IL TERMOPOLIO
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26/7/2016

Castellani, Bonalumi, Fontana

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Oltre la pittura. Oltre la superficie
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di Alessandro Rugnone

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Concetto spaziale, Attesa 1968
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Concetto spaziale, Attese 1960
“Il cartone dipinto, la pietra eretta non hanno più senso […] è necessario un cambio nell'essenza e nella forma, è necessaria la superazione della pittura, della scultura, della poesia. Si esige un'arte […] dove le figure pare abbandonino il piano e continuino nello spazio i movimenti rappresentati”.
Così Lucio Fontana ne Il manifesto tecnico dello spazialismo comunica quell'urgenza di eccedere la dimensione chiusa, finita, limitata (e limitante) della tela, di superarne la piattezza, la bidimensionalità, di “abbandonare il piano”, di “continuare nello spazio”, di vagheggiare l'infinito.

FotoLucio Fontana al lavoro su uno dei suoi Concetti spaziali
“[...] e allora buco questa tela, che sta alla base di tutte le arti, ed ecco che ho creato una dimensione infinita, un buco che per me è la base di tutta l’arte contemporanea, per chi la vuol capire. Sennò continua a dire che l’è sol un büs, e ciao..”
I tagli di Fontana (Attese, Concetti spaziali), netti, regolari, impulsivi e istintivi ma d'una precisione quasi chirurgica, violano la sacralità della tela, aprono fisicamente sulla superficie squarci, brecce, fenditure, creano metaforicamente voragini di senso, abissi trascendentali, liberano quell'energia sopita, latente ed inespressa, immanente alla creazione artistica ma altresì costretta entro i bordi della cornice. L’arte con Fontana diventa tridimensionale, si anima, vive oltre e al di là la tela, opera di fatto quel “cambio nell'essenza e nella forma”, quel “superamento della pittura” vagheggiato nei suoi scritti teorici. Inoltre la luce che filtra dalle fenditure crea suggestivi giochi cromatici, lumeggiature, disegna rilievi, zone d'ombra e chiaroscuri che caricano il taglio di ulteriori valenze e significati che si vanno ad aggiungere a quelli propri di un gesto solo all'apparenza semplice e puerile ma in verità estremamente complesso e sfaccettato.
Epigoni di Fontana e debitori della lezione del maestro sono due delle figure di maggior rilievo della scena artistica milanese a cavallo tra la fine degli anni cinquanta e gli inizi dei sessanta del Novecento, l'uno, Enrico Castellani, nato in provincia di Rovigo il 4 agosto del 1930 e tutt'ora in attività e l'altro, Agostino Bonalumi, nato a Vimercate il 10 luglio del 1935 e scomparso pochi anni fa.


FotoEnrico Castellani

Enrico Castellani nasce a Castelmassa e studia arte, scultura e architettura in Belgio fino al 1956, anno in cui si laurea alla École Nationale Superieure.
L'anno successivo torna in Italia, stabilendosi a Milano, dove diviene esponente attivo della nuova scena artistica e dove stringe rapporti di amicizia e di collaborazione con Piero Manzoni. La collaborazione trai due artisti porta alla nascita di Azimuth, rivista d'arte fondata nel 1959 e uscita in soli due numeri che raccoglie i contributi di alcuni dei maggiori artisti e teorici dell'arte che in quegli anni si trovavano impegnati in un progetto di sostanziale rinnovamento del panorama artistico italiano (La nuova concezione artistica è, programmaticamente, il titolo di una delle più riuscite esposizioni allestite nella galleria Azimut, dai due fondata nel 1959). Sviluppa sapientemente e in maniera del tutto originale e personalissima la tecnica dell'estroflessione (o shaped canvas), particolare forma espressivo-artistica consistente nel creare una dilatazione spaziale verso l'esterno della tela (per lo più monocromatica) tramite specifici accorgimenti tecnici e materiali quali centine, chiodi, legno o latro materiale plastico. La stessa urgenza di oltrepassare la superficie della tela di supporto che giustificava i tagli di Fontana sostanzia ora la poetica di
Castellani che nelle sue più riuscite realizzazioni supera il lavoro del maestro.


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Superficie bianca, 1986
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Superficie, 1960
Le opere di Castellani, nel mercato dell'arte, sono fra le più ricercate e costose fra quelle del Novecento italiano, con quotazioni che hanno ampiamente superato il milione di dollari e sono regolarmente scambiate nelle aste più prestigiose quali le famose "Italian Sales" di Londra.
FotoAgostino Bonalumi
Agostino Bonalumi nasce il 10 luglio 1935 a Vimercate, periferia di Milano. Dopo studi di impostazione tecnico/meccanica, Bonalumi si inserisce giovanissimo nel clima artistico di Milano, frequentando lo studio di Enrico Baj dove conosce Lucio Fontana, Piero Manzoni ed Enrico Castellani.
Nel 1959 collabora con Castellani e Manzoni alla realizzazione di Azimuth ed espone alla prestigiosa Galleria Pater di Milano, alla quale seguiranno altre mostre a Roma, Milano e Losanna.
Nel 1961 alla Galleria Kasper di Losanna è tra i fondatori del gruppo “Nuova Scuola Europea”. Arturo Schwarz acquista sue opere e nel 1965 presenta una mostra personale di Bonalumi nella sua galleria di Milano, con presentazione in catalogo di Gillo Dorfles.
Nel 1966 inizia un lungo periodo di collaborazione con la Galleria del Naviglio di Milano che lo rappresenterà in esclusiva, pubblicando nel 1973, per le Edizioni del Naviglio, un’ampia monografia a cura di Gillo Dorfles.
Nel 1966 è invitato alla Biennale di Venezia con un gruppo di opere, e nel 1970 con una sala personale. Segue un periodo di studi e di lavoro nei paesi dell’Africa mediterranea e negli Stati Uniti dove si presenterà con una personale alla Galleria Bonino di New York.
Nel 1967 è invitato alla Biennale di San Paolo in Brasile e nel 1968 alla Biennale dei Giovani di Parigi.
“[...] l’opera non va considerata più come luogo di rappresentazione ma per la sua oggettualità, come oggetto e non rappresentazione di una oggettualità esterna.
Siccome tutti i pittori usavano la tela, l’ho usata anch’io. Il punto per me non era abbandonare la tela ma cosa fare con la tela. Fare l’opera con la tela e non sulla tela; il che è fare pittura superando la pittura. Nelle mie opere la tela è uno degli elementi dell’opera in quanto la costituisce insieme ad altri mezzi come la struttura ed il colore”.
Dorfles definirà la ricerca di Bonalumi “pittura oggettuale”, un indirizzo della pittura astratta mirante alla costruzione di quadri oggetto, ossia di opere dove tela, telaio e sagomatura eventuale delle stesse costituiva un tutto unitario, quasi sempre monocromo, e del tutto privo di riferimenti figurativi. “Fare l'opera con la tela e non sulla tela”, appunto. La sua abilità nel plasmare la superficie pittorica come fosse materiale plastico attraverso l'estroflessione di materiali lignei e corpi in acciaio è tale che qualcuno lo definirà “scultore di tele”.
Bonalumi, Castellani, Fontana. La tecnica è la stessa. Medesima l'esigenza.
Superare la pittura, oltrepassare la superficie.


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Rosso, 1966
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Blu, 1965
Immagini tratte da:
- 1, 7, 8, 9 www.artslife.com
- 2 www.fondazioneluciofontana.it
- 3 www.emettiladaparte.com
- 4 www.arteinvestimenti.it
- 5,6 www.dorotheum.com

 

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26/7/2016

Il Colosso di Rodi

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​di Andrea Samueli
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È il 304 a.C.: Antigono Monoftalmo, uno dei monarchi successori di Alessandro Magno, ha imposto a Rodi di interrompere gli scambi commerciali con l’Egitto governato da Tolomeo, ma l’isola, rimasta esterna alle lotte successive alla morte del condottiero macedone, si rifiuta di accettare. Con un esercito forte di quarantamila uomini e diverse centinaia di navi, il figlio di Antigono, Demetrio Poliorcete, attacca la città ma, dopo un anno di assedio, di fronte alla strenua resistenza dei Rodiesi, è costretto a ritirarsi, lasciando sul campo di battaglia molte delle macchine da guerra fatte costruire per l’occasione, tra le quali anche l’Helepolis, un’incredibile torre d’assedio alta quaranta metri.

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Ipotetica ricostruzione dell'Helepolis
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Proprio per festeggiare la vittoria viene realizzata un’opera, vendendo le armi da assedio recuperate, che passerà alla storia come una delle sette meraviglie del mondo antico: il Colosso di Rodi.
Nel mondo antico esistono numerosi esempi di statue dalle dimensioni strabilianti: basti pensare all’Atena Parthenos o allo Zeus di Fidia ad Olimpia, le cui altezze dovevano raggiungere i 12 metri. Ma nessuna opera sino ad allora realizzata aveva mai toccato dimensioni equiparabili a quelle del Colosso.
Opera dell’artista greco Carete di Lindo (allievo di Lisippo), l’enorme statua di bronzo alta circa 33 metri rappresentava il dio Helios, la divinità protettrice dell’isola.
Ma come dobbiamo immaginarlo? Paradossalmente, pur essendo una delle sette meraviglie, non ci ha tramandato alcun tipo di iconografia di sé. Le incisioni realizzate dal Rinascimento in poi lo mostrano stante, con le gambe divaricate per permettere il passaggio delle navi, i due piedi posti su due moli differenti, una spada in una mano ed un enorme braciere-faro nell’altra. Purtroppo questa rappresentazione, per quanto suggestiva, non è credibile: pur ipotizzando una struttura interna ad Y rovesciata, difficilmente la statua sarebbe potuta rimanere in piedi senza piegarsi sotto l’enorme peso. È più plausibile che avesse una postura simile a quella dell’Atena Parthenos, quindi una figura in piedi ma con le gambe ravvicinate.

Ricostruzione Atena Parthenos
Possibile copia romana dello Zeus di Fidia
Incisione del XVI secolo
Incisione del 1880
​È Filone di Bisanzio a fare un po’ di luce su questa incredibile opera: furono necessari 300 talenti (12 tonnellate) di ferro per la costruzione dell’intelaiatura interna e altri 500 talenti (20 tonnellate) di bronzo per il rivestimento esterno. A differenza delle altre statue in bronzo, per le quali testa e arti erano realizzati a parte e poi aggiunti al busto, qui la struttura si alzava in un tutt’uno, colata dopo colata. Una volta raggiunta una certa altezza si procedeva a ricoprire l’esterno di terra (anziché adoperare le classiche impalcature), creando così una sorta di terrapieno da impiegare per andare avanti nelle fasi di costruzione.
In conseguenza dell’altezza, Carete ritenne addirittura necessario riempire le gambe di grandi massi, al fine di stabilizzare meglio la statua, limitando l’effetto della spinta del vento e i movimenti generati da eventuali scosse telluriche. 
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La grandiosa statua dorata, alta 36 metri, voluta da Nerone: raffigurava l'imperatore nelle fattezze del dio Helios e molto probabilmente si ispirava al primo Colosso. La statua si ergeva all'interno della Domus Aurea e, successivamente, nelle vicinanze venne realizzato l'anfiteatro Flavio (da qui il nome Colosseo).
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I lavori durati circa 12 anni consegnarono, nel 293 a.C., alla città di Rodi un’opera unica in tutto il mondo antico, della quale l’isola potè vantarsi solo per 66 anni: nel 227 a.C. un violento terremoto fece crollare il Colosso, spargendo i suoi frammenti nell’area circostante, dove rimasero sino al 653 d.C. quando un generale di Othman occupò Rodi e vendette i pezzi del colosso ad un mercante di Edessa.
Niente è rimasto della straordinaria creazione di Carete e ciò lascia aperte le ipotesi riguardanti la sua collocazione: taluni lo vogliono al porto, là dove ora sorge il Forte di San Nicola; altri lo immaginano invece svettare al di sopra delle case della città e sorvegliare i porti, al posto di quello che secoli dopo diverrà il Castello (Collachium) dei Cavalieri di Rodi.

Immagini tratte da: 
scena d'assedio: da Pinterest 
quadro con veduta di Rodi e Colosso: da ancient.eu
Atena Parthenos: da Wikipedia Italia, Di Photograph by Dean Dixon, Sculpture by Alan LeQuire - Dean Dixon, FAL, voce "Atena Parthenos"
Zeus di Fidia: da Wikipedia Italia, Di George Shuklin, CC BY 2.5, voce "Religione dell'antica Grecia"
Colosso, incisione del XVI secolo: da Wikipedia Italia, Di Marten van Heemskerck (1498-1574) - http://www.rhodos-welten.de/koloss/koloss.htm, Pubblico dominio, voce “Colosso di Rodi”
Colosso, incisione del 1880: da Wikipedia Italia, Di gravure sur bois de Sidney Barclay numérisée Google - ouvrage Voyage aux Sept merveilles du monde Augé de Lassus, Pubblico dominio, voce “Colosso di Rodi”
Colosso di Nerone: da romanoimpero.com
Dipinto del Colosso: da Pinterest
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19/7/2016

Artemisia Gentileschi: un'icona oltre il pregiudizio

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di Ilaria Ceragioli

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Per molto tempo la pittura è stata una disciplina concessa esclusivamente ad individui di sesso maschile. Alle donne era negata la possibilità di rivestire un determinato ruolo sociale, perciò, la pittura non poteva essere un mestiere praticato dalle stesse. A partire dalla fine del ‘500 e l’ inizio del ‘600, però, alcuni talenti femminili cominciarono faticosamente ad emergere sul panorama artistico internazionale. Tra questi, degna di nota fu la pittrice Artemisia Gentileschi. Un’artista che, in un’epoca ancora tetra per le donne, riuscì a mettersi in luce grazie alla sua spiccata personalità e al suo indiscutibile genio.
Artemisia Gentileschi era figlia di Orazio Gentileschi, un artista toscano che risentì fortemente della pittura caravaggesca (soprattutto nell’uso di marcati effetti chiaroscurali) che, come vedremo, influenzerà anche la stessa Artemisia.
Nelle opere dell’artista le donne, presentate come eroine, sono le vere protagoniste. Una scelta, come vedremo, non dettata dal caso. Pertanto, prima di procedere all’analisi di alcune tra le sue più celebri opere a sfondo femminista, risulta necessario soffermarsi su un episodio personale della pittrice che ebbe un considerevole impatto non solo sulla sua vita più intima, ma anche e soprattutto sulla sua attività artistica. La sua notorietà, di fatto, raggiunse il proprio apice quando l’artista fu vittima di un terribile avvenimento. Siamo nei primi anni del ‘600 e Artemisia, allora diciottenne, subì una violenza carnale da parte di Agostino Tassi, maestro della prospettiva. La pittrice con estrema audacia ed eroicità decise di denunciarlo, ma, suo malgrado, si trattò di un processo piuttosto ostile nei suoi confronti la quale, per dimostrare l’attendibilità dell’accusa, giunse addirittura a sottoporsi ad alcune torture, tra cui lo schiacciamento delle dita. Indubbiamente, si trattò di una crudele tortura fisica e psicologica. Così facendo Artemisia Gentileschi diventò il simbolo di rivalsa delle donne nei confronti dei pregiudizi maschilisti del suo tempo. Dopo questo tragico fatto produsse opere in cui, con estrema chiarezza e insistenza, intenderà scagliarsi contro la sfera maschile. In particolare, due sono i dipinti che mostrano più efficacemente un atteggiamento disprezzante verso gli uomini: Susanna e i vecchioni (1610) e Giuditta che decapita Oloferne (1620), soggetti tratti dall’Antico Testamento.
La prima opera menzionata fa riferimento ad un episodio del Libro di Daniele.


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Si narra che Susanna, una donna particolarmente casta, venne sorpresa senza veli da due uomini anziani i quali sottoposero la donna a ricatto: o cedeva al loro desiderio sessuale oppure avrebbero raccontato al marito di averla avvistata con un amante. Susanna, tuttavia, decise di non cedere al ricatto rivelando, al contrario, il terribile episodio al marito. Volutamente Artemisia Gentileschi decise di raffigurare il momento in cui i due uomini cercano di convincerla a cedere ai loro appetiti sessuali. Susanna, disgustata ed infastidita, invece, è colta nell’atto di allontanare i due malintenzionati. Di estrema importanza, dunque, risulta l’intensa gestualità dei personaggi. Molti studiosi, per giunta, sostengono che nell’uomo barbuto e dai capelli scuri si celerebbe proprio la figura di Agostino Tassi.
La scena raffigurata nella seconda opera, invece, è ripresa dal Libro di Giuditta.


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Si racconta che Giuditta, accompagnata da un’ancella, prima sedusse il generale Oloferne, poi lo decapitò. È proprio in quest’opera che la Gentileschi da sfogo all’ira e allo strazio per la violenza subita in giovane età. La pittrice si ritrae nei panni di Giuditta che, con innegabile risolutezza e crudeltà, è intenta a decapitare Oloferne. Un atto di violenza tale che, come sottolineò lo storico dell’arte Roberto Longhi, con difficoltà si attribuirebbe ad una donna.
Al 1620 risale un'altra tela in cui viene mostrata nuovamente una volontà di riscatto della figura femminile nei confronti di quel sesso maschile che tanto l’aveva umiliata e addolorata. Si tratta dell’opera Giaele e Sisara.
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Il racconto fa riferimento ad un episodio biblico narrato nel Libro dei Giudici: Giaele prima attrae nella sua tenda Sisara, generale sconfitto dall’esercito israeliano, poi lo uccide perforandogli il cranio con un picchetto. Qui l’artista rappresenta un momento di estrema violenza inserito, però, all’interno di un’atmosfera piuttosto calma e pacifica. Il volto della figura femminile è disteso e pacato come quello di Sisara che sembra essersi addormentato. A spezzare questa aura di calma apparente, tuttavia, vi è il brutale gesto della donna.
Attraverso la sua arte la pittrice volle opporsi alla visione maschilista della sua epoca. Furono la sua determinazione e la sua innata abilità pittorica a definirne la fama mondiale di donna e di pittrice. Artemisia Gentileschi è entrata così a far parte di quelle icone femminili che ebbero il coraggio di scagliarsi contro i pregiudizi e le oppressioni sessuali di una società ancora mentalmente arretrata.

 

Immagini tratte da:
- Artemisia Gentileschi autoritratto come martire 1615, wikipedia, collezione privata, pubblico dominio
- Susanna e i Vecchioni, wikipedia, publico dominio
- Giuditta che decapita Oloferne, wikipedia, pubblico dominio
- Giaele e Sisara www.arte.it

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18/7/2016

La tomba di Filippo II a Verghina

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di Antonio Monticolo

Presso Verghina (l'antica Aigiai), in Macedonia, tra gli anni ’70 e ’80 vennero portate alla luce diverse tombe.  Fra queste occorre sicuramente ricordare quella più importante: la tomba di Filippo II di Macedonia (il padre di Alessandro Magno), databile tra il 360 e il 325 a.C. Venne scoperta dall’archeologo M. Andronikos nel 1977. C’è da dire che questa tomba ebbe due fasi di costruzione a causa dell’assassinio dello stesso re macedone. Inizialmente venne costruita la camera e successivamente il vestibolo.

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Incominciamo a descrivere l’esterno di questa tomba regale.
È una tomba dalla facciata monumentale; all’estremità sono collocati due pilastri mentre ai lati della porta in marmo a doppio battente due semicolonne doriche. I pilastri e le semicolonne sostengono una trabeazione con architrave, fregio, suddiviso in metope e triglifi, e cornice. Sappiamo che erano colorate con il rosso e con il blu perché permangono ancora tracce dell’antica colorazione.


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Sono rappresentati simultaneamente diverse scene:  l’attimo in cui sta per essere ammazzato un leone,  un capriolo ferito corre dietro le rocce, un cacciatore ha afferrato un altro capriolo, l’attacco ad un cinghiale. Ma l’attenzione dello spettatore si proietta sulla scena di un giovane cavaliere che sta per ammazzare il leone. C’è da dire, inoltre, che la scena è anche dominata da un altro cacciatore di età più matura. Gli studiosi hanno ipotizzato che queste due figure possano essere Alessandro e suo padre Filippo.
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All’interno, la tomba prevedeva una camera principale e un vestibolo. Gli archeologi, una volta entrati nella sala principale, si sono trovati di fronte ad un corredo formato da vasellame di diverso tipo, spada e pugnale del defunto, corazza di ferro decorata in oro, schinieri e diadema. Ma ciò che colpì gli archeologi fu il sarcofago cubico in marmo che conteneva la cassa d’oro (larnax) al cui interno erano conservate le ossa del defunto avvolte in un tessuto color porpora e sul quale era posto un diadema d’oro con foglie di quercia e ghiande.
Nel vestibolo gli archeologi hanno scoperto un altro sarcofago di marmo con ossa femminili avvolte anch’esse in un tessuto di porpora e oro. Sono stati rinvenute punte di freccia in una faretra d’oro, punte di lancia e poi ancora anelli e rosette d’argento.

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Oltre alla monumentalità dell’ingresso e alla qualità dei manufatti al suo interno, ciò che ha permesso di collegare questa tomba con Filippo II sono stati gli esami antropologici effettuati sul suo cranio. Questi hanno messo in evidenza una ferita all’occhio destro e sappiamo che Filippo perse proprio l’occhio destro durante l’assedio di Metone del 354 a.C. Per i resti ossei femminili, invece, Andronikos ha pensato potessero essere quelle di una delle mogli di Filippo II. Inoltre la fretta con cui sono stati collocati gli oggetti all’interno della tomba deve far pensare che la morte dell’individuo maschile deve essere avvenuta inaspettatamente come un assassinio.
Ricerche sono ancora in corso ma l'attribuzione della tomba a Filippo II sembra la più plausibile.

Immagini tratte da:
- 1, filelleni.wordpress.com
- 2, www.amicisaia.it
- 3, www.tripadvisor.es
- 4, www.davecullen.com
- 5, egittophilia.freeforumzone.com
- 6, dizionaripiu.zanichelli.it
- 7, favoladellabotte.blogspot.com
- 8, www.antikitera.net
- 9, favoladellabotte.blogspot.com

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12/7/2016

L’altare di Zeus a Pergamo

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di Antonio Monticolo

A Eumene II (197-159), re di Pergamo, si deve la costruzione dell’altare in onore di Zeus.
È una struttura di grandi dimensioni che si appoggia su un basamento formato da cinque gradini sui quali si eleva uno zoccolo in marmo. È  circondato su tre lati da un portico con colonne ioniche che si prolunga in avanti con due ali a fiancheggiare la scalinata di accesso. Oggi giorno la parte anteriore si trova al Pergamon Museum di Berlino.
Occorre dire che l’altare era decorato con due fregi; il primo correva lungo lo zoccolo e rappresentava  lo scontro fra gli dèi e i Giganti (gigantomachia), il secondo (di dimensioni minori) era stato realizzato sulle pereti interne del portico e rappresentava le imprese di Telefo (Telefeia), figlio di Eracle e progenitore della stirpe degli Attalidi, signori di Pergamo.

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Per il fregio con la Telefeia, occorre dire che le figure sono disposte su diversi piani e non occupano tutto lo spazio, così da conferire alla scene una sorta di tranquillità. Perché è stato scelto come soggetto Telefo? Il mito narra che Telefo era figlio di Eracle e Auge, figlia di Aleo, re di Tegea in Arcadia. Ancora piccolo fu separato dalla madre per volere di Aleo che aveva paura che suo nipote potesse ucciderlo, come profetizzava l’oracolo di Delfi. Auge fu mandata in Misia, la regione in cui si trova Pergamo, e il figlio venne nascosto dalla madre, prima che partisse, e venne allattato da una cerva. Da adulto ritrovò la madre e dopo varie vicissitudini morì. Il nipote, Grino, fondò la città di Pergamo. L’intero fregio voleva rappresentare l’ascendenza degli Attalidi da Telefo, quindi da Eracle ed infine da Zeus.
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                                                               Scene del fregio con la Telefeia
Adesso veniamo al fregio che decora lo zoccolo dell’altare.
Del fregio della Gigantomachia ciò che colpisce immediatamente è il caos creato dalle figure che occupano tutto lo spazio e che sono molto ravvicinate le une alle altre. Tutto questo mette in evidenza la crudeltà dello scontro fra l'ordine (gli dèi) e la barbarie (i Giganti).  Sul lato orientale sono rappresentati Zeus e Atena che lottano contro i giganti Porfirione e Alcioneo. Porfiorione è inginocchiato a terra e tenta invano di proteggersi dai colpi del padre degli dèi.

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                                                                    Zeus e Porfirione
Accanto a questa scena, è raffigurata la lotta fra Atena e Alcioneo. Nel volto di Alcioneo, morso da un serpente e afferrato da Atena, sta tutta la violenza della battaglia e la paura per la morte imminente. Tutto ciò si può ritrovare ben rappresentato sul volto del gigante che apre la bocca e alza lo sguardo carico di dolore. L’idea della vitalità che si sta affievolendo è rappresentata con estrema efficacia dall’atto, da parte del gigante, di afferrare con la mano il braccio della dea. La presa è leggera e la mano sembra quasi appoggiata al braccio della rivale. A fargli da eco, la madre dei Giganti, Ghe (Gaia), che spunta dal basso e anch’essa ha gli occhi rivolti verso l’alto e il braccio destro alzato, quasi in segno di supplica e pietà. I gesti e la posizione in diagonale dei corpi conferiscono un’aura di drammaticità a tutta la scena.
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                                                               Atena e Alcioneo
La stessa idea di caos e di dolore si può rivedere per esempio nella figura della dea Artemide che calpesta un gigante caduto a terra oppure nella rappresentazione dello scontro fra le tre Moire (Lachesi, Atropo e Cloto) e i giganti Agrios e Toante. Agrios ha la bocca aperta e le sopracciglia contratte per esprimere la paura per ciò che sta accadendo. I fregi dell'altare sono uno degli esempi più chiari e luminosi del cosiddetto "Barocco Pergameno".
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                                                                Moire, Agrios e Toante
Immagini tratte da:
- altare di Pergamo, artementenotizie.it
- lastre del fregio di Telefo, wikimand.it
- Zeus contro Porfirione, wikipedia ita., Griffyndor, pubblico dominio, voce: altare di Zeus
- Atena contro Alcioneo, wikipedia ita., Claus Ableiter, CC-BY SA, voce: fregio altare di Zeus
- Moire contro Agrios e Toante, wikipedia, Cluaus Ableiter, CC-BY SA, voce: fregio altare di Zeus

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12/7/2016

Il Faro di Alessandria

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​di Andrea Samueli
Questa settimana andremo alla scoperta di un edificio incredibile: il Faro di Alessandria. 

La città, fondata tra il 331 ed il 330 a.C. per volere di Alessandro III di Macedonia (meglio noto come Alessandro Magno), fu uno dei centri più importanti dell’antichità. Qui, per volontà di Tolomeo I Soter, generale di Alessandro e alla morte di questi suo successore in Egitto (si rimanda alla disgregazione dell’impero macedone e alle successive lotte tra i generali), fu costruita quella che passò alla storia come una delle sette meraviglie del mondo antico.
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Ipotetica veduta del porto di Alessandria
FotoPianta della'antica città di Alessandria: si noti l'antico eptastadion e, tratteggiato, la moderna lingua di terra.
Di fronte alla baia di Alessandria, verso nord, si trovava l’isolotto di Pharos: esso fu unito alla terraferma mediante un molo lungo sette stadi (circa 1,4 Km), per questo chiamato eptastadion, che di fatto divise la baia in due specchi d’acqua distinti. Oggigiorno, in seguito all’accumularsi dei detriti, al posto di questo lungo molo si trova un braccio di terra fortemente urbanizzato.
Proprio su questa isola venne eretta una torre di segnalazione per le imbarcazioni che, dal nome del luogo, prese la dicitura di Faro. Le acque antistanti la costa, ricche di banchi di sabbia e scogli affioranti, rappresentavano un serio pericolo per le navi che transitavano nella zona: per questo motivo, proprio con l’intento di avvisare e tenere lontane le imbarcazioni durante le ore notturne, un mercante, tale Sostrato di Cnido, promosse la realizzazione di questo grandioso edificio (forse fu lo stesso Sostrato a progettare e finanziare i lavori). 

Il Faro, alto circa 134 m (per alcuni solo 95 m), venne realizzato tra il 300 ed il 280 a.C. e si componeva di tre parti: la base, di forma quadrata, alta circa 60 m, era sormontata da una porzione intermedia più piccola a sezione ottagonale, sulla quale si impostava la sezione superiore di forma cilindrica. Sulla sommità si trovava la luce, il cui raggio, stando a quanto scritto dallo storico Giuseppe Flavio, raggiungeva i 300 stadi (circa 48 Km), cioè la curvatura dell’orizzonte terrestre.
Per avere un’idea di come doveva apparire l’edificio possiamo prendere ad esempio il monumento funerario di Abusir: la tomba, posta proprio a 48 Km di distanza da Alessandria e fatta costruire da un dignitario egiziano sotto il regno di Tolomeo II, era pressoché contemporanea al Faro e di questo ne riproponeva in scala ridotta la forma. 
Monumento funerario di Abusir
Ipotesi ricostruttiva del Faro
Dubbi rimangono certamente sull’origine della luce emessa e sulla possibilità che il raggio arrivasse tanto lontano: probabilmente come combustibile era impiegata la nafta, importata dal Vicino Oriente, e la luce veniva riflessa tramite specchi metallici, menzionati anche da alcuni viaggiatori arabi di epoche successive. Lucio Russo, scienziato e storico italiano, ricorda che nel medesimo periodo della costruzione erano in corso grandi studi riguardanti proprio la rifrazione della luce e che tale distanza vada considerata plausibile, in ragione anche della notevole altezza alla quale si trovava il meccanismo.
Il Faro rimase in piedi, seppur danneggiato e privato di alcune sue parti a causa di alcuni terremoti, sino al 1303, quando una scossa di magnitudo molto elevata ne determinò il crollo definitivo. 

Al suo posto si erge ora il forte di Qaitbay, risalente al XV secolo, ma nelle acque antistanti sono stati rinvenuti migliaia di resti attribuibili all’antico e meraviglioso Faro di Alessandria. 
Forte di Qaitbay
Ritrovamento nelle acque attorno al forte
Immagini tratte da:
porto di Alessandria: da discovercleopatra.com
pianta di Alessandria antica: da Wikipedia Inglese, By Philg88 - Based on: Shepherd, William (1911) Historical Atlas New York: Henry Holt & Co. p. 34-35. Courtesy of the University of Texas Libraries, The University of Texas at Austin. Perry-Castañeda Library Map Collection., CC BY-SA 3.0, voce “Heptastadion”
ricostruzione del Faro: da Wikipedia Italiana, By Emad Victor SHENOUDAde:User:Xlance original uploader to .deen:User:Xlance fr:User:Xlance ar:User:Xlance - German Wikipedia (de:Datei:PHAROS2006.jpg), Attribution, voce "Faro di Alessandria”
monumento di Abusir: da Wikipedia Italiana, Di Gene Poole - Own work by Gene Poole., CC BY-SA 3.0, voce "Faro di Alessandria"
forte di Qaitbay, da Wikipedia Inglese, By The original uploader was Delengar at English Wikipedia - Transferred from en.wikipedia to Commons., CC BY-SA 3.0, voce "Citadel of Qaitbay"
resti sommersi, da smithsonianmag.com

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5/7/2016

Antonio Canova: lo scultore della  bellezza ideale

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di Ilaria Ceragioli

Antonio Canova è lo scultore più celebre e talentuoso dell’Epoca Neoclassica, nonché lo scultore della bellezza ideale per eccellenza. Fama dettata dal suo gusto raffinato e puro e dalla sua tecnica precisa ed armoniosa che, ammirandola, sembra indurci a pensare che i soggetti delle sue opere possano, d’un tratto, prendere vita. Artista trevigiano e orfano di padre, viene accudito dal nonno Pasino Canova, intagliatore di pietre, dal quale comincia ad apprendere l’arte dello scolpire divenendo ben presto il magnifico scultore che tutti conosciamo.
In cosa consiste quel “bello ideale” che le sue creature marmoree incarnavano?
Per spiegarlo occorre, prima di tutto, fare riferimento al pensiero di Johann Joachim Winckelmann, il massimo teorico dell’Estetica Neoclassica. Egli sosteneva che il bello ideale racchiudesse in sé l’idea di “nobile semplicità e quieta grandezza” che, a sua detta, si incarnava esclusivamente nelle antiche sculture greche. Quest’ultime esprimevano un linguaggio che esaltava l’equilibrio, le proporzioni, la semplicità e la grazia intesa come armonia delle forme, dunque, quella perfezione che era espressione di una bellezza ideale impossibile da trovare in natura, in quanto, di per sé imperfetta. Si ha un rifiuto per l’eccesso, per le espressioni che stravolgono e imbruttiscono i lineamenti del volto, adesso distesi e sereni. Forte, dunque, è l’opposizione con l’Estetica Barocca che, al contrario, omaggiava l’eccesso, lo squilibrio, i virtuosismi e le passioni incontrollate e travolgenti.
Canova è lo scultore che meglio di altri seppe tradurre e manifestare sentimenti e azioni in una maniera composta e aggraziata senza cadere, per l’appunto, nell’esagerazione.
L’ideale di perfezione nel bello, si assapora soprattutto nelle opere a soggetto mitologico, in particolare nelle figure femminili nelle quali trionfano la delicatezza, la morbidezza del carnato e una pudica sensualità. Tra queste, impossibile non citare il celeberrimo gruppo scultoreo de Le tre Grazie realizzate tra il 1812 e il 1816 e conservate al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo.

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Le tre figlie di Zeus sono colte nell’atto di abbracciarsi ed il freddo marmo, levigato e morbido, sembra assumere un calore che non può appartenere a tre divinità in pietra bensì a tre donne che sembrano divenute reali. In merito a questa sua abilità di dare corporeità e vita al marmo delle sue sculture, dunque, è d’obbligo fare un brevissimo accenno anche ad altre due opere a soggetto femminile: Ebe (1816) e la Venere Italica (1804-1812).
In entrambe la vera protagonista è la bellezza ideale. Ebe era la figlia di Zeus ed Era, qui immortalata nel momento in cui sta atterrando dopo un breve volo.
Foto
Museo di San Domenico, Forlì
La Venere, invece, si accinge a coprirsi con un velo, probabilmente per l’arrivo di qualcuno. In entrambe è perciò evidente l’omaggio ad una bellezza pura ed armoniosa o, per meglio dire, ideale.
Foto
Galleria Palatina, Firenze
Per concludere, possiamo sintetizzare l’ideologia e l’operato di Canova facendo riferimento ad una citazione pronunziata dallo scultore stesso:“Ho letto che gli antichi una volta prodotto un suono erano soliti modularlo, alzando e abbassando il tono senza allontanarsi dalle regole dell'armonia. Così deve fare l'artista che lavora ad un nudo.”

Immagini tratte da:

- Tre Grazie, arteworld.it
- Ebe, artearti.net
- Venere Italica, www.civita.it

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5/7/2016

Nel blu dipinto di blu (Klein):Yves Klein e il suo International Klein Blue.

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​di Alessandro Rugnone
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Yves Klein
FotoMonochrome bleu (Ikb 190), 1959
Se a Klein avessimo chiesto ragione dei suoi Monochromes (o Monocromi), campiture monocromatiche su tela, lui, Yves-le monochrome, avrebbe probabilmente preso a narrare un'antica parabola persiana a lui cara e che più o meno recita così. "C'era una volta un flautista che un giorno si mise a suonare una nota unica, continua e ininterrotta. Dopo aver fatto così per vent'anni, sua moglie gli fece notare che gli altri flautisti producevano un'ampia gamma di suoni armoniosi e persino intere melodie, creando una certa varietà. Ma il flautista monotono replicò che non era colpa sua se egli aveva già trovato la nota che tutti gli altri stavano cercando".
E Yves quella nota unica, continua e ininterrotta l'avrebbe riprodotta ossessivamente per l'intero arco della sua brevissima esistenza quasi a voler schernire la vuota varietà degli altri flautisti la cui tronfia orchestrazione di suoni armoniosi e persino di intere melodie maschererebbe altresì un'impietosa mancanza di verità. 

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Le Vague (Ikb 160), 1957
“Sono giunto a dipingere il monocromo […] perché sempre di più davanti a un quadro, non importa se figurativo o non figurativo, provavo la sensazione che le linee e tutte le loro conseguenze, contorno, forme, prospettiva, componevano con molta precisione le sbarre della finestra di una prigione.”
Linee, contorni, forme e prospettive verranno assorbite da quell'unica stesura di colore, uniformante, compatta e avvolgente, che tinteggerà lo spazio della tela nella sua totalità e andrà a realizzare un'intensa campitura monocromatica dall'impatto visivo violento, dirompente. Il senso di vuoto, l'angoscia dell'infinito, dell'indefinito, dell'immateriale, queste le sensazioni suggerite allo spettatore da quell'unica nota cromatica stesa ad ampie e decise pennellate sulla tavola e ripetuta ossessivamente opera su opera, tela dopo tela, in un'attività febbrile, prolifica ed intensa, interrotta soltanto dalla morte sopraggiunta prematura all'età di trentaquattro anni.
Foto
Assiette bleu sans titre (Ikb 54), 1957
Nel febbraio del 1956 Klein partecipa all’esposizione parigina nella “Galerie Colette Allendy” intitolata “Yves: Proposition monochrome”; qui inizia a far conoscere le proprie opere e cerca di verificare l’impatto della pittura monocroma sul pubblico.
Lavora perlopiù con tonalità calde, morbide, come le nuance del giallo, dell'arancio, del rosso, ma il lavoro non lo soddisfa. I dieci monocromi presentati, ciascuno di un colore diverso, creano a suo dire una “policromia decorativa”, effetto del tutto lontano dalle intenzioni dell’artista convinto che il colore debba necessariamente svincolarsi dalla sua natura decorativa, ornamentale, per farsi esso stesso significante, per “rappresentare qualcosa in sé”. 
FotoMonochrome bleu sans titre (Ikb 67), 1959
Klein decide quindi di limitarsi a lavorare con un unico colore che di conseguenza avrebbe dovuto essere straordinario, intenso, evocativo. Sceglie il blu, o meglio, una particolarissima sfumatura di blu oltremare, che l'artista definisce“l'espressione più perfetta di blu. Il blu: la verità, la saggezza, la pace, la contemplazione, l’unificazione di cielo e mare, il colore dello spazio infinito, che essendo vasto, può contenere tutto. Il blu è l’invisibile che diventa visibile. Non ha dimensioni. E’ oltre le dimensioni di cui sono partecipi gli altri colori”.
Dal 1957 incomincia la fase che verrà definita “epoca blu”, in cui il colore da lui creato, l’ IKB (International Klein Blue) e poi brevettato il 19 maggio del 1960, sarà l’unico protagonista. Il pigmento blu purissimo impiegato nella miscelazione dell'IKB non perdeva la sua naturale brillantezza grazie ad un solvente particolarissimo, una resina sintetica usata normalmente come legante, il Rhodopas M, prodotta dall’industria chimica Rhone–Poulenc, che Klein, insieme con il suo amico Edouard Adam, diluì in una soluzione di alcol etilico e aceto d’etile al 95%. Così miscelata la resina divenne un ottimo legante per i grani del pigmento stesso, ed era particolarmente adatta al blu oltremare in quanto non ne modificava la tonalità.

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Victorie de Samothrace, 1962
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Vénus Bleue, 1962
Ai grandi monocromi blu si alternano in questi anni creazioni in cui il pigmento blu sviluppato sapientemente da Klein viene utilizzato su diversi altri rilievi scultorei, dalla statuaria classica, come per la celebre Victoire de Samothrace o la Vénus bleu, a quella rinascimentale, come per L'Esclave de Michel-Ange, a composizione più squisitamente astratte o che denotano l'interesse vivo dell'artista per la cosmogonia come per la serie dei Globe terrestre bleu, mappamondi imbevuti del blu da lui brevettato. 
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Sculpture éponge sans titre, 1959
"Un giorno notai la bellezza del blu in una spugna; questo strumento di lavoro divenne per me materia prima d'un sol colpo. La straordinaria capacità delle spugne di assorbire qualsiasi liquido mi affascinò”
Del periodo blu fanno parte quei rilievi di Klein composti da spugne sature di varie dimensioni, montate su tele dalla superficie ruvida, che intrise di blu, rievocavano il fondale dell'oceano o la topografia di qualche pianeta sconosciuto. 
FotoAnthropométrie de l'époque blèue, 1960
L'idea per una nuova serie di opere, le Anthropométries, si può sicuramente mettere in relazione alla passione di Klein per il judo, in particolare all'impronta del corpo che rimane sul materasso dopo la caduta.
I primi esperimenti di Klein avvennero il 27 giugno 1958: applicò della vernice blue su una modella nuda e la fece rotolare su un foglio di carta steso sul pavimento. I risultati però non lo soddisfecero perché le impronte erano troppo casuali, come l'action painting di Georges Mathieu, che riscuoteva gran successo in quel periodo a Parigi. L'idea di disegnare con "pennelli viventi" continuò ad affascinarlo.
La première pubblica ebbe luogo la sera del 23 febbraio 1960 nell'appartamento di Klein. La modella, sotto la supervisione dell'artista, impresse il suo corpo su un foglio di carta affisso alla parete. Le forme del corpo erano ridotte agli elementi essenziali del tronco e delle cosce, e veniva prodotto un simbolo antropometrico, cioè quello relativo al canone delle proporzioni umane. Klein lo ritenne l'espressione più intensa dell'energia vitale immaginabile.

La carriera di Klein coprì a malapena l’arco di un decennio ma questo bastò a imporre la sua opera sulla scena parigina ed europea come una sorta di tabula rasa che ha prodotto un nuovo impulso alla ricerca artistica degli anni 60. I quadri, le sculture, gli scritti, la vita quotidiana dell’artista sono impossibili da scindere l’una dagli altri. Klein ha influenzato quasi tutti i pittori della sua generazione e di quella che gli è succeduta, ma non ha creato una scuola ne pu venir chiamato maestro da alcuno; ha lasciato un eredità impossibile, perché tutto il suo lavoro, la sua ricerca, non sono altro che un’organica filosofica utopia.
“La mia vita dovrebbe essere […] una nota continua, liberata dall’inizio alla fine, legata ed eterna al tempo stesso perché essa non ha né inizio né fine…”. Unica, continua e ininterrotta come la nota del flautista dell'antico racconto persiano. 


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Yves Klein
Immagini tratte da:
www.yveskleinarchives.org

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5/7/2016

Trovata la tomba di Aristotele?

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di Antonio Monticolo

STAGIRA- Alla fine del mese di maggio, l’archeologo Kostas Sismanidis, durante un convegno tenutosi a Salonicco, ha dichiarato di aver identificato con molta probabilità la tomba del grande filosofo Aristotele a Stagira (città natale di Aristotele), sito in cui lavora dal 1996.
La città (l’odierna Olimpiada) è ubicata nella penisola calcidica, a nord della Grecia.

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Sismanidis non ha prove certe che si possa trattare della tomba di Aristotele, ma ritiene che possa esserlo perché in un testo di Claudio Tolomeo (100-175 d.C.) è scritto che le ceneri del filosofo furono trasportate da Calcide, luogo in cui Aristotele morì nel 322 a.C., a Stagira dove vennero custodite in un edificio. Inoltre sono state trovate monete e ceramiche risalenti al periodo di Alessandro Magno (356 a.C - 323 a.C.).
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La tomba è un edificio a forma di ferro di cavallo, con pavimenti in marmo e resti di un altare.
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C’è da dire che gli archeologi sono molto scettici al riguardo. Infatti sostengono che non ci siano prove certe, come ad esempio iscrizioni, che possano dimostrare l’identificazione di questa tomba con quella di Aristotele. Fin quando non comparirà una tale prova, nessuno potrà affermare con sicurezza che la tomba sia realmente quella del grande filosofo di Stagira e del precettore di Alessandro Magno.

Per saperne di più:
- https://ilfattostorico.com/
- http://www.repubblica.it/scienze/2016/05/27/news/tomba_arisotele-140709221/

Immagini tratte da:

- il fattostorico.it

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