di Marianna Carotenuto Durante la quarantena gli street artist di tutto il mondo hanno portato l’emergenza Coronavirus sui muri di moltissime città. L’artista italiano Salvatore Benintende, in arte TVBOY a metà febbraio ha realizzato a Milano “L'Amore ai tempi del Co…vid-19” rifacendosi al celebre romanzo di Marquez "L'amore ai tempi del Colera". TVBOY propone una rivisitazione del Bacio di Hayez: i due amanti sono dotati di mascherina e Amuchina, i due simboli dell'emergenza Coronavirus italiana. A proposito di Amuchina lo street artist bresciano Future? ha dedicato i suoi stencil alla corsa all’acquisto del gel igienizzante per le mani. L'opera “Your prevention, their profit” fa riferimento alle speculazioni sui prezzi di disinfettanti e mascherine. Se in Italia c’è stata la corsa all’Amuchina, all’estero si è parlato di caccia alla carta igienica. Al Mauer Park di Berlino, Eme Freethinker dipinge Gollum de "Il Signore degli Anelli" con un rotolo di carta igienica tra le mani e la scritta "Mia cara". Il dipinto allude alla mancanza di carta igienica nella maggior parte dei negozi, dopo che le persone hanno svaligiato i supermercati in preda alla paura. A TVBOY si deve anche una Monna Lisa al passo coi tempi, con tanto di mascherina e smartphone intenta a scattarsi un selfie. La Gioconda di Leonardo ai tempi del Coronavirus è apparsa sui muri di Barcellona il 18 febbraio 2020. L’opera si intitola Mobile World Virus in riferimento al Mobile World Congress, la più importante fiera al mondo sulla telefonia mobile cancellata per l’emergenza. Nello Petrucci ha realizzato a Pompei, su un muro nei pressi del Centro commerciale La Cartiera, l’opera intitolata Sweet Home. L’artista, sulla scia del #iorestoacasa, ritrae i Simpson con le mascherine davanti alla Tv. Lo street artist Harry Greb Design ha realizzato l’opera intitolata Human Family a Trastevere, Roma. Si tratta di una famiglia in gabbia fotografata da un panda. Per una volta sono gli animali che sono al di là delle sbarre. L’artista racconta di aver voluto rappresentare il disagio che le famiglie stanno vivendo in questi giorni: “la casa è la nostra gabbia e sono proprio gli animali a fotografare la specie umana come se fossimo noi nello zoo”. Non sono mancate opere per omaggiare gli infermieri ei dottori schierati in prima linea contro il Covid-19. Banksy offre il suo personale tributo ai medici e agli infermieri del servizio sanitario britannico, l'Nhs, impegnati nella lotta contro il virus con l’opera “Game Changer”,esposta al General Hospital di Southampton. Il suo ultimo lavoro raffigura un bambino che gioca con uno dei suoi supereroi. È un'infermiera: ha la mascherina, il mantello, la mano tesa nell’aria nel il gesto tipico di Superman e, al posto della celebre S, la croce rossa. Batman e l’Uomo Ragno vengono accantonati nel cesto dei giocattoli preferendo la vera Supereroina. "Grazie per tutto il lavoro che state facendo. Spero illumini un po' il posto, sebbene sia solo in bianco e nero" - Banksy Infatti l'unico particolare colorato è la croce rossa sul grembiule dell'infermiera. L'opera resterà esposta in ospedale fino all'autunno e poi sarà venduta per devolvere il ricavato in beneficenza. Una giovane infermiera, con la mascherina sul volto e il braccio destro piegato a rappresentare la forza e la resistenza nella battaglia contro il Coronavirus, è stata il soggetto dell’opera di TVBOY intitolata “We can do it!”. "In occasione della festa dei lavoratori - scrive TvBoy - ecco il mio omaggio a tutti gli operatori sanitari, che in questi mesi non si sono risparmiati e hanno lavorato con coraggio e dedizione, come sempre, anche se noi ci siamo accorti solo adesso dell'importanza fondamentale che hanno nella nostra vita. Sono la categoria di lavoratori a cui per eccellenza va fatto un plauso oggi, insieme alle forza dell'ordine. Rappresentano la forza e la speranza di potercela fare, di poter sconfiggere questo nemico invisibile e tornare alla normalità più forti e motivati di prima". Fonti: https://www.unicosettimanale.it/ https://www.focus.it/ https://www.palermotoday.it/ www.salto.bz https://www.huffingtonpost.it/ Potrebbe interessarti anche:
0 Commenti
di Olga Caetani Bestie da soma è un’opera che fin dal suo stesso titolo non riserva alcuna pietà alle figure ritratte all’interno dell’ampio scorcio di vita e di mondo, che si dipana a grandezza pressoché naturale davanti agli occhi di chi guarda, profondamente scosso da tanto crudo realismo. Sull’esempio di Courbet, Daumier e Millet, di Fattori e dei Macchiaioli fiorentini e non senza lo studio delle grandi tele romane di Caravaggio e dei suoi seguaci, la pittura di Teofilo Patini è zelante e meticolosa, fin quasi a sfiorare la perfezione del reale, anche nella sua più impietosa declinazione. Con Bestie da soma, che costituisce l’acme di una trilogia ideale, realizzata entro la prima metà degli anni ’80 dell’Ottocento e che comprende L’Erede e Vanga e latte, il progressivo processo di avvicinamento del pittore al realismo sociale è compiuto. Alle critiche accademiche rispondeva: “ho coscienza che l’impressione da me voluta è spiacevole e fatta proprio per urtare i nervi delicati di chi porta guanti e calze di seta”, ritenendo che il lavoro, la fatica e la miseria contenessero in loro “il germe delle grandi riforme sociali”. Patini dipinge la “semplice e pura manifestazione” del vero che lo circonda e, da ex garibaldino impegnato nelle insurrezioni del Gran Sasso e della Marsica, apre uno spaccato sulle precarie e desolanti condizioni di vita in Abruzzo all’indomani dell’Unità d’Italia, ben sintetizzate dall’indigenza che traspare osservando la serie di piccole vedute paesaggistiche di Castel di Sangro, suo paese natale. Se lo sconfinato e arioso orizzonte montano di Vanga e latte lasciava intravedere una futura speranza, incarnata dal neonato nutrito dalla donna, in Bestie da soma non ci sono possibilità di riscatto, come non ci sono né aria né cielo, e, in assenza dell’orizzonte, solo brulle rocce, aspre e inospitali. Tra massi, pietre e aguzzi cardi secchi, tre donne, schiacciate dal peso della fatica e dalla prospettiva, riprendono fiato sotto il sole bruciante, le labbra sono dischiuse e riarse, le vesti sdrucite e logore. Sullo sfondo, in lontananza, se ne contano almeno altre cinque, rese con rapidi tocchi di colore degni del tratteggio impressionista. Rincasano, ognuna con il proprio pesante carico di legna, e c’è chi porta anche il fardello del ventre rigonfio, di un nascituro destinato alla medesima e inesorabile sorte della madre. Ma le donne di Patini, qui variate nelle tre stagioni della vita, non piangono mai. Seppur stremate, alludono all’organizzazione segretamente matriarcale della famiglia abruzzese, offrendo un focus sulla socialità della donna italiana. Sempre dipinte nel vivo di un’attività, sono donne concrete, forti e orgogliose, senza vanità. Un dettaglio non passa inosservato: sotto la luce zenitale che modula il chiaroscuro della tela, un luccichio d’oro incornicia i volti disfatti dalla durezza del lavoro. Sono i preziosi orecchini ricevuti in dono al momento del fidanzamento o delle nozze e passati di madre in figlia. Lunghi e pendenti, ad ogni passo riproducono il gesto apotropaico di allontanamento delle influenze maligne. Femminilità, dignità e superstizione si fondono nel costume tradizionale, simbolo irrinunciabile di appartenenza e resistenza culturale. Miracolosamente sopravvissuta al devastante terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009, l’opera, facente parte della collezione del Palazzo del Governo del capoluogo abruzzese, è oggi esposta, assieme a tanti altri importanti dipinti del maestro, nella Pinacoteca Patiniana di Castel di Sangro, situata nei suggestivi ambienti del trecentesco Palazzo De Petra, cuore del centro storico della città, pulsante di iniziative, laboratori, mostre temporanee ed eventi culturali. Immagini tratte da:
Potrebbero interessarti anche: di Nicola Avolio Chi studia storia dell’arte, o anche chi ne è semplicemente appassionato, saprà che il museo inteso come luogo di esposizione di opere e mostre pubbliche o private ha avuto una lunga gestazione nel corso dei secoli: i primi nuclei espositivi nacquero negli studioli privati appartenenti ai principi di corte (si ricordino, ad esempio, gli studioli di Federico da Montefeltro e di Isabella d’Este), i quali erano soliti raccogliere all’interno di questi privè, per utilizzare un termine moderno, oggetti di ogni tipo e solitamente di piccole dimensioni. Successivamente alla concezione dello studiolo alcune figure eminenti, tra la fine del ‘400 e gli inizi del ‘500, resero necessaria l’esposizione al pubblico delle loro collezione, garantendone così la conoscenza e la fruibilità da parte di tutti: in questo caso è bene fare menzione del Palazzo Della Valle a Roma, appartenente al cardinale Andrea Della Valle e della cui collezione, situata nell’hortus pensilis del palazzo, ci sono pervenuti oggi alcuni disegni del Vasari e di Hyeronimus Cock, della collezione di Egidio e Fabio Sassi e della collezione Cesi, una delle più cospicue di Roma e che si estendeva in tutto il cortile della villa del prelato, fino alle rive del Tevere e di cui ci sono pervenute delle testimonianze biografiche dell’Aldrovandi (il quale, nel 1603, donò in eredità la sua collezione di storia naturale, la prima in Italia, al Comune di Bologna affinché venisse tramandata ai posteri e resa quindi fruibile a tutti) e raffigurative di Maarten Van Heemskerk. Ma come si arriva alla prima concezione di museo inteso unicamente come luogo atto a raccogliere oggetti d’arte? Per scoprirlo, bisogna arrivare agli anni compresi tra il 1536 e il 1543: in quegli anni, infatti, Paolo Giovio, vescovo di Nocera, allestì la sua collezione privata, accessibile cioè soltanto a pochi membri d’elìte, di oggetti d’arte nella sua villa di Borgovico, sulle rive del lago di Como, che all’epoca fu considerata una rievocazione della “Comoedia”, la villa che Plinio il Giovane possedeva negli stessi luoghi. Situata sul luogo dove oggi sorge la Villa Gallia, la costruzione aveva al centro un cortile nei cui portici si distribuivano gli oggetti d’arte posseduti dal Giovio; a esso si affiancava un salone decorato con le figure di Apollo e delle Muse – tema molto comune già negli studioli di corte quattrocenteschi – che ospitava invece il nucleo caratterizzante della raccolta. È proprio per questo ambiente che il Giovio utilizza il termine Museo, un termine che viene ora ad indicare, per la prima volta, il luogo deputato all’esposizione di opere d’arte. La principale collezione di questo iocundissimo museo era costituita da alcune centinaia di ritratti di uomini illustri, poeti, artisti, condottieri, pontefici, imperatori, ciascuno dei quali illustrato da un elogium, ossia una sorta di didascalia compilata dallo stesso Giovio. Alla base della collezione c’era il modello delle Vite di Plutarco, cioè una storia vista come l’insieme delle vite dei personaggi eccezionali: idea che incontrò grande successo, tanto che la “serie gioviana” fu replicata a Firenze, dove Cosimo I ne commissionò le copie a Cristofano dell’Altissimo, ad Ambras dell’arciduca Ferdinando d’Austria e da Ippolita Gonzaga. La novità della villa di Borgovico risiede non solo nella diversificazione di ciascun ambiente a seconda del contenuto, ma soprattutto nel fatto che il museo viene consacrato come luogo fisico della conservazione delle raccolte, come spazio dal quale materiali anche non omogenei ricevono una cornice unificante. Il materiale per la stesura del seguente articolo è stato tratto dal manuale “Il museo nella storia. Dallo studiolo alla raccolta pubblica” di Maria Teresa Fiorio, Bruno Mondadori editore, pp. 27-28. L’immagine della villa di Borgovico è stata tratta dal seguente sito: http://www.lombardiabeniculturali.it/opere-arte/schede/CO290-00012/ di Ilaria Ceragioli “Sono un figlio del Nord, e tutto ciò che sono è una parte del suo popolo e della sua natura selvaggia. Ovunque mi trovi, il Nord sarà sempre la mia patria. Amo la natura aspra e malinconica del Nord, e quei vividi lampi di luce che gli artisti nordici sanno esprimere.” È con queste parole che il pittore Konrad Mägi si descrive nel dicembre del 1907 a Parigi, durante un soggiorno piuttosto infelice. La sua permanenza presso la capitale francese fu infatti aspramente segnata dalla povertà e dall’incapacità di inserirsi all’interno dell’ambiente artistico della metropoli, troppo distante dalle sue radici e dalla sua indole. Konrad Mägi è attualmente considerato il capostipite della pittura estone moderna ed è maggiormente noto per la sua straordinaria dedizione alla pittura di paesaggio. Nelle sue tele Mägi riproduce il fascino sublime della natura del Nord, nonché della sua terra d’origine, incontaminata e imprevedibile. E così, la natura diviene uno spazio onirico e sacro in cui emergono la stessa irrequietezza e la stessa inquietudine del pittore. In un primo momento, durante la sua permanenza a Parigi, Konrad Mägi subisce l’influenza dell’Impressionismo e del Fauvismo: i colori e gli effetti luminosi dominano lo spazio pittorico. Ne è un chiaro esempio Paesaggio norvegese con pino un olio su tela databile al 1908-1909 e conservato presso il Museo Nazionale d’Arte dell’Estonia. Qui immortala il tipico paesaggio della Norvegia, paese in cui visse per un paio di anni, dal 1908 al 1910. La natura vergine e selvaggia di quella terra è qui resa dalla sola presenza di alcuni arbusti in primo piano e da qualche specchio d’acqua che timidamente si fonde con l’ambiente circostante. I toni caldi prevalgono su quelli freddi dando concretezza a quella sensazione di surreale e di infinito che caratterizza il tipico paesaggio norvegese. Smarrimento e solitudine invadono l’animo dello spettatore. Nel 1918 la sensibilità e il tormento interiore dell’artista emergono in una pittura di paesaggio più vicina all’Espressionismo. Significativo in questo senso è Lago Pühajärv, un olio su tela realizzato da Mägi tra il 1918 e il 1920. La carica emotiva del pittore è espressa in tutta la sua agitazione da pennellate spesse e nervose. La quiete delle acque del lago Pühajärv, nel sud dell’Estonia, contrasta con l’imprevedibile mutare del cielo e l’impetuoso movimento degli arbusti che sembrano essere sconvolti da un gelido vento. Un temperamento più sereno e pacato si evince, invece, nelle opere dell’ultima fase creativa di Konrad Mägi, eseguite durante un viaggio in Italia. Nel bel paese l’artista dipinse luminose e spensierate vedute di Roma, Capri e Venezia. Di seguito osserviamo così due tele, entrambe prodotte intorno al 1922-1923: a sinistra Capri, mentre a destra Venezia. Mägi trascorre sei settimane a Capri, isola della quale si innamorò perdutamente. Nell’opera conservata alla Enn Kunila's Art Collection di Tallinn (a sinistra) l’artista combina rovine antiche e natura riportando l’immaginazione a quell’antichità che tuttora incanta il visitatore. Nell’altra tela, invece, è presentato uno scorcio di Venezia con i suoi stretti e caratteristici canali. In ambedue i capolavori i protagonisti indiscussi sono i colori, ora accesi, vivaci e ricchi di vita. In Italia Konrad Mägi sembrava ormai aver trovato quella pace interiore e quella serenità che da tempo ricercava. Ben presto, però, nel 1925 l’artista tornò in patria poiché gravemente malato. Si spense così nella sua terra d’origine a soli quarantasette anni. Non svanisce però il ricordo della sua suggestiva produzione artistica che attraverso il colore seppe dare voce all’interiorità di un artista dotato di grande profondità d’animo. Immagini tratte da: Wikipedia, pubblico dominio, voce: Konrad Mägi Wikipedia, pubblico dominio, voce: Konrad Mägi www.kunilaart.ee Wikipedia, pubblico dominio, voce: Konrad Mägi |
Details
Archivi
Gennaio 2022
Categorie |