di Olga Caetani È lo stesso Lorenzo Mattotti, classe 1954, illustratore e sceneggiatore, ma anche fumettista e pittore di fama internazionale, a definire, con le parole del titolo dell’iconico album dei Pink Floyd, l’aspetto più intimo e oscuro della sua personalità di artista, sul quale punta i riflettori l’esposizione attualmente in corso a Palazzo Blu. Il curatore della mostra, Giorgio Bacci, ha attinto dal vastissimo repertorio dei lavori di Mattotti, caratterizzato, oltre che dalle illustrazioni dei più grandi capolavori letterari, anche da manifesti, campagne pubblicitarie e copertine di periodici del calibro di Le Monde o The New Yorker. Una selezione di opere realizzate secondo vari mezzi espressivi, dal fumetto all’illustrazione quasi pittorica, e unite, tuttavia, dal denominatore comune del noir, dell’atmosfera gotica e suggestionante. Complici, naturalmente, i soggetti illustrati da Mattotti, quali Jekyll & Hyde, Hänsel & Gretel, The Raven e l’Inferno dantesco. Essi, con estrema malleabilità, si piegano a una drammatica chiave interpretativa e fanno loro da fil ruoge i temi del doppio, della metamorfosi, della paura, del viaggio, alla (ri)scoperta di se stessi. La prima sala della mostra si apre con la libera trasposizione del testo originale, in collaborazione con Jerry Kramsky, de Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde di Stevenson. Jekyll & Hyde Il contrasto con l’iconografica tradizionale del romanzo vittoriano è evidente: la grigia e fumosa periferia londinese cede il posto a un’ambientazione innovativa, capace di mutare l’immaginario collettivo, immergendo il lettore in una ruggente Repubblica di Weimar, dai coloratissimi toni del rosso, del blu e del giallo acido. Mentre le gradazioni cromatiche variano con il progredire della trama e della penetrazione psicologica del personaggio di Jekyll-Hyde, le immagini assumono le linee marcatamente espressive del filone della Nuova Oggettività tedesca, coevo alla “scenografia”, con particolare attenzione a Otto Dix e al suo Trittico della metropoli (1927-28), a George Grosz, Max Beckmann, giungendo agli “effetti mossi” e deformanti di Francis Bacon nel secondo dopoguerra. L’enorme bagaglio culturale di Mattotti dovette fare i conti con la propria creatività e inventiva, quando, nel 1999, la galleria milanese Nuages gli commissionò l’illustrazione dell’Inferno di Dante. “Sono piombato tra la paura e l’eccitazione”, confessa l’artista, che in quell’occasione rischiò di imbattersi in una sorta di blocco creativo, dinanzi all’ingombrante presenza di Gustave Doré nella sua mente. Soltanto un processo di “demitizzazione” delle potenti e simboliche immagini di quello “straordinario sceneggiatore che è Dante”, alternate con un ritmo incredibile e incalzante di passaggi di stati d’animo e situazioni tra le più disparate, ha consentito a Mattotti di guardare nella sua infanzia per ritrovare tutto il piacere derivante dalla lettura della Divina Commedia. Sono nati così i mostri, i diavoli e le apparizioni celesti. Non mancano elementi maggiormente aulici e pittorici, come nel caso della bellissima tavola dedicata ai protagonisti del Canto V, Paolo e Francesca. L’inquietudine, il mistero, la morte sono di nuovo protagonisti nella libera e mostruosa interpretazione del concept album The Raven (Il Corvo) di Lou Reed, il grande precursore del genere Punk, a sua volta ispirato dall’omonima poesia di Edgar Allan Poe, traducendo la musica graffiante e introspettiva in figure spesso raccapriccianti, isolate, come in un incubo, all’interno di paesaggi deserti e sovrannaturali. L’uso magistrale che Mattotti fa della tecnica del pastello e della matita su carta, è sostituito, nella Sala della Biblioteca, al piano terra, dalla dimostrazione della sua piena padronanza dell’inchiostro di china, scelto per la raffigurazione delle grandi tavole dedicate alla fiaba di Hänsel & Gretel dei fratelli Grimm. Le energiche e rapide pennellate scure trasformano la graphic novel e l’illustrazione nella visione di veri e propri dipinti, nei quali l’inestricabile foresta, resa attraverso una profondità prospettica tutta giocata sui contrasti tra luce e ombra, diviene la reale protagonista del racconto. Il “sincretismo degli stili e dei generi”, di cui parla Giorgio Bacci in apertura del catalogo della mostra, tanto caro alla poetica dell’artista, raggiunge qui uno dei suoi momenti culminanti. La mostra Lorenzo Mattotti. Immagini tra arte, letteratura e musica è visitabile fino al 7 ottobre 2018, dal lunedì al venerdì ore 10-19; sabato, domenica e festivi ore 10-20. Catalogo italiano/inglese pubblicato da Felici Editore www.istosedizioni.com Per ulteriori informazioni: www.palazzoblu.it/mostra/lorenzo-mattotti/ Sito ufficiale dell’artista: www.lorenzomattotti.blogspot.it Immagini tratte da: Immagini 1-4, 6-8 www.palazzoblu.it Immagine 5 www.frammentirivista.it/il-trittico-della-metropoli-di-otto-dix/ Galleria di foto di Giovanna Leonetti Potrebbero interessarti anche:
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di Antonio Monticolo Pochi giorni fa è stata effettuata una scoperta molto importante dal punto di vista papirologico e letterario. Valeria Piano, ricercatrice in filologia classica, ha rintracciato in un papiro latino, ritrovato a Ercolano e conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli, le Historiae ab initio bellorum civilium di Lucio Anneo Seneca detto il Vecchio o il Retore (Cordoba 54 a.C.- Roma 39 d.C.), padre del filosofo Lucio Anneo Seneca. Anche il titolo è stato individuato grazie a questa scoperta, infatti prima si riteneva che il titolo dell’opera fosse la Storia di Roma. Delle Historie erano rimasti soltanto due frammenti e notizie tramandate da altri scrittori che ci informavano di ciò che trattava l’opera e di come fosse strutturata. Seneca non la pubblicò durante la vita molto probabilmente perché le sue posizioni erano distanti da quelle ufficiali. Infatti, Seneca il Vecchio era un aristocratico fedele alla causa repubblicana, in aperto contrasto con il principato. L'opera narra la storia di Roma in modo molto particolare: Seneca il Vecchio aveva immaginato la storia dell'Urbe come una metafora biologica in cui le varie fasi della storia romana si intrecciavano con le fasi della vita. L’infanzia coincide con il regno di Romolo, l’adolescenza con la cacciata dei re, la giovinezza con le guerre puniche, la vecchiaia con l’epoca delle guerre civili. Come gli anziani hanno bisogno di un bastone per camminare così anche Roma aveva trovato nell’Impero il suo aiuto per andare avanti. Chiara dunque appare la sua posizione critica nei confronti del nuovo ordine politico: il principato. La filologa, individuando espressioni di tipo storico-narrativo, si è accorta di avere fra le mani un testo caratterizzato da una struttura narrativa di tipo storico e retorico. Questi elementi e la totale assenza di espressioni filosofiche hanno portato la ricercatrice ad attribuire all’opera di Seneca il Vecchio questo scritto. Tale scoperta è molto importante non solo perché getta nuova luce su un’opera di cui si avevano pochi elementi, ma anche perché dimostra ancora una volta come la famosa Villa dei Pisoni a Ercolano fosse custode di una quantità innumerevole di testi antichi di cui una buona parte è andata distrutta e l’altra carbonizzata. La speranza è che il lavoro minuzioso di filologi e di studiosi del mondo antico possa portare alla scoperta di altre opere di cui abbiamo solo qualche scarsa notizia. Immagini tratte da: artspecialday.com Comunicato stampa ![]() Apre al pubblico il prossimo 26 maggio presso la Galleria Civica Montevergini di Siracusa la mostra Archimede a Siracusa, ideata dal Museo Galileo e curata da Giovanni Di Pasquale con la consulenza scientifica di Giuseppe Voza e Cettina Pipitone Voza, promossa dal Comune di Siracusa e prodotta da Civita Mostre con Opera Laboratori Fiorentini e la collaborazione di UnitàC1 e dell’Istituto Nazionale Dramma Antico di Siracusa. L’esposizione offre ai visitatori l’occasione, unica, di conoscere da vicino una delle più geniali figure dell’intera storia dell’umanità e, grazie alle più avanzate applicazioni multimediali, di immergersi nella città di Siracusa nel terzo secolo avanti Cristo, vera e propria capitale della Magna Grecia e del Mediterraneo centrale, dove il grande scienziato è vissuto, ha concepito le sue straordinarie invenzioni ed è stato infine ucciso da un soldato romano appena entrato in città da conquistatore. Una serie di animazioni progettate da Lorenzo Lopane e realizzate con gli allievi dell’INDA rendono viva la presenza degli antichi siracusani e tra loro del grande scienziato. Basata sulle fonti storiche e archeologiche, una suggestiva narrazione disponibile in 4 lingue e affidata in italiano alla voce di Massimo Popolizio, consente di seguire gli eventi che portarono, sul finire della seconda guerra punica, allo scontro con Roma. Un articolato percorso di approfondimento interattivo presenta oltre venti modelli funzionanti di macchine e dispositivi che la tradizione attribuisce a Archimede. 26 maggio 2018 – 31 dicembre 2019
Siracusa – Galleria Civica Montevergini Info: Tel. 0931.24902 http://www.mostraarchimede.it/ di Marianna Carotenuto Avete letto bene, parliamo di Microsoft Excel, il programma utilizzato da milioni di persone per fare calcoli, tenere la contabilità, creare grafici e tabelle. L’utilità dei suoi fogli elettronici è nota a tutti, ma avete mai pensato a Excel come una tela su cui dipingere? C’è chi l’ha fatto ed è diventato un grande artista. Il suo nome è Tatsuo Horiuchi, pensionato giapponese che nel 2000, privo di qualsiasi competenza artistica e tecnica, decide di imparare a dipingere, ma senza comprare pennelli e tele. Horiuchi racconta «Non ho mai usato Excel al lavoro ma ho visto diverse persone utilizzarlo per creare bellissimi grafici e tabelle, e così ho pensato che potesse fare al caso mio». Inizia così il suo periodo di sperimentazione, durante il quale Horiuchi si è persino dilettato con Microsoft Word trovandolo tuttavia troppo restrittivo nel suo ridimensionamento della carta. Invece, Excel gli consente molta più libertà di espandere i suoi pezzi ed è molto più facile da utilizzare. Negli anni l'artista è diventato un vero esperto di Autoshapes, la funzionalità del foglio elettronico che permette di disegnare forme personalizzate, colorarle con infinite sfumature e sovrapporle su diversi livelli (in italiano è il menù Forme). Fin dall’inizio, con la scoperta delle funzioni artistiche del programma e con la sua capacità di utilizzare al meglio il software, Horiuchi ha vinto molte competizioni, aggiudicandosi, in particolare, il primo posto all’Autoshape Art Contest di Excel nel 2006. L’ormai 78enne giapponese, da 18 anni compone scene di vita rurale del suo Giappone, utilizzando semplici strumenti di disegno vettoriale e forme elementari, ma non è l’unico artista che utilizza Excel, gli “artisti del foglio di calcolo” sono davvero tanti. Una delle tecniche più utilizzate è una forma di pixel art: le celle di Excel vengono ridotte a quadratini di piccolissime dimensioni e poi colorate una ad una. Se avete voglia di cimentarvi in questa tecnica e raggiungere i livelli di Hourichi, questa guida vi spiegherà come fare. di Olga Caetani Anni Venti del secolo scorso. Dall'alto delle dolci acclività delle colline pisane, gli antichi poderi sorvegliano, al ritmo delle stagioni, i loro campi verdi, bruni e dorati dal sole. Tra loro, non lontano dal piccolo borgo medievale di Fauglia, presso la località di Poggio alla Farnia, vi è la villa di campagna nella quale il pittore fiorentino Giorgio Kienerk (1869-1948) trascorre le sospirate vacanze estive, dopo i lunghi e freddi inverni dell'insegnamento e dell'incarico, di tanto in tanto un po' tedioso, di Direttore della Civica Scuola di Pittura di Pavia. Qui può ritrovare la naturalezza e la gioia spontanea date dalla pittura giovanile en plein air, quando, al seguito del celebre maestro Telemaco Signorini, si avventurava tra i paesaggi toscani per riempire di schizzi e “macchie” infiniti taccuini. Ormai lontano dai fervori giovanili, con i quali si era imposto nel panorama artistico internazionale, tesi verso un costante e ansioso aggiornamento del proprio linguaggio stilistico, mediante ritratti e opere grafiche e scultoree dal gusto squisitamente liberty e simbolista, Kienerk vive momenti di rinnovato e spensierato slancio pittorico, circondato com'è dai calorosi affetti familiari. L'amata moglie Margherita Marcacci, di origini pisane, gli aveva portato in dote la villa, nel 1919, e l'anno successivo aveva dato alla luce la loro unica figlia, Vittoria. Come per un album fotografico, il padre segue puntualmente ogni fase della crescita della bambina, ritratta con luminose e materiche pennellate divisioniste e macchiaiole mentre sembra canticchiare tra sé il motivo di una filastrocca, mentre gioca a imitare la madre con un panno al lavatoio, oppure mentre è impegnata nella lettura dei primi libri. Dagli occhi blu quasi assenti in profil perdu, distratti o intenti in qualche altra attività infantile, con la pezzuola in testa o calzando un cappello di paglia, nel giro di un brevissimo scarto di tempo, dal 1934 al 1937, lo sguardo di Vittoria diventa quello magnetico e profondo di una donna di soli diciassette anni, che, tuttavia, nella compostezza e serietà richieste a tutte le fanciulle di famiglia borghese dell'epoca e sottolineate dall'acconciatura, ora raffinata e à la mode, comunica una maturità pienamente adulta, età quest’ultima raggiunta tutta d'un tratto, dinanzi all'implacabile premessa che portò di lì a poco al sopraggiungere del secondo conflitto mondiale. 2002. Vittoria Kienerk, divenuta docente di Storia dell’arte al liceo, porta sempre con sé il caro ricordo del padre pittore, seguito con curiosità e orgogliosa ammirazione nelle afose giornate d’agosto per le “viottole” polverose della campagna faugliese. Nei momenti in cui non era sottoposta alle lunghe e scomode sedute di posa, la bambina gioiva nell’osservare il “babbo” dipingere, conservando il ricordo dettagliato delle tecniche e della tavolozza, dei pennelli, dei tubetti di colore utilizzati. Molte delle opere del padre sono già esposte – o relegate nei depositi in attesa di una sistemazione migliore - in prestigiose sedi museali, come la Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, accanto a Fattori, Signorini, all’amico Plinio Nomellini. C’è, tuttavia, l’urgenza di rendere più degno omaggio alla memoria del pittore toscano, così intimamente legato alla terra nella quale aveva trascorso i momenti più limpidi e sereni della sua carriera. Vittoria decide così di effettuare una donazione in vita delle opere del padre in suo possesso all’Amministrazione Comunale di Fauglia, potendo porre il proprio veto sul destino della loro collocazione definitiva. L’Amministrazione si muove allora con estrema sollecitazione nel reperire fondi presso il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, da impiegare nella ristrutturazione dei locali delle ex-carceri ottocentesche, adiacenti al palazzo del Comune. Sei anni dopo, il Museo Giorgio Kienerk apre le sue porte al pubblico: il logo scelto per identificarlo è il monogramma della firma dell’artista, di sua stessa ideazione. Vittoria scompare nel 2013, dopo aver lasciato alla collettività la possibilità di fruire di un’eredità inestimabile. L’affascinate pastello, che magistralmente la restituiva in tutta la sua bellezza, è divenuto simbolo e cuore del percorso museale, conservato al fianco di un autoritratto in età avanzata del padre, che gli fa da pendant. Oggi. Dieci anni dopo l’inaugurazione del Museo, esso si presenta come una fucina inesauribile di iniziative e attività, volte all’arricchimento culturale della collettività. Laboratori didattici per le scuole e le famiglie, visite guidate, mostre temporanee, adesione alle varie iniziative ministeriali animano costantemente questa preziosa realtà per il territorio. In tempi recentissimi, non soltanto è stata portata a termine la lunga e attenta opera di catalogazione dell’intera collezione Kienerk, presso l’ICCD, l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, ma il Museo è anche entrato a far parte dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei (APM), traguardi che attualmente, nel nostro paese, sempre meno istituzioni culturali, spesso abbandonate a se stesse, sono in grado di raggiungere.
Immagini tratte da: www.comune.fauglia.pi.it www.facebook.com www.lakinzica.it www.tripadvisor.it www.libertaearte.com www.marte5.com Potrebbe interessarti anche: di Ilaria Ceragioli Donne seducenti e dall’aspetto classicheggiante, spesso distese su blocchi marmorei nell’atto di meditare o vagheggiare, sono le protagoniste indiscusse dell’intera produzione artistica di John William Godward. Il nome e l’attività artistica del pittore inglese, tuttavia, sono ancora poco noti, a causa della scarsità di documenti che possediamo a riguardo. A ogni modo, scopriamo insieme l’affascinante, ma malinconico mondo di questo artista. John William Godward si colloca tra i pittori che operarono durante il periodo preraffaellita/neoclassico, nonché a cavallo tra Ottocento e Novecento. Suo malgrado, dovette affrontare una vita colma di avversità; in primis una famiglia che sin da subito cercò di ostacolare la sua vocazione di diventare pittore e che tentò di far naufragare l’amore che nutrì per una modella italiana. Si trattò di una forte passione amorosa che lo portò addirittura a stabilirsi per ben 7 anni a Roma, città in cui non poté che acuire il suo già innato fascino per la classicità. Ardua, inoltre, fu anche la ricerca di affermazione e fama presso un pubblico che, ormai, sembrava essere conquistato soltanto dai movimenti d’Avanguardia. Nelle sue opere, John William Godward, unisce elementi propri dell’arte preraffaellita, come la vivacità coloristica e le pose studiate delle figure femminili, a elementi tradizionalmente classici, come la scelta di soggetti e di ambienti provenienti da un mondo pressoché idealizzato. Massima seduzione e femminilità caratterizzano la celebre opera Girl in yellow drapery, del 1901. Completamente adagiata su un grande blocco di marmo, la donna dalla veste gialla e trasparente è immersa nei suoi pensieri. Se ne intravedono i seni e le forme tanto da farla divenire una vera e propria incarnazione della bellezza ideale, nonché una Venere capace di ammaliare qualsiasi uomo la contempli. Donne bellissime colte in una simile posa si ritrovano spesso nelle tele di Godward, basti pensare a When the heart is young (1902) e a Sweet doing nothing, dove l’ozio, il dolce far niente accompagnano i giorni di queste fanciulle. Al Getty Museum di Los Angeles, invece, è possibile ammirare l’opera intitolata Reverie (1904). Qui, è immortalata una donna greca seduta in terrazza, dall’acconciatura e dall’abbigliamento tipicamente classico. La donna guarda verso lo spettatore con atteggiamento poco entusiasta, manifestando un senso di monotonia e tedio. Lo stile di Godward si avvicina a quello del pittore e archeologo olandese Lawrence Alma-Tadema, dal quale riprese la cura nella rappresentazione dei dettagli, della classicità e degli elementi architettonici. Un chiaro omaggio all’antichità, di fatto, lo si assapora osservando la tela raffigurante Nerissa, parola di origine greca che significa “colei che proviene dal mare” (1906). Attualmente, di John William Godward non rimangono che le sue meravigliose opere; nel 1919 tornò in Inghilterra dove tre anni dopo si suicidò presumibilmente con un forno a gas. Il suo corpo fu sepolto a Londra, ma i familiari indignati dall’accaduto giunsero a distruggere tutte le sue lettere e le sue fotografie. Il travagliato trascorso professionale e intimo di John William Godward, attualmente può godere di un riscatto sempre più forte e deciso presso la critica e il pubblico. Finalmente si coglie maggiormente la straordinaria atmosfera idilliaca e la bellezza dei suoi capolavori che all’epoca furono trascurate e screditate. Come il frutto di un’arte figlia di un tempo sbagliato, l’artista stesso, conscio della sua condizione, affermò di vivere in un mondo non sufficientemente grande per accogliere lui e Picasso assieme. Immagini tratte da: ArtExpress.ws De.wikipedia.org Metalstorm.net Art-plus.it Wikipedia, pubblico dominio, voce: Nerissa 8/5/2018 “Psiche e altre storie”: al MANN, nuovo viaggio nell’arte contemporanea – Dal 10 maggio al 14 giugno la personale di Gloria PastoreRead Now“Un percorso fantastico per raccontare il mondo femminile”, potrebbe dire un turista dopo aver visitato la mostra “Psiche e altre storie” (a cura di Marco De Gemmis e Patrizia Di Maggio), che Gloria Pastore presenta al MANN dal 10 maggio (inaugurazione alle 17) sino al 14 giugno. Eppure, l’iter tracciato dall’artista nei meandri dell’universo femminile è, piuttosto, un viaggio nella complessità dell’intelligenza e della sensibilità umana: lo testimonia la ricchezza dell’esposizione che, nello spazio bianco e raccolto della Sala 34, proiettata sul Giardino delle Camelie del Museo, propone oltre trenta opere (le teste di Psiche, la scultura “Plastic woman: l’inganno” e il pezzo unico “Volti indiscreti”). Il fil rouge, o meglio il vero e proprio filo passionale che accomuna questo ciclo creativo, è rappresentato dalla rielaborazione delle suggestioni provenienti da una scultura capuana (copia di età adrianea di un originale greco databile al IV sec. a.C.), appartenente alle collezioni del MANN e nota tradizionalmente come “Psiche”: quest’opera è matrice primigenia, che Gloria Pastore riproduce e moltiplica, accostandola a oggetti, simboli, frammenti di senso, capaci di rispecchiare le diverse caratteristiche della natura femminile. Così l’artista racconta la genesi della propria avventura espressiva: “La prima testa, ispirata alla scultura che abita timidamente in un corridoio del Museo Archeologico di Napoli, venne realizzata in creta e gesso misto con la tecnica della gomma in silicone. In seguito, altre furono replicate con la tecnica del calco, trasformandosi in un lavoro dedicato all’intelligenza delle donne ed alle loro infinite potenzialità”. La ricerca di Gloria Pastore non si ferma qui: accanto alla Psiche, infatti, si colloca lo straordinario pezzo unico “Volti indiscreti”, che riproduce le immagini delle più grandi scienziate della storia (Maria Gaetana Agnesi, Linda Brown Buck, Sabina Spielrein, Mileva Marić, Irène Joliot-Curie, Lou Andreas-Salomé, Chien-Shiung Wu, Rita Levi-Montalcini e Margherita Hack), elaborate digitalmente su pellicola e accostate, su doppie lastrine di plexiglas, a una miriade di occhi, segno di uno sguardo perenne che non si cancella con il tempo. La statua “Plastic woman: l’inganno”, infine, chiude (solo simbolicamente) la riflessione sulle interazioni possibili tra l’aspetto esteriore e la connotazione interiore della figura femminile. “Gloria Pastore è approdata allo straordinario traguardo della personale -Psiche e altre storie- attraverso un viaggio articolato, in cui il MANN è la quarta tappa: di questo iter raccogliamo con gioia i frutti, che stabiliscono suggestivi legami tra passato e presente. Alle artiste come Gloria Pastore e, più in generale, alle donne che fanno delle psiche (o dell’intelligenza emotiva) il baricentro della propria esistenza, dedichiamo questa mostra: che le donne possano sempre ragionare e creare, trovando nel MANN uno straordinario luogo d’ispirazione”, commenta il Direttore del Museo Archeologico, Paolo Giulierini, che nell’arte contemporanea ha trovato un ulteriore e fertile campo per valorizzare la prestigiosa istituzione culturale napoletana. di Andrea Samueli ![]() Lucanica, la salsiccia antica Le prime testimonianze riguardanti questo gustoso alimento provengono dal mondo latino: Varrone ne farebbe derivare l’invenzione dal popolo dei Lucani e Apicio, nel De Re Coquinaria, ce ne tramanda la ricetta. Trita pepe, cumino, santoreggia, ruta, prezzemolo, bacche d’alloro, salsa di pesce; mescola la carne ben sminuzzata con il trito ottenuto. Pesta di nuovo il composto con salsa di pesce, pepe intero, una gran quantità di grasso e gherigli. Insacca in un budello e assottiglia. Appendilo per l’affumicatura. ![]() Bikini Si avvicina l’estate e uno dei capi d’abbigliamento più usati dalle donne è proprio il bikini. Ma il tanto famoso costume a due pezzi, almeno come idea, era già presente nel mondo antico. I mosaici di Villa Armerina, in Sicilia, ci mostrano infatti donne intente in attività sportive: si trattava di una fascia legata in vita, una sorta di slip, chiamata subligaculum (indossato anche dagli uomini), corredato da una fascia per il seno, detta strophium. ![]() Tavolette cerate I post-it degli antichi come erano fatti? I Romani usavano tavolette di legno ricoperte di cera, sulle quali scrivevano con l’ausilio di uno stilus, una sorta di penna in legno o metallo appuntita da una estremità; per cancellare si raschiava la cera, usando l’altra l’estremità piatta. Anziché gettare il foglietto, la tavoletta cerata veniva avvicinata ad una fonte di calore, la cera di scioglieva e poteva essere stesa nuovamente ottenendo così una nuova superficie scrittoria (la famosa tabula rasa). Harpastum, il rugby dei Greci e Romani “È fuori gioco!”, “È troppo lunga!”, “È troppo bassa!”, “È troppo alta!”, “ È troppo corta!” “Passala indietro nella mischia!” Un telecronista alle prese con gli ultimi, concitati momenti di una partita di calcio? No, le grida di alcuni spettatori dell’antico gioco dell’harpastum. Il gioco, di origine greca e il cui nome significa “strappato via con la forza”, si diffuse ampiamente in tutti i territori dell’impero romano dopo la conquista della penisola ellenica. Il regolamento, come per molti giochi antichi, non ci è giunto completo: sappiamo però che si trattava di un gioco particolarmente duro, prediletto dai legionari, praticato da un numero di giocatori che variava dai 9 uomini per squadra fino ad arrivare ai 30. L’obiettivo era portare la palla, ripiena di stracci, oltre una linea segnata sul campo da gioco rettangolare correndo, passando la palla ai compagni e placcando o spingendo gli avversari. Dal tipo di campo, spesso in terra battuta, deriva l’altro nome con il quale il gioco era conosciuto, pulverulentus. Insomma, una variante antica del nostro ben noto rugby. Immagini tratte da:
Potrebbero interessarti anche: di Marianna Carotenuto Il primo maggio, si celebra la Festa del lavoro, data scelta per ricordare la rivolta dei lavoratori di Chicago del primo maggio 1886 repressa nel sangue. In questo giorno si ricorda la lotta internazionale di tutti i lavoratori, senza barriere geografiche, né sociali, per affermare i propri diritti, per migliorare la propria condizione. Manifesto della lotta operaia è senza dubbio Il quarto stato di Giuseppe Pellizza del 1901, che rappresenta la conclusione di un percorso che vede la realizzazione di numerosi dipinti riguardanti lo stesso tema. Il percorso inizia nel 1891, anno in cui Pellizza lavora al bozzetto degli Ambasciatori della fame che ha come soggetto la manifestazione di protesta di un gruppo di operai in piazza Malaspina a Volpedo a cui egli stesso ha assistito. L’opera presenta una scena vista dall’alto: in primo piano ci sono tre soggetti che guidano un gruppo di persone indefinite, i tre sono stati scelti per interloquire con il padrone e rivendicare i propri diritti. Questa versione però non soddisfa il pittore, che si rimette subito al lavoro. Sono numerose le opere che si interpongono tra il primo bozzetto degli Ambasciatori della fame e il suo prossimo quadro, Fiumana. L’ultima versione degli Ambasciatori è quella del 1895 e nello stesso anno Pellizza inizia a lavorare alla Fiumana, allontanandosi di molto dai suoi precedenti lavori. A differenza di questi ultimi, la folla è più consistente, così da formare una vera e propria fiumana umana; cambia la luce, i colori; il punto di vista è più basso tanto da favorire maggiore enfasi alla folla, spostata più in avanti. Inoltre, accanto alle figure maschili compare una donna con un bambino in braccio, allegoria dell’umanità. Con la Fiumana si assiste al primo esempio di pittura sociale. Pellizza, continuamente insoddisfatto, nel 1898 riprende per la terza volta il suo lavoro con lo scopo di rendere la fiumana più tumultuosa, di farla “avanzare a cuneo verso l'osservatore”, di rendere più dinamica e realistica la scena. Sono queste le caratteristiche de Il cammino dei lavoratori, che non raffigura più la fiumana umana, ma lavoratori impegnati in una lotta di classe. Nel 1901, a opera compiuta, ne cambia il titolo: nasce Il quarto stato. Il quarto stato raffigura un gruppo di braccianti che marcia in segno di protesta, ma il loro cammino verso l'osservatore non è violento ma lento e pacato tanto da evocare una sensazione di invincibilità. Il dipinto celebra l'imporsi della classe operaia, al fianco della borghesia. In primo piano vi sono tre soggetti, due uomini e una donna con un bambino in braccio. La donna, a piedi nudi, invita i manifestanti a seguirla: la sensazione di movimento si evince dalle pieghe della sua gonna. Il protagonista della scena è l’uomo al centro, che avanza disinvolto con una mano sulla cintura e la giacca sulla spalla. Alla sua destra, l’altro uomo cammina pensieroso. Dietro di loro c’è la folla dei contadini che rivolgono lo sguardo in più direzioni compiendo gesti molto naturali. Pellizza dà voce alla lotta di classe del proletariato, sostenendo che la «forza vera sta nei lavoratori che con tenacia nei loro ideali obbligano altri uomini a seguirli o a sgombrare il passo perché non c’è potere retrogrado che possa arrestarli». Così Il quarto stato diventò il simbolo della lotta per il diritto al lavoro. Immagini tratte da: www.museodelnovecento.org https://it.wikipedia.org/wiki/Il_quarto_stato#/media/File:Quarto_Stato.jpg |
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Gennaio 2022
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