di Andrea Samueli Il nostro viaggio per Pompei continua; siamo nei pressi dell’Anfiteatro (abbiamo già visto una struttura simile, sebbene di dimensioni nettamente superiori a Roma, con il Colosseo) e ci spingiamo a curiosare in un grande edificio protetto sui quattro lati da un alto muro di cinta. Sbirciando da una delle tre porte monumentali che si affacciano sull’anfiteatro scorgiamo un vasto cortile con ragazzi intenti a tenersi in forma. Si tratta dalle Palestra Grande, voluta da Augusto in persona (27 a.C. – 14 d.C.) con spesa pubblica: qui la gioventù equestre e senatoria della città trova un posto dove incontrarsi, allenarsi e, ovviamente, venerare Augusto nell’area sacra che si apre sul lato ovest. La palestra appare come un grande rettangolo (141x107 metri), dotato di ben dieci porte, con porticato interno su tre lati: le colonne ad una prima occhiata sembrano di marmo, decorate con scanalature, ma avvicinandoci notiamo che in realtà si tratta di malta, un vecchio trucco molto diffuso in questo periodo; i capitelli presentano invece foglie d’acanto e volute sugli angoli. Il quarto lato del rettangolo è occupato da grandi platani che offrono un po’ di ombra agli atleti. Al centro di tutta la struttura alcuni giovani si divertono in piscina: una piscina (34x22 metri) molto simile alle nostre, con il fondo in pendenza in modo da raggiungere una profondità massima di 2,60 metri. Non manca neppure la latrina, che si trova però all’esterno dell’edificio, addossata al muro meridionale. Prima di uscire vediamo un ragazzo intento a fissare una colonna: che il troppo sole gli abbia dato alla testa? No, sta leggendo una serie di parole inscritte in un quadrato, quello che oggi definiamo “quadrato magico”, la cui particolarità risiede nel fatto che la medesima frase si ripete diverse volte a seconda del punto da cui si inizia a leggere. L’ipotesi più suggestiva suggerisce una lettura in chiave cristiana, ma forse si tratta solo di un gioco di parole volto a divertire i lettori. Il terremoto del 62 d.C. danneggerà la struttura, per la quale partiranno lavori di restauro che non vedranno però termine a causa della terribile eruzione del 79 d.C.. Immagini tratte da:
Planimetria, da Nappo, S. C., Pompei - Guida alla città sepolta, Edizioni White Star, Vercelli, 1998 Veduta piscina e anfiteatro, da Wikimedia Commons, By Cavaliere Nero - Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=73102530 Veduta dal porticato, da Wikimedia Commons, By User:Yoruno (self) - http://it.wikipedia.org/wiki/Immagine:Pompei.PalestraGrande.jpg (self), CC BY-SA 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1616812 Sator, da https://www.archart.it/
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di Ilaria Ceragioli Jessie Boswell, Luigi Chessa, Nicola Galante, Carlo Levi, Francesco Menzio ed Enrico Paulucci sono i sei pittori che costituirono quel sodalizio artistico che passò alla storia col nome “I sei di Torino”. La formazione del gruppo si colloca intorno al 1928, a Torino, presso la scuola privata di Felice Casorati; favorita da critici d’arte come Edoardo Persico e Lionello Venturi, fu sostenuta economicamente dal collezionista Riccardo Gualino. La loro è una pittura che si oppone a quella falsa classicità e monumentalità caratterizzanti la produzione artistica legata al regime fascista, più precisamente, a Novecento. Novecento fu un movimento artistico messo a punto nel 1922 a Milano da Margherita Sarfatti, critica d’arte e amante di Mussolini. Si trattava di un’arte che mirava alla precisione e alla decisione del segno, alla plasticità di cose e figure e che allontanava dalla pittura tutto ciò che fosse oscuro, eccessivo e “straniero”. Le opere create dal gruppo I sei di Torino, invece, guardavano alla pittura di Cézanne, Matisse, i Macchiaioli, Manet. Personalità diverse tra loro, ma con un obiettivo comune, dunque, elaborarono una pittura incentrata esclusivamente sul colore, non più sul disegno e sul volume. Una pittura che attraverso la forza del colore intendeva rifiutare e denunciare gli aspetti propri dell’arte fascista. Figura di spicco del gruppo fu Carlo Levi, celebre pittore e scrittore (scrisse il celebre romanzo Cristo si è fermato a Eboli). Noto fu anche il suo impegno politico antifascista. Di Carlo Levi ricordiamo l’opera Aria del 1929. Si tratta di un olio su tela conservato al GAM di Torino che venne esposto per la prima volta in occasione della “III Mostra dei Sei” presso la Galleria Bardi a Milano. Nella tela centrali sono la luminosità cromatica e la pittura en plein air che, chiaramente, rimandano alla lezione appresa dalle opere di Seurat. Una pittura raffinata che, al contempo, rivela inquietudini e malinconie è quella di Francesco Menzio. In essa, forte fu l’influenza di Matisse e, successivamente, di Modigliani. Celebre è il Ritratto d’uomo del 1929, oggi appartenente alla Collezione Iannaccone. La collezione dell’avvocato Iannaccone, tra l’altro, ospita anche Marina (1929), un olio su cartone elaborato dall’unica donna del gruppo, ossia la pittrice inglese Jessie Boswell. Reduce da un viaggio a Parigi nel 1928, anche Enrico Paulucci si appassionò ben presto all’arte impressionista. L’assenza di un disegno preparatorio e della precisione del segno, ad esempio, caratterizzano il Paesaggio con alberi e casa (1929). Il medesimo tema, un paesaggio alberato, si ritrova anche nell’opera Paese per la casetta (1929) di Nicola Galante. Qui, però, il soggetto è la sua città natale, Vasto, un paesino in provincia di Chieti. Tuttavia, il gruppo non diventò un movimento in quanto non fu mai dotato di una propria autocoscienza; si sciolse definitivamente nel 1935, anno in cui si ricorda anche la morte di Luigi Chessa.
Dopo l’osservazione di alcuni dei più noti capolavori di questi artisti e intellettuali, dunque, risulta limpida ed inequivocabile la loro volontà di aprirsi alle esperienze artistiche internazionali rinnegando l’arte di stampo fascista che, invece, rifiutava aspramente ogni influenza straniera. I Sei di Torino crearono così una pittura antieroica fondata sul colore e, soprattutto, sulla libertà. Immagini tratte da: www.gamtorino.it www.collezionegiuseppeiannaccone.it www.collezionegiuseppeiannaccone.it www.bing.com www.collezionegiuseppeiannaccone.it di Nicola Avolio In questo nuovo articolo voglio rivolgere le mie attenzioni ad un dipinto, in particolare l’ultimo, di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, ossia “Il martirio di Sant’Orsola”: commissionato a Napoli dal banchiere genovese Marcantonio Doria (la cui famiglia aveva come protettrice proprio Sant’Orsola) e oggi conservato presso il palazzo Zevallos-Stigliano sempre a Napoli, fu realizzato dall’artista lombardo nel 1610, poco prima di morire. Questo è un dipinto molto particolare, in cui il Caravaggio, che era solito rappresentare nelle sue opere la scena principale avvolta da fasci di luce (la luce divina), si discosta dalla tradizione rendendo lo scenario estremamente buio, crudo e realistico, il che potrebbe fungere da specchio del travagliato periodo che stava attraversando l’artista nell’ultima fase della sua vita. La scena è ambientata nella tenda del tiranno Attila, raffigurato in primo piano sulla sinistra e con abiti secenteschi, il quale, vedendosi più volte rifiutato dalla santa, la trafigge con una freccia, anche se, a giudicare dall’espressione del viso, sembra essersi già pentito del gesto appena compiuto, come a dire “ Cos’ho fatto?”; in primo piano, sul centro-destra, Sant’Orsola, raffigurata pallida in viso ad indicare la morte imminente e nel gesto di ritrarre indietro il petto, come se volesse osservare l’oggetto che l’aveva appena trafitta, rendersi conto del gesto appena compiuto dal tiranno; dietro di lei, a sorreggerla, tre cavalieri, anch’essi rappresentati in abiti moderni e con lo sguardo stupito, quasi come se non volessero credere a ciò che il loro capo aveva appena compiuto (tra essi è presente lo stesso Caravaggio, che si è autoritratto in una smorfia di dolore). Ma ciò che maggiormente colpisce di quest’opera è un cosiddetto “pentimento”, venuto fuori a seguito di un restauro eseguito nel 2005 e che raffigura una mano, collocata tra le figure di Attila e Sant’Orsola quasi come se si fosse intromessa nella scena per provare a fermare il gesto del tiranno: ma a chi appartiene questa mano? Tante sono le ipotesi messe in ballo dagli studiosi, c’è chi pensa appartenga allo stesso Caravaggio, il quale avrebbe voluto personalmente sventare l’esecuzione, c’è chi invece pensa si tratti dell’intervento divino, giunto ormai troppo tardi per impedire che la freccia trafiggesse la santa, e c’è invece chi semplicemente pensa si sia trattato di un errore di raffigurazione da parte dell’artista, un ripensamento o comunque un qualcosa privo di un significato reale, e che l’artista ha accuratamente pensato di “rimuovere” proprio perché non utile, nella sua mente, ai fini della realizzazione dell’opera e allo svolgimento dell’azione. Immagini tratte da:
L’immagine del particolare della mano è stata tratta dal seguente sito: http://senzadedica.blogspot.com/2013/02/il-martirio-di-santorsola-di-caravaggio_8.html Tutte le altre immagini sono state tratte dal seguente sito: https://www.arteworld.it/martirio-di-sant-orsola-caravaggio-analisi/
di Andrea Samueli
Oh no! Proprio all’ultimo morso, il boccone di pane con il garum è caduto sulla nostra tunica…ed ora? Bhe, niente di cui preoccuparsi: basta fare un salto in una delle numerose fullonicae (lavanderie) sparse per la città. Un salto a casa per cambiarci e si parte.
All’ingresso, dalla stanza in cui sono riposti gli abiti puliti, il proprietario è intento a discutere con alcuni clienti. Noi ne approfittiamo per vedere come funziona questa attività: la lavanderia è ricavata da una domus, lo capiamo dalla disposizione degli ambienti e dal largo atrio con apertura sul tetto (compluvium) per far entrare luce e acqua piovana. Al centro, al posto della solita piscina (impluvium), vi è però una vasca, utilizzata per il lavaggio dei capi. Proseguendo, nella zona del peristilio, giungiamo nel cuore dell’edificio: un ambiente con tre grandi vasche comunicanti su livelli differenti. Qui gli schiavi stanno lavando e risciacquando dal sapone gli indumenti e man mano che ci avviciniamo alla fontana l’acqua diventa più pulita; ma ciò che ci colpisce è un odore acre provenire dai lati della stanza, dove altri schiavi premono con i piedi in piccole vasche (cinque per l’esattezza) ricolme di acqua e urina (o altre sostanze alcaline, come la soda): si tratta del primo passaggio di lavaggio, per eliminare le sostanze grasse dai tessuti; al termine dei risciacqui i panni saranno puliti e profumati.
Gli schiavi ci hanno a malapena guardati, intenti come sono nel loro lavoro: deve essere un lavoro sfiancante, soprattutto se pensiamo che viene ripetuto per molte ore al giorno. Una stretta scala porta al tetto ed è così che ci accorgiamo che l’edificio ha, sopra l’atrio e il peristilio, coperture piatte (in genere sono a falde) per stendere i vestiti appena lavati; alcuni sono addirittura affumicati con lo zolfo per candeggiarli.
E per stirare? Vicino all’ingresso c’è uno schiavo alle prese con una grande pressa nella quale ripone gli indumenti una volta piegati. Il proprietario non si è accorto del nostro girovagare e nel frattempo si è liberato. Prende in consegna la nostra tunica e ci invita a tornare in serata apostrofandoci con la sua pubblicità “Da Stephanus, la miglior lavanderia di Pompei”. Immagini tratte da: Affresco fullonica, da Wikipedia Italia, Di WolfgangRieger - Filippo Coarelli (ed.): Pompeji. Hirmer, München 2002, ISBN 3-7774-9530-1, p. 136, Pubblico dominio, voce "Fullo" Vasca nell'atrio, da http://pompeiisites.org/sito_archeologico/fullonica-di-stephanus/#&gid=1&pid=1 Vasche, da Wikimedia Commons, By Miguel Hermoso Cuesta - Own work, CC BY-SA 4.0, File:Fullonica Stephanus Pompeya 09.jpg Pressa a vite per i panni, da Wikipedia Italia, Di WolfgangRieger - Filippo Coarelli (ed.): Pompeji. Hirmer, München 2002, ISBN 3-7774-9530-1, p. 136, Pubblico dominio, voce "Fullo" di Ilaria Ceragioli Era il 1941 quando il celebre pittore siciliano Renato Guttuso ultimò l’elaborazione della sua opera più nota: La Crocifissione. La tela oggi conservata a Roma presso la Galleria Nazionale d’Arte moderna si configura come un vero e proprio grido popolare di opposizione ai regimi totalitari e alle atrocità che ne conseguono. Nel pieno dello svolgimento del secondo conflitto mondiale, dunque, vedremo come Guttuso decise rappresentare il suo disgusto e la sua disapprovazione agli orrori generati della guerra. Attraverso l’analisi dell’opera e della sua creazione noteremo come ogni singolo elemento trova la sua ragion d’essere, una sua giustificata presenza all’interno del quadro. Innanzitutto, l’artista si avvalse di un tema sacro: la crocifissione di Cristo per l’appunto. L’intento di Guttuso non fu quello di raffigurare Cristo che muore per i peccati di ogni giorno, bensì simboleggiare tutti gli uomini che ogni giorno soffrono e vengono puniti per le loro idee. Ci troviamo così dinanzi ad un’opera che vuole essere una tragedia corale, un dramma che coinvolge e sconvolge ciascun individuo. In un primo momento Guttuso pensò di inserire la scena in un interno, in una stanza, come farà Francis Bacon per la sua Crocifissione (1965). In seguito, però, decise di collocarla all’aperto come nella tradizione biblica. Il paesaggio aspro e montuoso ricorda Bagheria, la sua città natale e sullo sfondo compaiono delle rovine. In primo piano, alla nostra destra, Guttuso ha inserito su un tavolo una natura morta piuttosto insolita, ma non casuale: oltre a qualche bottiglia ed una ciotola, infatti, compaiono forbici, chiodi ed un martello che, inevitabilmente, ci riconducono a quei corpi appena massacrati e torturati. Osservando la tela, non si può fare a meno di notare un dettaglio inedito che va a caratterizzare la figura di Cristo: il suo volto nascosto dal corpo di uno dei due ladroni. Il pittore siciliano affermò di averlo celato perché ciò che per lui era importante non era raffigurare Cristo, ma un comune uomo torturato. Un altro particolare interessante riguarda ancora Cristo e i due ladroni: i pugni chiusi. Si tratta, infatti, di un espediente che Guttuso utilizzò per manifestare il suo dissenso culturale e politico. Ancora in primo piano, ma alla nostra sinistra, vi è un cavallo bianco dal collo torto che, immediatamente, rimanda a quello presente nella celeberrima Guernica di Picasso. Affianco allo stesso cavallo si scorge un uomo che mostra dei dadi e che nell’immaginario dell’artista avrebbe rappresentato proprio Adolf Hitler. Guttuso, di fatto, rivelò ad alcuni amici di aver aggiunto e tolto più volte dei baffi neri e di aver scelto di eliminarli definitivamente per evitare terribili ripercussioni personali. L’angoscia e l’esasperazione dell’artista si manifestano in questo affollarsi di figure, nei colori impetuosi e violenti e nei movimenti diagonali e divergenti. La scena è così travolta da una forte carica espressiva. Come possiamo intuire, però, l’opera suscitò feroci e avverse reazioni presso la critica. I giudizi più aspri furono mossi dalla stampa cattolica e dalla censura ecclesiastica che considerarono il quadro fortemente scandaloso data la nudità dei personaggi, in particolar modo della Maddalena. Un attacco a cui l’artista palermitano si difese affermando che il corpo spoglio di quest’ultima fosse tutt’altro che sensuale e che, per quanto riguardava gli altri, si trattava di uomini che non erano né antichi, né moderni, perciò, vestirli li avrebbe resi banali o volgari. Guttuso trovò così opportuno sottrarli da ogni collocazione temporale.
Per il Regime Fascista si trattò di una bislacca crocifissione e Marziano Bernardi su La Stampa la definì “monstrum”, un’opera in cui in cui tutto stride, dalla forma e dal colore. Una tela in cui l’artista aveva commesso un grave errore, ossia capovolgere il tema passando dal divino all’umano. Tuttavia, nonostante le contestazioni iniziali, l’opera godette ben presto di una meritata approvazione. Immensa, dunque, è l’ ammirazione che si nutre osservando il coraggio di Renato Guttuso che con sapienza, audacia e profondità d’animo decise di mettere al bando quella violenza e quelle atrocità che tutt’oggi ricordiamo con forte turbamento. Immagini tratte da: www.news-art.it Wikipedia, pubblico dominio, voce: Francis Bacon www.artemagazine.it 05/12/2018 - 05/05/2019 Al Museo Ebraico di Roma e al Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco la mostra sull’archeologo e mercante d’arte Ludwig Pollak (Praga 1868 – Auschwitz 1943). Le opere in mostra ripercorrono la storia professionale e personale del grande collezionista: dalle sue origini nel ghetto di Praga, agli anni d'oro del collezionismo internazionale, alla tragica fine nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Mostra dedicata alla vita e all’attività scientifica dell’archeologo Ludwig Pollak in occasione dei 150 anni dalla nascita e a 80 anni dalla promulgazione delle Leggi razziali in Italia. Archeologo, grande connoisseur, tra i più importanti mercanti d'arte dell'epoca, Ludwig Pollak è ricordato anche per importanti scoperte, tra cui il ritrovamento del braccio originale del Laocoonte e dell'Atena di Mirone. La sua appartenenza al mondo culturale e religioso ebraico ha inoltre favorito i suoi legami di amicizia e collaborazione con eminenti personalità della cultura viennese di fine secolo, in particolare con Sigmund Freud. Purtroppo l’origine ebraica ha anche comportato il tragico epilogo della sua vita ad Auschwitz, dove è stato deportato con la moglie e due figli nel 1943. Le oltre cento opere in mostra (dipinti, sculture antiche, vasi greci, acquerelli, libri rari e fotografie d'epoca, inediti documenti d’archivio) nella sede del Museo Barracco e nella sede del Museo Ebraico di Roma ripercorrono le tante storie che accompagnarono la vita del grande collezionista. Orario Dal 5 dicembre 2018 al 5 maggio 2019 Da martedì a domenica ore 10.00 - 16.00 (ingresso consentito fino alle 15.30) |
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Gennaio 2022
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