Un teatro senza attori
Erone di Alessandria lo abbiamo già incontrato con la sua macchina a vapore, ma non è l’unica invenzione per la quale viene ricordato. Sicuramente meno nota ma altrettanto incredibile è una macchina che permetteva di mettere in scena un intero spettacolo teatrale automatizzato della durata di circa venti minuti: attori, fondali, effetti speciali e suoni erano azionati direttamente dal meccanismo con una sequenza prestabilita.
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La Camera degli Sposi, chiamata anticamente Camera picta (“camera dipinta”), è una stanza collocata nel torrione nord-est del Castello di San Giorgio di Mantova. È celebre per il ciclo di affreschi di Andrea Mantegna (pittore di corte), che ricopre le sue pareti, realizzato tra il 1465 e il 1474. Il pittore studiò una decorazione che fosse presente su tutte le pareti e sulle volte del soffitto, creando l’illusione di forare le pareti con la pittura, come se lo spazio fosse dilatato ben oltre i limiti fisici della stanza. Il tema generale è una celebrazione dell’intera famiglia Gonzaga, con l’occasione dell’elezione a cardinale di Francesco Gonzaga.
La sala aveva originariamente una duplice funzione: quella di sala delle udienze e quella di camera da letto di rappresentanza, dove Ludovico si riuniva coi familiari. Ci sono varie interpretazioni circa la commissione dell’opera. L’interpretazione tradizionale vede gli affreschi come collegati all’elezione a cardinale del figlio del marchese Ludovico, Francesco Gonzaga, avvenuta il primo gennaio 1462. Quindi, la scena della Corte rappresenterebbe il marchese che ne riceve la notizia e quella dell’Incontro mostrerebbe Ludovico Gonzaga in vesti ufficiali al cospetto del figlio Francesco appena nominato cardinale. La figura matura di Francesco, tuttavia, non è coerente con la sua età nel 1461, di circa 17 anni, testimoniata invece da un suo presunto ritratto conservato oggi a Napoli. Si è pensato quindi che gli affreschi celebrino la venuta di Sua Eminenza a Mantova nell’agosto 1472, quando si apprestò a ricevere il titolo di Sant’Andrea.
Nella stanza pressoché cubica, Mantegna studiò una decorazione che investiva tutte le pareti e le volte del soffitto, adeguandosi ai limiti architettonici dell’ambiente, ma al tempo stesso buttando giù le pareti con l’illusione della pittura, come se ci si trovasse al centro di un padiglione aperto verso l’esterno.
La volta affrescata presenta centralmente un oculo, aperto verso il cielo, che doveva ricordare il celebre oculo del Pantheon. Al suo interno, si vede una balaustra dalla quale si sporgono una dama di corte, accompagnata dalla serva di colore, un gruppo di domestiche, una dozzina di putti, un pavone (riferimento agli animali esotici presenti a corte, piuttosto che simbolo cristologico) e un vaso, sullo sfondo di un cielo azzurro. Per rafforzare l’impressione dell’oculo aperto, Mantegna dipinse alcuni putti in bilico aggrappati al lato interno della cornice; uno è anche raffigurato mentre è intento a orinare. La varietà delle pose è estremamente ricca, improntata a una totale libertà di movimento dei corpi nello spazio: alcuni putti infilano il capo negli anelli della balaustra, oppure sono visibili solo da una manina che spunta. Ci sono anche delle fanciulle colte in atteggiamenti diversi (una addirittura ha in mano un pettine) e le loro espressioni giocose sembrano suggerire la preparazione di uno scherzo. Il pesante vaso di agrumi è infatti appoggiato a un bastone e le ragazze attorno sembrano in procinto di farlo cadere. Nella nuvola vicino al vaso si trova nascosto un profilo umano, probabile autoritratto dell’artista abilmente mascherato.
L’oculo è racchiuso da una ghirlanda circolare, a sua volta compresa in un quadrato di finti costoloni. Attorno al quadrato sono disposte otto losanghe con sfondo dorato, ciascuna contenente una ghirlanda circolare che racchiude un ritratto di uno dei primi otto imperatori romani, sorretto da un putto e circondato da nastri. I cesari sono ritratti in senso antiorario con il nome dentro il medaglione. Attorno alle losanghe sono collocate dodici pennacchi decorati con finti bassorilievi, di ispirazione mitologica, che celebrano simbolicamente le virtù del marchese, quali il coraggio (mito di Orfeo), l’intelligenza (mito di Arione di Metimna), la forza (mito delle dodici fatiche di Ercole).
La Camera degli Sposi è un chiaro esempio della tendenza, da parte degli artisti del tardo Quattrocento, a realizzare effetti di illusionismo pittorico. Per ampliare percettivamente il piccolo ambiente, Mantegna dipinge architetture che simulano perfettamente l’ambiente reale, attraverso una raffinata finzione scenica.
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"I soggetti che preferisco trattano la vita quotidiana degli americani più svantaggiati o delle classi medie. La vera realtà della loro vita è colta in questa rassegnazione, in questo vuoto, questa solitudine. Di fatto, benché realista, la forma umana non mi interessa, ma piuttosto il volto che ha sofferto come un paesaggio da cui traspare l'erosione del tempo"
(Duane Hanson)
Una donna carica di buste della spesa è ferma, in piedi. Forse sta aspettando il pullman che la riporterà a casa o il verde del semaforo per attraversare la strada. La sua figura è pingue, le borse che tiene fra le braccia sono piene e mostrano i brand dei negozi dove sono state acquistate. Se la Pop Art aveva celebrato il consumismo sfrenato della vita americana, la riflessione di Hanson ne sgretola l'ipocrita façade per restituirci nella sua deplorevole nudità il volto di quell'America bulimica, alienata e schizofrenica che vagola confusa e disorientata ai margini della Factory. La Campbell's soup, la Coca-Cola, le Brillo boxes e le altre icone pop di Warhol (e accoliti) gonfiano gli shopper (e le pance) di questi derelitti, “esclusi, esseri psicologicamente handicappati […] che conducono un’esistenza di calma disperazione”, sul cui vuoto, sulla cui solitudine, sulla cui frustrazione e angoscia Hanson conduce spietatamente la sua lucida analisi. L'artista statunitense, originario del Minnesota, trasforma i suoi soggetti in sculture, li presenta isolati, come se fossero stati sottratti per un istante alla frenesia della folla che li circonda, per strada o al supermercato. Attraverso questo isolamento (non dissimile a quello delle cavie in laboratorio) cerca di far emergere la “vera realtà della loro vita”, di cogliere nei loro volti sovrappensiero la solitudine, la rassegnazione, la stanchezza. Realizza delle istantanee senza tuttavia far ricorso alla fotografia, troppo fissa, rigida e fredda per poter fare da modello. “Faccio fare un calco direttamente sul corpo del soggetto, lo colo in fibra di vetro e resina, poi lo rielaboro e metto insieme”. L'illusione di realtà è resa ancor più verosimile dal fatto che quei calchi son agghindati con veri vestiti. La donna ha veri occhiali sul naso, la borsa è una borsa di pelle e le buste dei negozi sono effettivamente buste di plastica e di carta. Tutto collabora all'effetto di mimesis, a mostrarla come una persona in carne e ossa. Il visitatore può avvicinarla fisicamente trovandosi essa, come tutte le creazioni di Hansen, al centro dello spazio espositivo, senza nessunissimo filtro o schermo a definirne la natura d'oggetto d'arte. Potrebbe essere vera (“Vorrei che respirassero”, è ciò che si vocifera abbia detto l'artista avvicinandosi a una delle sue sculture in resina sintetica, peraltro facendo eco al michelangiolesco “Perché non parli?”). Vera, più vera del vero.
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Quando il cardinale Odoardo Farnese decise di completare la decorazione del palazzo di famiglia, gli fu proposto il nome di un affermato pittore bolognese, che aveva fondato, insieme al fratello e al cugino, un’accademia incentrata sullo studio della natura, dell’antichità classica e dell’opera di Raffaello e Michelangelo, in aperto contrasto con gli artifici del Manierismo: Annibale Carracci. Dopo una breve visita a Roma nell’autunno del 1594, vi si trasferì definitivamente dall’anno successivo, ospite nel palazzo, ove ebbe modo di ammirare la prestigiosa collezione di arte antica dei Farnese, che vantava, tra gli altri capolavori, una monumentale copia romana in marmo dell’Ercole a riposo, attribuito allo scultore greco Lisippo.
Anche a questa scultura guardò Annibale per gli affreschi del piccolo studio privato del cardinale, denominato Camerino di Ercole, in quanto decorato con episodi tratti dalle storie dell’eroe greco per eccellenza. Al centro della volta del camerino, incastonata tra girali di finti stucchi monocromi, preziosi e quasi “cesellati” con il pennello, troneggiava la tela raffigurante Ercole al bivio, oggi sostituita da una copia, mentre l’originale si trova al Museo di Capodimonte a Napoli.
Situato in corrispondenza dell’asse centrale della composizione, Ercole siede in una posa piuttosto libera, memore degli Ignudi michelangioleschi della Sistina, poggiando sulla clava. Alla sua destra, una matronale figura femminile gli sta indicando, con il braccio teso verso l’alto, le eterne glorie celesti che lo attendono se sceglierà di seguire la giusta via della Virtù, anche se in apparenza erta ed impervia. A sinistra, vista da tergo, l’allegoria del Vizio lo induce a scegliere allettanti piaceri, tuttavia “bassi” ed effimeri. Il contenuto moraleggiante dell’opera ben si confaceva alle ambizioni del giovane cardinale, che incaricò Annibale di un progetto assai più grandioso e impegnativo: la decorazione della Galleria Farnese.
Il programma iconografico fu probabilmente ispirato dall’imminente matrimonio tra Ranuccio Farnese, fratello di Odoardo, e Margherita Aldobrandini, nipote di papa Clemente VIII, che celebrò le nozze nel 1600. La volta a botte della galleria è infatti risolta come una sorta di epitalamio figurato, ossia un’ode celebrativa degli sposi, ispirata dagli Amori degli dei, descritti nelle Metamorfosi di Ovidio. Oltre il cornicione reale della sala, travalicandone i limiti fisici, svetta un’illusionistica architettura dipinta (detta quadratura), terminante ai lati corti in una balaustra, che si affaccia sullo scorcio di un brillante cielo sereno. Coppie di putti e ignudi abitano anche i lati lunghi, ritmicamente scanditi da erme e telamoni, simulanti la loro antichità con scheggiature e lacune, così come i bassorilievi dei medaglioni bronzei, dipinti con tonalità verdastre, appaiono ossidati dal tempo. Qui, tra festoni di fiori e frutti, maschere e valve di conchiglia, le scene con gli Amori degli dei sono illustrate - non senza una certa sensualità - entro “quadri riportati”, che danno l’impressione di essere tele dipinte su cavalletto, quindi appese sul soffitto della galleria, con la loro cornice di legno dorato, oppure incorporate negli stucchi. Sulla volta vera e propria, spicca il grande affresco con il Trionfo di Bacco e Arianna, divenuta la sposa del dio del vino, dopo essere stata abbandonata da Teseo.
Annibale aveva presente i cortei bacchici dei rilievi classici e la resa illusionistica del soffitto della Loggia di Psiche, dipinta come un finto pergolato all’aperto da Raffaello e dalla sua bottega in Villa Farnesina, sulla sponda opposta del Tevere rispetto al palazzo, ma seppe infondere alla galleria un’esuberanza del tutto nuova, per cui è da considerare, secondo le felici parole dello storico dell’arte Tomaso Montanari, il “vero incunabolo del Barocco”.
Per una visita virtuale di Palazzo Farnese e della sua galleria: www.farnese-rome.it
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16/5/2017 Jack Vettriano: l’immagine di un’arte intrigante, sentimentale e “cinematografica”Read Now
Di origine italiana, ma di nazionalità scozzese, Jack Hoggan, in arte Jack Vettriano, è uno dei pittori viventi più interessanti e intriganti del panorama artistico del nostro secolo.
Nasce a Methil, una piccola cittadina industriale della Scozia, il 17 novembre del 1951, dove vive insieme alla sua umile famiglia. A soli 16 anni, a causa della difficile realtà economica familiare, lascia gli studi per dedicarsi al lavoro di minerario. Si avvicina all’affascinante mondo dell’arte solo a partire dagli anni Settanta quando, in occasione del suo ventunesimo compleanno, riceve in dono un set di acquerelli. Così comincia la carriera autodidatta di Jack Vettriano tanto criticata, quanto onorata. Di fatto, sarà profondamente lodato e ammirato dalla regina Elisabetta II d’Inghilterra tanto da inserire il suo nome all’interno dell’Ordine dell’Impero Britannico, accrescendone sia la fama, che la stima. Tale onorificenza, infatti, denota un dignitoso ordine cavalleresco istituito dal re Giorgio V nel 1917 che permise alla regina Elisabetta di esprimere la propria gratitudine nei confronti di coloro che, in diversi ambiti e discipline, conferirono e donano ancora oggi un notevole prestigio al Regno Unito. Dopo una quindicina di anni, nel 1988, espone le sue prime opere al pubblico della Royal Scottish Academy. Il successo è immediato; tutte le tele vengono acquistate in meno di 24 ore e consistente diventa il numero delle offerte avanzate da svariate gallerie artistiche.
Ma cos’è che fa di Jack Vettriano un personaggio tanto chiacchierato e giudicato, quanto apprezzato e quotato?
Indubbiamente, le situazioni e i soggetti prediletti dall’artista destano fascino e critica. Fantasie proibite, giochi erotici, trasgressione, nudità, fumo e intensi sentimenti passionali non possono che sconvolgere il pubblico perbenista e benpensante. È il caso di opere come Private Dancer (2006) e Fetish (2016) in cui, all’interno di una stanza dalla luce soffusa, un uomo cede alla lussuria e alla dipendenza dal fumo dinanzi al corpo seducente di donne in biancheria intima.
Tuttavia, è l’artista stesso a fungere da protagonista e così facendo apre volutamente una finestra sul suo mondo più intimo e peccaminoso. Così, senza censura e senza esitazione, Jack Vettriano si mette a nudo e mostra personali passioni e ossessioni. Ma ciò che intriga e ammalia lo spettatore è quel senso di attimo sospeso e di istante destinato a durare in eterno che prelude un momento di travolgente passione. È lo stesso pittore ad affermare: “Nei miei dipinti voglio fermare quel momento in cui tutto sta per accadere”.
Il tema dominante, dunque, è l’amore carnale e sentimentale mostrato così nelle sue più svariate sfaccettature. Tele a tema romantico, infatti, si alternano a quadri che mettono in scena uno sfrenato erotismo. Opere dal carattere più sognante e sentimentale sono Betrayal-First kiss (2001) e Lazy hazy days.
La ricerca del piacere e del bello vanno così di pari passo con il clima di ottimismo permeato dai film americani degli anni Cinquanta. Di fatto, oltre a un’evidente influenza suscitata dalle opere di Hopper, notevoli sono i richiami a pellicole cinematografiche, basti ammirare la tela intitolata Dance me to the end of love (1998) che riprende il titolo della colonna sonora ideata da Leonard Cohen per il film “Strange days” (1995) in cui due innamorati sono raffigurati nell’atto di danzare.
Dunque, ci troviamo di fronte ad un’arte estremamente coinvolgente, in cui Jack Vettriano invita sapientemente lo spettatore ad attivare il processo immaginativo e a lasciare spazio all’immedesimazione al fine scoprire se stessi e gli angoli più remoti della mente umana.
Sito ufficiale dell’artista: www.jackvettriano.com
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- blog.libero.it - scotlandnow.dailyrecord.co.uk - jackvettriano.com
Il Pantheon (tutti gli dei) è uno dei templi più conosciuti al mondo. La prima costruzione, di forma rettangolare, risale ad Agrippa e si data tra il 27 e il 25 a.C.
La seconda fase risale all’epoca di Domiziano, il quale restaurò l’edificio in seguito all’incendio di Roma dell’80 a.C. La terza fase è quella di Adriano che trasformò l’edificio di Agrippa tra il 118 e il 125 d.C. Sulla facciata dell’attuale tempio, Adriano fece scrivere M•AGRIPPA•L•F•COS•TERTIVM•FECIT “Marco Agrippa, figlio di Lucio, lo costruì nell’anno del suo terzo consolato”.
La facciata presenta otto colonne monolitiche alte 14m; dietro la prima, la terza, la sesta e l’ottava vi sono altre due colonne (quindi 16 in totale) che dividono il pronao in tre navate. Di queste, la centrale è quella più ampia e porta all’ingresso, le laterali sono più strette e si concludono con due nicchie che dovevano contenere statue. Il frontone era decorato con un' aquila con corona.
Dietro il pronao vi è una costruzione laterizia che lo collega alla rotonda e qui vi sono due scale, oggi ne è rimasta solo una, che servivano per accedere alle parti alte, probabilmente per lavori di manutenzione o altro.
La rotonda è così ottenuta: un tamburo cilindrico sormontato da una cupola. Internamente le pareti sono divise da due cornici, mentre all’esterno ne appaiono tre: la più alta delle zone esterne corrisponde alla parte inferiore della cupola. Tale scelta dipendeva da necessità strutturali, perché l’equilibrio della cupola richiedeva un carico pesante sui fianchi.
Realizzare una cupola non era assolutamente una cosa semplice, soprattutto per l’equilibrio e il suo mantenimento. I fattori che determinarono il successo dell’impresa sono quattro: - L’uso dell’opus cementicium (non è un cemento né un calcestruzzo nel senso moderno del termine) era composto da elementi lapidei (caementa) legati da un impasto di qualità tale che lo si poteva utilizzare non solo come materiale di riempimento, ma anche come materiale edilizio autonomo molto restitente. - Le fondamenta molto solide; - La gradazione dei caementa del tamburo e della cupola a seconda del peso e della resistenza alla compressione: i materiali variano man mano che si raggiunge la cupola. Quelli più pesanti in basso e quelli più leggeri in alto per alleggerire il carico; - Le numerose cavità e archi di scarico all’interno non avevano un valore decorativo, ma servivano per alleggerire il peso morto della muratura;
La cupola è decorata con cinque ordini di cassettoni concentrici che vanno restringendosi fino all’apertura centrale. L’interno è scandito da proporzioni: la distanza dal pavimento al sommo della cupola è identico al diametro, dunque l’interno corrisponde ad una sfera perfetta.
Il Pantheon è uno dei maggiori esempi dell’elevato grado a cui era giunta l’architettura romana ed è uno degli edifici meglio conservati, perché venne donato dall’imperatore bizantino Foca al papa Bonifacio IV che lo trasformò nella chiesa di Santa Maria ad martyres nel 609 a.C.
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Like per i gladiatori
Il pollice verso (cioè girato) fa parte del nostra cultura: ancor prima di essere un mezzo per indicare il nostro gradimento su facebook, era impiegato nell’antica Roma. Siamo abituati a vedere, in film e telefilm ambientati in quel periodo, gli spettatori che inneggiano alla vita o alla morte dei gladiatori semplicemente con un movimento della mano. E se vi dicessi che il movimento tanto noto non è corretto? Il pollice indicava la spada: con ogni probabilità se era rivolto verso l’alto con le restanti dita aperte ad indicare il terreno il pubblico incitava alla morte (spada sguainata); viceversa, se il pollice era chiuso nel pugno, la spada era rimessa nel fodero, e gli spettatori chiedevano salva la vita dell’atleta. L’errore è frutto del celeberrimo dipinto di Jean-Léon Gérôme Pollice verso, del 1872.
Motore a vapore ante litteram
Il motore a vapore è opinione comune che sia un’invenzione inglese del XVIII secolo. Ma anche stavolta gli scienziati moderni sono arrivati secondi: il primo modello fu ideato e realizzato da Erone di Alessandria nel I secolo d.C. Si trattava di una sfera (eolipila) che ruotava grazie all’evaporazione dell’acqua contenuta al suo interno. Erone fu quindi il primo a ricavare energia meccanica imbrigliando la forza del vapore. Per saperne di più: Il motore a vapore del I secolo d.C.
Cristoforo Colombo…arrivò terzo
Il primo europeo ad avvistare la costa del Nord America fu l’islandese Bjarni Herjólfsson nel 986 d.C., spinto fuori rotta mentre cercava di raggiungere la Groenlandia. Sarà però Leif Erikson, il figlio di Erik il Rosso, a mettere per primo piede in quelle terre quando, nel 1000 d.C. circa, sbarcò sulle coste dell’odierno Canada (forse nella zona di Terranova) e vi fondò un piccolo insediamento.
Una Sfinge senza naso
Un falso mito molto diffuso riguarda la Sfinge: secondo tale storia i soldati di Napoleone avrebbero distrutto il volto della colossale scultura usandola come bersaglio per i cannoni. Niente di più falso. Napoleone giunse in Egitto nel 1798 ma la Sfinge appare sfigurata già nei disegni realizzati nel 1737 da Frederick Lewis Norden. Il volto (raffigurante il faraone Chefren o, seconde altre teorie, Cheope) fu infatti danneggiato nel 1378 per volere del sufi Muḥammad Ṣāʾim al-Dahr, in quanto oggetto di venerazione da parte dei contadini locali.
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Pollice verso, da Wikipedia Italia, Di Jean-Léon Gérôme - phxart.org : Gallery, Pic, Pubblico dominio, voce “Jean-Léon Gérôme” Nave vichinga, da Pinterest Eolipila, da Wikipedia Italia, Di Katie Crisalli - The photograph comes from an article at the AFRL Propulsion Directorate website., Pubblico dominio, voce "Eolipila" Sfinge, da Wikipedia Italia, Di Hedwig Storch - Opera propria, CC BY-SA 3.0, voce “Grande Sfinge di Giza” Karen Knorr, fotografa di origini tedesche, ha vissuto in Inghilterra fin dagli anni '70 ed è lì che è iniziato il dialogo critico e giocoso con la fotografia. Karen Knorr parte dall'indagine sui valori patriarcali delle upper classes inglesi fino ad affrontare il ruolo degli animali e la loro rappresentazione nell'arte. Knorr utilizza la fotografia per esplorare le tradizioni culturali, dai club dei gentiluomini di Saint James ai lussureggianti interni dei palazzi indiani. Le sue fotografie soddisfano molti dei requisiti della fotografia tradizionale che affronta l'aspetto superficiale di una specie o di un luogo, ma poi si spostano in uno spazio paradossale dove cominciano a mettere in discussione il contenuto dell'immagine. Attualmente i suoi lavori fotografici sono in mostra alla Danziger Gallery di New York fino al 25 maggio. Questa è la sua terza mostra personale, nella quale viene presentata una selezione degli scenari animali scattati in Europa e in India tra il 2003 e il 2016 in vari musei europei, case naturali, palazzi e templi indiani. Il lavoro dell’artista esplora la dicotomia tra natura e cultura, suggerendo una nuova concezione di immaginare gli animali nel XXI secolo. Knorr combina tecnologie e generi, mescolando fotografia digitale e analogica, architettonica e naturale. Lavorando in un formato prevalentemente digitale, le immagini degli interni si combinano con gli animali, fotografati separatamente e poi inseriti nell'ambiente scelto dall'artista. I confini del reale sono quindi sfidati sia da questo processo sia dall'incongruenza delle scene. É proprio questa ambiguità che dà alle sue immagini la loro forza. Le fotografie si propongono di raccontare storie che ci parlano della vanità delle cose terrene, della vacuità delle ricchezze degli uomini, a confronto con la grande forza della natura. Le storie si trasformano in vere e proprie fiabe che oscillano tra spontaneità e messa in scena, realtà e artifici. Nell’immaginario comune, lo scopo delle favole è quello di mettere in luce una morale, attirando l'attenzione sul comportamento animale e sul suo rapporto con gli uomini. Tuttavia, nell'universo di Knorr, gli animali non sono vestiti per assomigliare agli esseri umani né illustrano alcuna morale esplicita. Liberati dai vincoli narrativi, vagano liberamente in luoghi tutt’altro che animali, attirando l'attenzione sul divario tra natura e cultura. Vengono immortalati nei corridoi dei musei e dei palazzi, mostrando la differenza che c’è tra i due mondi: la natura spontanea da un lato e i luoghi di cultura dall’altra, che consentono l'ingresso della natura solo in forma di rappresentazione. Website: http://www.danzigergallery.com Immagini tratte da : www.departures.com http://www.danzigergallery.com 2/5/2017 PILLOLE DI ARTE CONTEMPORANEA Gino de Dominicis, “Mozzarella in Carrozza”e “Lo Zodiaco” (1970)Read Now
“Il termine arte concettuale, origine americana, in Italia è molto piaciuto, forse perché ricorda nomi di persona molto diffusi come Concetta, Concezione, Concettina etc; e viene di continuo usato stupidamente per etichettare tutto ciò che in arte non è immediatamente riconoscibile”
(G. de Dominicis, in Quadri & Sculture, anno VI, numero 33)
“L'epiteto romantico”, scrive il Praz in La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, “è un'approssimazione da lungo tempo entrata nell'uso […]. Come un'infinità d'altre parole d'uso corrente, quelle approssimazioni hanno un valore e rispondono a una funzione utile, purché si trattino per quello che sono, cioè come approssimazioni, e non si pretenda da esse quel che non possono dare, cioè esattezza di stringente pensiero”. Limitatamente al linguaggio della critica d'arte e seguendo il solco già tracciato dalle considerazioni del Praz, è possibile, a mio avviso, considerare il termine concettuale come un'utile approssimazione, una categoria empirica che, seppur imprecisa, inesatta, se “la si mette alla porta esorcizzandola con logica che non erra, essa rientra cheta cheta dalla finestra, ed è sempre lì tra i piedi, elusiva, assillante, indispensabile”. Irrinunciabile seppur tremendamente irritante. Il proverbiale male necessario, insomma. Un passepartout critico “usato stupidamente per etichettare tutto ciò che in arte non è immediatamente riconoscibile o catalogabile”. Ma se l'etichetta di concettuale aderisce perfettamente a molti degli epigoni di Duchamp, per quanto riguarda la galassia artistica di de Dominicis, così straordinariamente indefinibile, sfuggente ed elusiva, ogni tentativo di classificazione, di inquadramento e di sistemazione teorica risulterebbe totalmente vano e criticamente inappropriato.
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Lavori come Mozzarella in carrozza, presentata alla storica galleria L'Attico nella collettiva del 7 Febbraio del 1970, sebbene da taluni considerata un'opera concettuale, di fatto ne formalizza l'esatto contrario. Le parole infatti vengono materializzate, visualizzate. È inoltre la dimostrazione, ironizzando sui meccanismi di decontestualizzazione e defunzionalizzazione interni all'arte di un genio come Duchamp, che la mozzarella rimane tale pur se poggiata sui sedili in pelle d'un cocchio principesco. Il meccanismo preconcetto secondo il quale l'insignificante object trouvé duchampiano assumerebbe i tratti dell'opera d'arte soltanto perché esposto in un museo e che quindi un tasso di artisticità si trasmetterebbe metonimicamente dal contenitore al contenuto viene così miseramente decostruito.
In principio era l'immagine, capolavoro pittorico oggi esposto al MoMA di New York, viene accostato a un water in una delle collettive degli anni '80 organizzata negli spazi espositivi della galleria di proprietà di Gian Enzo Sperone a Roma. Il water resterà tale e non subirà alcuna miracolosa trasformazione per la sua prossimità al quadro esposto.
Alla sua seconda personale a L'Attico nell'aprile del 1970 de Dominicis presenta per cinque giorni Lo Zodiaco. L'opera è pensata dall'artista come una sorta di tableau vivant. I segni zodiacali, rappresentati tutti da esseri umani o animali vivi ad eccezione dei Pesci, sono disposti a semicerchio e presentati al pubblico, immobili, per i cinque giorni della mostra. Le dodici figure dell'oroscopo dismettono così la loro piatta bidimensionalità da almanacco illustrato per acquisire rilievo, spessore, plasticità. Ogni significato simbolico viene deliberatamente annullato a favore d'una esatta corrispondenza tra parola ed immagine. Si celebra così il trionfo dell'oggetto e la morte del concetto.
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Sul finire del Cinquecento, Michelangelo Merisi da Caravaggio (per un'accurata trattazione della poetica del pittore rimandiamo all’articolo Caravaggio: una realtà priva di illusioni di Ilaria Ceragioli) si sta affermando nell’ambito del collezionismo privato romano, sotto l’egida dei suoi devoti mecenati, tra i quali spicca il cardinale Francesco Maria Del Monte. Zingare, malfattori, e musici si alternano, nelle sue opere, a soggetti di rango più elevato, tratti dalla storia sacra. Non vi è stato ancora un vero e proprio esordio sulla scena pubblica, che non tarderà ad arrivare. Nel 1599, grazie all’intercessione di Del Monte, Caravaggio ottiene una commissione fondamentale, destinata a consacrarlo come “egregius in urbe pictor”: l’esecuzione di due tele per le pareti laterali della cappella Contarelli, nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma. Il cardinale Mathieu Cointrel (italianizzato in Matteo Contarelli) aveva acquistato la cappella molti anni prima, con l’intento di dedicarla al suo santo omonimo, attraverso un ciclo decorativo degno dell’evangelista. Caravaggio si attiene al programma iconografico prestabilito dal Contarelli nel suo testamento, iniziando a dipingere il Martirio di San Matteo, per poi passare, in corso d’opera, alla Vocazione.
L’episodio sacro si svolge all’interno di una disadorna taverna. Intorno al tavolo siedono avidi personaggi in costume secentesco, intenti a contare denaro. Nella scura parete di fondo si apre una finestra, dalla quale, tuttavia, non filtra il fascio di luce calda che irrompe diagonalmente nella stanza: esso proviene dall’angolo in alto a destra della tela, al di sopra di Cristo e San Pietro – gli unici panneggiati all’antica - , accompagnando il braccio disteso del Redentore nell’atto di chiamare a sé Matteo Levi, esattore e usuraio di Cafarnao, per farne un apostolo. Quest’ultimo, illuminato dalla luce divina, risponde con un gesto sospeso tra la sorpresa e la perplessità, nella quasi totale indifferenza generale.
Il Martirio è di nuovo risolto come una scena contemporanea, concitata ed estremamente drammatica, alla quale partecipa lo stesso Caravaggio, che si autoritrae sul fondo a sinistra nell’uomo barbuto e sgomento, tra le urla mute degli astanti. Il successo ottenuto con i due laterali è così grande che al pittore viene chiesto di dipingere anche la pala d’altare della cappella, che deve raffigurare San Matteo e l’angelo.
Allo scoprimento della tela, un coro di critiche si abbatte su Caravaggio. Dalle sembianze di un popolano, più che di un evangelista, Matteo poggia il libro sulle gambe accavallate, mostrando allo spettatore i piedi nudi e sporchi. La sua fronte corrugata tradisce un certo disagio nello scrivere, tanto che l’angelo, con la pazienza di un maestro, gli guida letteralmente la mano. Dopo il netto rifiuto dei committenti, Caravaggio realizza una seconda e definitiva versione dell’opera, questa volta rispettosa del decoro che si addice a un santo.
L’impeto dell’ispirazione divina è reso dallo sgabello in precario equilibrio sul piano d’appoggio, che dà vita a uno straordinario saggio dell’illusionismo caravaggesco. San Matteo si volge in torsione verso l’angelo che sta dettando, enumerandola con le dita, la genealogia di Cristo, con la quale ha inizio il suo Vangelo. Lo stile di Caravaggio si fa in questo momento maggiormente aulico, aprendogli la via per le commissioni successive, ma senza impedirgli di mostrare formidabili brani del suo spiccato realismo, anche all’interno di una chiesa.
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Gennaio 2022
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