina, moglie dell’imperatore Antonino Pio.
Nel 140 d.C. Annia Regilla andò in sposa al greco Erode Attico, letterato e filosofo. Nato in una famiglia ricchissima, divenne discepolo di Favorino ad Atene, fu maestro di retorica e appartenne al gruppo della neosofistica. Ricoprì la carica di censore nel 131 a.C., quella di pretore nel 134 d.C e divenne console nel 143 d.C. In un primo momento la coppia visse a Roma, ma successivamente si spostò in Grecia, probabilmente a Maratona.
Le circostanze della morte di Annia Regilla sono ancora oggi oggetto di discussione. Filostrato nelle “Vite dei Sofisti”così racconta: “Fu rivolta contro Erode anche un'accusa di omicidio concepita in questi termini. Sua moglie Regilla, resa gravida da lui, era all'ottavo mese, quando egli per un futile motivo aveva ordinato al suo liberto Alcimedonte di percuoterla; colpita al ventre, la donna aveva abortito ed era morta. Per questo fatto, come se fosse vero, lo accusa di omicidio Bradua, fratello di Regilla, uno dei più stimati fra i consolari […]. Gli giovò a sua difesa in primo luogo il fatto di non aver mai dato un tale ordine contro Regilla, in secondo luogo l'averla rimpianta oltre misura dopo morta. E, sebbene venisse calunniato anche di questo come fosse un atteggiamento simulato, vinse tuttavia la verità”.
Molto probabilmente ciò che realmente giovò a Erode Attico fu l’intervento al processo dell’imperatore Marco Aurelio suo amico fedelissimo. Annia Regilla venne sepolta in Grecia, forse ad Atene. A Roma, Erode fece erigere un tempio in sua memoria e una tomba, lungo la via Appia, in quello che oggi è il parco della Caffarella. In realtà non è una tomba ma un cenotafio, cioè un sepolcro vuoto con funzione di ricordo della persona scomparsa. Recentemente, però, alcuni studiosi hanno confutato questa ipotesi.
Il cenotafio ha la forma di un tempio su alto podio con tetto a doppio spiovente con all’interno una volta a crociera ed è costruito in laterizio. Esternamente il laterizio è di due colori: giallo per le pareti e rosso per gli elementi architettonici quali frontoni, architravi e lesene con capitelli corinzi (fra le lesene si può osservare un fregio con motivo a meandro). L’interno era suddiviso in due piani, oggi il pavimento che li separa è crollato. Al primo vi erano delle nicchie, mentre al piano superiore vi erano delle finestre che davano sulla strada ed era il luogo in cui avvenivano i riti funebri.
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Correva l’anno 1469 quando nella celebre bottega dello scultore, pittore e orafo toscano Andrea del Verrocchio vi entrò e si formò uno dei padri dell’arte rinascimentale italiana: Leonardo da Vinci.
È nella sua incombente e spiccata personalità che si racchiudono innumerevoli professioni, talvolta molto diverse e complesse. Fu, infatti, pittore, disegnatore, anatomista, inventore e, addirittura, musicista. Si interessò anche all’architettura e alla scultura, ma in primis fu un uomo d’ingegno, dall’ eccellente e universale talento. Le prime opere pittoriche del giovane Leonardo da Vinci mostrano uno stile “finito”, una morbida e delicata stesura dei colori e una minuziosa attenzione riservata ai particolari, mostrando così un chiaro influsso fiammingo. La svolta pittorica e tecnica di Leonardo da Vinci si colloca a partire dal 1481, quando comincia a dipingere per i monaci di San Donato a Scopeto l’Adorazione dei Magi.
Il tema proposto fu raffigurato spesso dagli artisti attivi nella Firenze del XV secolo (Botticelli, Gentile da Fabriano ecc.) perché nei tre magi si riscontrava una simbolica identificazione dei Medici. Questa immedesimazione trovava conferma nell’annuale spettacolo semi-liturgico, la cosiddetta “Cavalcata dei Magi”, che aveva luogo nelle strade della città in occasione dell’Epifania.
Nell’opera è evidente un’elaborazione estremamente complessa, documentata e testimoniata da diversi disegni leonardeschi che mostrano sapienti studi prospettici e architettonici.
La tela, tuttavia, non venne ultimata da Leonardo, ma rimase incompleta perché l’anno successivo l’artista dovette recarsi a Milano.
La parte centrale del dipinto è occupata dalla madonna con il bambino, isolata rispetto alla folla di personaggi che sembrano farle da cornice. Forti e incisive sono la gestualità e le fisionomie di uomini e donne che popolano la scena, andando così a mostrare i turbamenti psicologici e lo sconvolgimento interiore, alimentati dal manifestarsi della divinità di Cristo incarnato. Sullo sfondo, invece, si notano due elementi fortemente simbolici: a sinistra le rovine di un edificio che alludono al crollo del Tempio di Gerusalemme e a destra la lotta tra cavalieri che rimanda alla confusione di coloro che non hanno ancora abbracciato la fede. Questo capolavoro, seppur abbozzato a monocromo, racchiude in sé e anticipa alcuni elementi propri dell’arte di Leonardo: la complessità luminosa, l’interazione tra i soggetti rappresentati, l’intensa e personale espressività, l’adozione di una composizione articolata e unitaria e, infine, l’utilizzo della tecnica dello “sfumato” consistente in una sfocatura lieve dei contorni e dei tratti, ottenuta attraverso le dita o una pezza di stoffa. Nel corso del tempo l’opera cominciò a mostrare notevoli problemi di conservazione mettendo a rischio la sua estrema bellezza.
Fu così necessario un accurato restauro e dopo circa sei anni, il 28 marzo di quest’anno, torna a dominare una delle sale degli Uffizi. L’opera rivela alcuni nuovi e suggestivi dettagli, prima poco leggibili, ed esibisce il recupero di alcune tonalità cromatiche, suscitando un forte entusiasmo presso il pubblico. La tela, dunque, è la protagonista della mostra intitolata “Cosmo magico di Leonardo da Vinci: L’Adorazione dei Magi restaurata” che si terrà fino al 24 settembre.
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La colazione dei canottieri (Le déjeuner des canotiers) è annoverata tra le opere più belle di Pierre-Auguste Renoir, pittore francese di fine ‘800, passato alla storia come uno dei più grandi esponenti dell’Impressionismo.
Il dipinto ritrae l’affollata terrazza di una locanda di Chatou, sulle rive della Senna, dove spesso Renoir trascorreva le domeniche in compagnia degli amici. Infatti, la celeberrima scena de La colazione dei canottieri, ha luogo nella veranda aperta del ristorante dei Fournaise, abitualmente frequentato dai canottieri parigini che praticavano questo sport lungo la Senna e qui si concedevano un meritato ristoro in compagnia. La tela fu realizzata direttamente sul luogo e i personaggi dipinti sono per lo più amici di Renoir: artisti, giornalisti, modelle e la sua futura moglie, Aline Charigot. Si vedono ben quattordici persone riunite attorno a un tavolo: di queste, è possibile riconoscere la bella Alphonsine Fournaise, ritratta pensierosa appoggiata alla balaustra, Paul Lhote con il cilindro, Alice Charigot, intenta a giocare affettuosamente con un cagnolino e Charles Eprussi (sullo sfondo con la tuba), un ricco banchiere che Renoir conobbe al salotto dei Charpentier. Si riconosce anche Alphonse Fournaise, figlio del proprietario del locale, che indossa una maglietta bianca alla marinara e un cappello di paglia: un abbigliamento tipico dei canottieri; anche le sue braccia tornite e il torso virile sembrano suggerire all'osservatore che egli è uno sportivo. Dunque gli amici del pittore vengono immortalati in un momento di relax, dove tutti, dopo aver mangiato, si rilassano e discutono allegramente. L’atmosfera è conviviale, festosa e leggermente bohémienne, accentuata dalla fitta rete di sguardi tra i vari personaggi. La luminosità della scena è in sintonia con lo stato d’animo dei personaggi, la tenda parasole che sovrasta la terrazza, non impedisce alla luce intensa della giornata estiva di penetrare comunque tra i tavoli. Essa, inoltre, viene esaltata dalle superfici bianche della tovaglia e delle canottiere dei due uomini in primo piano. Le pennellate sono rapide, secondo la tecnica impressionistica che non esclude la cura di alcuni particolari, come si può notare dagli oggetti disposti sulla tavola, che vanno a formare una splendida natura morta. Renoir si è preso la libertà di dipingere frutta tipicamente autunnale anche se in contrasto con il periodo estivo in cui la scena è ambientata. Tutte le figure sono ben delineate e hanno un proprio spessore, completamente distaccate dal paesaggio che è presente alle spalle dei personaggi; lo scorcio naturale è diviso dalla veranda attraverso l’utilizzo di alcune barre di ferro e di una tenda che si trova nella parte alta della tela. Anche questo non è un elemento casuale: Renoir utilizzerà molto spesso questo espediente di divisione all’interno delle proprie tele che hanno come sfondo Chatou. Infatti, il parapetto in legno che delimita la terrazza non costituisce un elemento di vera separazione tra interno ed esterno: esso ha la funzione di dare profondità alla scena, organizzando lo spazio in senso diagonale. La colazione dei canottieri è una delle opere che più rappresenta la tecnica pittorica di Renoir. In essa, sono riconoscibili tutti gli elementi tipici dell’Impressionismo: le ambientazioni esterne e la ricerca di luminosità, ottenuta attraverso l’accostamento di pennellate rapide. È un’opera che consente di cogliere la propensione di Renoir per i soggetti semplici e allegri, ritratti nella loro quotidianità. Immagini tratte da: http://fascinointellettuali.larionews.com/la-colazione-dei-canottieri-renoir/
La marcetta dell’umanità
Partiamo dall’inizio e cioè dall’evoluzione dell’uomo: su alcuni libri di storia si trova ancora la famosa raffigurazione dell’evoluzione umana vista come una marcia ininterrotta e lineare verso specie sempre più evolute, in un crescendo di altezza. Niente di più sbagliato! Nel XIX secolo fu abbandonato questo concetto di “marcetta evolutiva” per passare a quello di “cespuglio”: fu Charles Darwin a formulare la teoria dell’evoluzione secondo la quale il processo evolutivo è assimilabile ad un cespuglio, nel quale alcuni rami continuano a crescere dividendosi e portando a nuove specie, mentre altri si arrestano rappresentando le specie che non sono riuscite a sopravvivere.
Le piramidi costruite da schiavi
Altro mito da sfatare è quello secondo cui le piramidi sarebbero state costruite dagli schiavi: chi lavorava all’edificazione delle monumentali tombe veniva ricompensato con cibo, birra, vestiario e agevolazioni fiscali. Gli operai avevano anche un giorno libero durante il quale andare a caccia o a pesca lungo il Nilo. Anche gli strati più alti della società partecipavano all’edificazione con l’invio del cibo destinato ai lavoratori stessi. Il falso storico deriva dai testi dello storico greco Erodoto, il quale però scrisse molti secoli dopo l’edificazione delle piramidi. Per saperne di più sulla Piramide di Cheope: La grande piramide.
Sparta ed il monte Taigeto
Plutarco nella sua opera “Le vite parallele” narra che i bambini spartani ritenuti deboli o non idonei fisicamente alla vita militare venivano abbandonati in una voragine del monte Taigeto detta Apotete. Questo mito, che ha avuto grande fortuna nelle epoche successive, non è supportato però da alcuna prova archeologica: i resti umani rivenuti nella zona citata dallo storico greco appartengono infatti uomini tra i 18 ed i 35 anni.
Il candore delle statue antiche
Siamo abituati a contemplare le statue greche e romane custodite nei musei, a valutarne la resa più o meno plastica delle parti del corpo ed il realismo dei dettagli, degli abitati e degli oggetti di cui sono corredate. Ma raramente ci soffermiamo a riflettere sul fatto che un qualsiasi artista dell’antichità troverebbe i “nostri” capolavori incompiuti. Incompiuti perché privi di colore. Vitruvio e Plinio ci dicono che per la colorazione dei marmi si ricorreva alla cera fusa, forse con una tecnica simile all’encausto. Sicuramente le opere d’arte del mondo antico avevano bisogno di regolari restauri. Il nostro modo di immaginare tutta la produzione scultorea antica bianca deriva dal Rinascimento ed è stato accentuato poi dalla corrente Neoclassica.
Marcetta, da sapere.it
I Think, da Wikimedia, By Charles Darwin - http://www.english.uga.edu/nhilton/4890/darwin/DarwinTree.html, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1859229 Piramide, da Wikipedia Italia, by Berthold Werner - Opera propria, CC BY-SA 3.0, voce “Piramide di Cheope” - See more at: http://www.iltermopolio.com/archeo-e-arte/la-grande-piramide#sthash.mQcTq7sw.dpuf Taigeto, da pixabay.it Statue colorate, da romanoimpero.it
Tra le numerose e grandi personalità artistiche delle quali la città di Livorno vanta i natali, può essere senza dubbio annoverato Vittorio Corcos: ritrattista sublime, ricercato dalle dame più raffinate dell’alta società europea fin de siècle, pittore di istantanee di vita moderna e non solo. Corcos nasce a Livorno il 4 ottobre 1859, da una modesta famiglia di origini ebraiche. Il padre ne intuisce immediatamente la precoce abilità nel disegno, indirizzandolo alla scuola locale di pittura, quindi all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Decisivo per la sua formazione è il soggiorno napoletano presso lo studio del pittore Domenico Morelli, il quale nello stesso periodo porta a compimento le sue ricerche sulla fusione di elementi realistici e simbolisti.
Essere stato un allievo di Morelli rappresenta per Corcos una garanzia: giunto a Parigi nella primavera del 1880, può da subito intrattenere rapporti commerciali con Goupil, il mercante d’arte del suo maestro, e ascendere così verso il successo. Stringe amicizia con Giuseppe De Nittis, pittore italiano perfettamente integrato nella vita parigina del tempo. Tornato in Italia, realizza opere che richiamano, omaggiandolo, lo stile dell’amico, mentre dimostra una crescente predilezione per il genere del ritratto. Sono fortissime le suggestioni di De Nittis nel Ritratto di signora del 1887.
L’ignota signora incede verso lo spettatore in tutta la sua eleganza, vestita secondo la moda della Belle Époque. Un tocco di misterioso fascino è conferito alla donna dalla veletta scesa sugli occhi. Sullo sfondo, tra i rami spogli degli alberi, si intravedono la cupola e il campanile del duomo di Firenze, ove, nel frattempo, Corcos si è trasferito con la moglie Emma Ciabatti, aprendo un proprio studio.
Un magistrale ritratto a mezzo busto di Emma è conservato al Museo civico Giovanni Fattori di Livorno. Raffinata e colta poetessa, dagli anni Novanta intrattiene un fitto scambio epistolare con Giovanni Pascoli, che le si rivolge con l’appellativo di Donna Gentile, nell’accezione stilnovistica del termine. Presso il loro salotto fiorentino, i coniugi danno vita a un circolo culturale, dal quale lo stesso Corcos trae ispirazione per le sue prove letterarie. Nel 1896, alla Festa dell’Arte e dei Fiori di Firenze, il pittore espone la sua tela più famosa, ancora oggi capace di catturare l’attenzione dell’osservatore: Sogni.
La giovane modella, Elena Vecchi, siede con estrema disinvoltura, poco appropriata per una donna dell’epoca: le gambe sono accavallate, il braccio destro è abbandonato sulla spalliera della panchina, l’altro, poggiato sul ginocchio, sorregge il mento. Dell’ovale perfetto del volto, spiccano le labbra rosse e carnose, lo sguardo languido e magnetico, la capigliatura leggermente disfatta. Molto è stato detto sui possibili pensieri che attraversano la mente della ragazza: pensieri, forse, mossi dalla lettura dei tre romanzi francesi che tiene vicino al cappello di paglia e all’ombrellino. La posa echeggia certe figure femminili immerse negli assolati paesaggi mediterranei dei quadri di Sir Lawrence Alma-Tadema, nostalgici di un idilliaco passato greco-romano.
Ne La morfinomane, del 1899, sono gli occhi, ancora una volta, gli assoluti protagonisti dell’opera: occhi grandi, infiammati, ebbri, incorniciati da folte sopracciglia scure e arcuate. La donna, sorpresa nell’effimera estasi conferita dalla droga, è mollemente adagiata su una poltrona di seta dorata. L’abito da sera di tulle nero le scopre una spalla, pallida come il resto dell’incarnato. Creatura sensuale e terrifica al contempo, La morfinomane può alludere a una dannunziana Elena Muti de Il Piacere, oppure a una delle femmes damnées di Baudelaire.
Apprezzato in Inghilterra e in Scozia, dal 1904 Corcos è ospite dell’Imperatore Guglielmo II come ritrattista ufficiale della corte berlinese. L’anno successivo si trova presso i reali portoghesi. Durante le vacanze estive, fa ritorno di buon grado nelle amate coste labroniche. Osservando un’opera come In lettura sul mare, è facile distinguere il profilo della spiaggia che corre tra Livorno e Rosignano. La vista è, verosimilmente, quella che si poteva scorgere dalla sua villa di Castiglioncello, alla quale, nel dipinto, viene aggiunta una balaustra in stile liberty. Corcos si spegne nel 1933.
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Camille Claudel fu un’affascinante ed eccellente scultrice francese della seconda metà dell’Ottocento le cui opere rivelano non solo una grande abilità scultorea, ma anche una profonda e controversa interiorità. Il suo nome è solitamente associato a un’altra personalità di spicco, quella dello scultore Auguste Rodin. Camille Claudel fu per Rodin innanzitutto una talentuosa allieva, poi musa e infine amante. Questa condizione porterà la scultrice a trascorrere una vita tormentata e straziante, tanto da condurla alla follia e alla solitudine.
L’artista nutriva nei confronti di Auguste Rodin una profonda stima e ammirazione, ma al tempo stesso detestava essere etichettata come “la brutta copia di Rodin”. Camille Claudel non tollerava, infatti, che il suo lavoro fosse costantemente oscurato dalla fama del maestro e amante. La scultrice francese, inoltre, non riusciva ad accettare che la sua passionale e travolgente attività scultorea non fosse pienamente apprezzata da un pubblico ancora soggetto a forti pregiudizi nei confronti di una donna che praticava un mestiere puramente maschile. Camille Claudel era ritenuta nient’altro che una donna che, con ostinata presunzione, soleva sporcarsi le mani come se fosse un uomo, impastando l’argilla e modellando statuette. Finalmente, a 74 anni dalla sua scomparsa, Camille Claudel ottiene il riconoscimento tanto combattuto e sperato. Nella sua casa a Nogent-Sur-Seine, una piccola località del nord della Francia in cui la scultrice si trasferì insieme alla famiglia per motivi di lavoro del padre, infatti, è stato inaugurato il primo museo dedicato esclusivamente alla scultrice. L’inaugurazione è avvenuta recentemente, il 26 marzo del 2017 ed è stata accolta con estremo entusiasmo. All’interno del Museo è presente una raccolta di circa 43 capolavori dell’artista che raccontano le varie fasi della sua vita e della sua sofferta relazione con Auguste Rodin. Si possono ammirare, inoltre, ceramiche, lettere e oggetti personali appartenenti a Camille Claudel e opere realizzate da coloro che fecero parte della sua vita e formazione, tra cui Alfred Boucher (il suo primo maestro), Paul Dubois (scultore e profondo ammiratore della scultrice) e alcune sculture di Rodin che vedono come protagonisti Camille Claudel e il loro legame d’amore e artistico. Ad ogni modo, tutte le opere esposte non sono che un omaggio alla scultrice e fanno sì che Camille Claudel possa finalmente godere di una personale rivincita nei confronti di Auguste Rodin e del suo tempo.
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- da wikipedia, pubblico dominio, voce: Camille Claudel - restaurars.altervista.org
“I was taught to confront things you can't avoid. Death is one of those things. To live in a society where you're trying not to look at it is stupid because looking at death throws us back into life with more vigour and energy. The fact that flowers don't last for ever makes them beautiful.”
Damien Hirst
Esponente degli YBAs (Young British Artists), termine coniato nel 1996 dalla famosa rivista londinese Art Monthly, Damien Hirst è impegnato sin dagli anni 90 nell'arte. Nel 1981, a soli 16 anni, dopo essere stato condotto da un suo amico, studente di biologia, in un obitorio, Damien fu profondamente colpito dalla visita presso quel luogo di morte da farne il perno attorno a cui ruota tutta la sua arte. Dal 9 Aprile a Venezia è stata aperta al pubblico la sua mostra con nuove opere e lo stesso Post ha lanciato l'evento con il titolo La nuova esagerata mostra di Damien Hirst.
Del 1991 è The Impossibility of Death in the Mind of Someone Living che appartiene a un gruppo di opere con il tema preferito di Damien. Uno squalo bianco venne riposto in tre teche bianche in vetro e riempite di formalina. La presenza della mostruosa e paurosa bestia, allo stesso tempo meravigliosa e affascinante, suscita nello spettatore un kantiano sentimento del sublime, un'atavica combinazione di terrore e meraviglia. La grande tecnica nella rappresentazione della fisicità e della misuratissima ripresentazione in cubi dall'eco minimalista del repellente animale sono in grado si smussare il disgusto misto alla paura, immergendo la mente di coloro che ammirano nella contemplazione estetica di una morte apparente e irreale, meravigliosa. L'artista ha, nella sua semplicità, presentato uno squalo morto, un semplice cadavere, in un momento preciso, quello più puro della morte stessa, quello precedente allo stato degenerativo. Hirst ha immerso nella formaldeide molti altri tipi di animali, come mucche e tigri, nonostante ciò è questa opera che riesce maggiormente a suscitare nello spettatore nausea, terrore, disgusto e meraviglia per le sue forti implicazioni legate alla pericolosità reale ma anche all'immaginario che si è costituito su questo animale: quello che per i bambini è il lupo nero, per gli adulti è lo squalo. Hirst è riuscito a rappresentare con la sua opera l'esatto momento della morte con un concetto nuovo, quello dell'assenza della vita, al quale noi uniamo solitamente il processo consequenziale, quello di putrefazione e disfacimento. Damien Hirst ha, invece, prima sottratto l'orgasmo della morte dalla necessità eiaculatoria dell’ultimo spasmo, l'orgasmo che precede l'eiaculazione, e poi ha cristallizzato sotto formalina un'estasi inaspettatamente destinata a non finire. Immagine tratta da: www.artribune.com
Le domus, le villae e gli horti erano i luoghi in cui i cittadini romani dei ceti più abbienti dimoravano. Dal II sec.a.C. in poi, secolo in cui Roma creò il suo impero conquistando il Mediterraneo orientale, prese avvio la consuetudine di realizzare abitazioni lussuose. Pompei, meglio di ogni altro luogo, è testimonianza di questo cambiamento, basti pensare alla famosa Casa del Fauno.
impluvium con statuetta del fauno; ricostruzione; peristilio
I vani delle domus erano suddivisi in genere in questo modo: vestibolo, atrio, triclinium (sala da pranzo), tablinium (il luogo in cui il padrone trattava i suoi affari e riceveva i clientes) peristilio (giardino colonnato) ed esedra. C’è da dire che alcune domus potevano avere anche più atri, triclini o peristili.
Gli atri potevano essere di diversi tipi: - testudinato: utilizzato nelle case arcaiche ed era coperto, forse, da una volta a botte. - tuscanico: il tetto poggiava direttamente sulle pareti tramite travi di legno. - tetrastilo: vi erano quattro colonne ai lati dell’impluvium (vasca dove si raccoglieva l’acqua). - corinzio: il tetto era sorretto da file di colonne a imitazione diretta dei porticati del peristilio.
Atrio corinzio; Atrio tetrastilo
In alcune case vi potevano essere anche vani molto lussuosi che avevano il nome di oecus. Gli oeci si distinguono, in base alla loro conformazione, in tre tipi:
- oecus corinzio era formato da colonne che poggiavano direttamente a terra o su un podio. Sulle colonne vi erano travi di legno o di stucco che sorreggevano una volte a botte ricoperta da lucernari. - oecus egizio era caratterizzato da colonne sormontate da altre colonne di dimensioni più piccole che sorreggevano un matroneo o ballatoio. - oecus ciziceno era aperto verso il giardino tramite una porta centrale con tablinium e triclinium affrontati e due finestre in alto per la luce.
oecus corinzio
Il giardino era formato da un colonnato che formava un vero e proprio porticato.
Le domus assunsero un valore politico molto forte poiché erano il luogo in cui il patronus accoglieva i clientes e per tanto dovevano creare meraviglia e stupore. Al centro di Roma non vi erano numerose domus di grandi dimensioni sia per la mancanza di spazio sia per il controllo del senato che cercava di salvaguardare l’isonomia interna. Per tale motivo i cittadini benestanti iniziarono a costruire le loro abitazioni intorno a Roma, nei luoghi in cui vi erano poderi di campagna. Qui, grazie ad ampi spazi, vennero costruite grandissime dimore: gli horti. Queste lussuose residenze erano formate da numerosi ambienti a più piani posti su terrazze aperte ad emiciclo, così dovevano apparire gli horti luculliani sul Pincio. I giardini erano immensi e abbelliti con ninfei e tempietti. Con il passare del tempo intorno a Roma si creò una vera e propria corona di horti che circondava l’Urbe. Un altro esempio di abitazione lussuosa era la villa. Questa si trovava al di fuori della città ed era il luogo in cui il proprietario controllava la produzione dei sui beni. La villa era formata dalla pars rustica in cui gli schiavi lavoravano e immagazzinavano i prodotti e la pars urbana dove dimorava il dominus. La villa era destinata all’otium del proprietario e contemporaneamente al controllo della produzione nella proprietà. Tra il II e il I sec.a. C. l’acquisto di villae divenne una questione di prestigio sociale, infatti il prestigio era direttamente proporzionato al numero di villae possedute.
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