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25/7/2017

"L'artista mediocre copia, il genio ruba!" : Maurizio Cattelan o il furto dell'arte

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di Alessandro Rugnone
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Maurizio Cattelan
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Untitled, 2002
Enfant terrible dell'Art Biz, artista da 86,6 milioni di dollari (questa la cifra spesa fino a oggi per aggiudicarsi le sue creazioni), ironico, irriverente, spietato. Questo è Cattelan. Schivo, sfuggente, elusivo, refrattario all'artefatta mondanità dei vernissage, ai riflettori della ribalta, eppure così svergognatamente popolare da collezionare una media di trenta esposizioni l'anno. Questo è Cattelan. Deliziosamente autoreferenziale, narcisista fino all'egolatria, conteso da galleristi, mercanti d'arte e collezionisti d'ogni sorta, schernito dai benpensanti, vilipeso dai soliti alfieri del potevo farlo anch'io (che mi vien lecito pensare e perché non l'avete fatto voi?) ma osannato dalla critica e amatissimo dalla stragrande maggioranza del pubblico, costui, ripeto, a grandissime linee (rigorosamente di lunghezza infinita, citando il maestro Piero Manzoni) è Maurizio Cattelan.
“Non ho mai fatto niente di più provocatorio e spietato di ciò che vedo tutti i giorni intorno a me. Io sono solo una spugna. O un altoparlante.” È una spugna, Cattelan. S'imbeve del blu Kline, del gesso bianco, del caolino liquido e della colla degli Achromes di Manzoni, dell'object trouvé duchampiano, del gioco dadaista, delle accumulazioni post-dadaiste, del gesto espressionista, delle combustioni di Burri, dei tagli di Fontana e, impregnandosi, assorbe, assimila. Se l'artista mediocre copia, plagia, e il genio metaforicamente ruba, s'impossessa intellettualmente di tutto ciò su cui posa la propria ipoteca d'artista, Cattelan è dunque un genio. Su quell'amalgama d'accatto egli appone il proprio personalissimo sigillo o trademark intellettuale e ne prende legittimamente possesso, rendendo di fatto riconoscibilissimo come suo qualcosa che non è affatto suo (la metafora del sigillo e della cera lacca è quanto mai calzante).
FotoUntitled, 1986
Untitled, acrilico su tela del 1986, dà conto perfettamente della carica eversiva di questo gioco mistificatorio. Cattelan squarcia la tela alla maniera di Fontana ma il taglio netto del maestro diventa grottescamente in Cattelan la Z di Zorro, la firma d'un condottiero (s)mascherato in scherno alla tirannia del mercato dell'arte. Tra le migliaia di possibilità di furto che il Novecento ha affinato rispetto all’innocua ispirazione dei secoli precedenti, l'opera più geniale è il celebre foglio della denuncia di Cattelan alla questura di Forlì del furto della sua auto con dentro l'opera invisibile. Furto ovviamente falso, ma denunciato veramente per dare così falsa esistenza a un’opera che non l’aveva affatto (addirittura paradossale il fatto che tale Pep Marchigiani, artista abruzzese, abbia messo a verbale presso il comando dei carabinieri di Montesilvano di aver rinvenuto presso un locale cassonetto di rifiuti la fantomatica opera invisibile a suo tempo trafugata!).
Another fuckin' readymade: works from a stolen exhibition del 1996 gioca sull'idea di liceità, di legittimità del furto in arte, traslando il concetto dal piano puramente metaforico (ispirazione, citazionismo, plagio...) a quello letterale di rapina, di sottrazione. Cercando di spostare l'identità artistica da uno spazio all' altro, il giorno prima dell'opening alla De Appel Foundation di Amsterdam, insieme ai curatori della mostra, Cattelan ruba tutto il contenuto in mobili, opere e carteggi vari della concorrente Galleria Bloom, mettendolo in mostra come suo lavoro alla De Appel. Alla locale polizia non piacque affatto il divertissement post-duchampiano e all'artista venne intimato di ricollocare tutta la refurtiva nel suo luogo d'origine. Picasso (o chi per lui) aveva ragione: l'artista mediocre copia, il genio ruba.

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Another fuckin' readymade, 1996
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La nona ora, 1999

IMMAGINI TRATTE DA:
1 www.lachiavedisophia.com
2 www.oziomagazine.it
3 www.deodat-arte.it
4 www.artnews.com
5 www.arttribune.com

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17/7/2017

Anne-Louis Girodet-Trioson e la ricerca dell’originalità

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di Ilaria Ceragioli
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Avvicinandoci alla vita e all’attività artistica di molteplici pittori non sarà difficile intuire che la ricerca dell’originalità in molti casi ha avuto un notevole prezzo da pagare. Nel Settecento l’avvento dei Salons parigini, ossia delle esposizioni di arte contemporanea che imponevano un modello ben preciso agli artisti, comportò il soffocamento della creatività e della genuinità di quest’ultimi. Tra i vari artisti che furono fortemente soggetti a una tale restrizione vi fu il pittore francese Anne-Louis Girodet-Trioson. Girodet nacque a Montargis e immediatamente manifestò sia la volontà di scagliarsi contro il sistema vigente, sia un’inarrestabile ricerca dell’originalità. Ma cosa significava per Girodet essere un pittore “originale”? Nella concezione artistica di Girodet essere innovativi significava realizzare un tipo di pittura in grado di dimostrare che anch’essa, come la poesia, fosse capace di astrarsi, di condurre verso mondi prodotti dall’immaginazione. Fu allievo del celeberrimo Jacques-Louis David dal quale cercherà ben presto di allontanarsi. Mentre David elaborava una pittura di storia, legata alla patria e portatrice di valori e messaggi morali, Girodet presentava una pittura erotica  e capace di alludere alla sfera metafisica mediante un frequente uso di allegorie.
Nel 1790 Girodet vinse il tanto ambito Prix de Rome, premio sancito dall’Academie che prevedeva un soggiorno di tre anni presso l’Accademia di Francia a Roma situata a Villa Medici. Fu proprio in questa città italiana segnata da forti suggestioni artistiche e storiche che Girodet elaborò la sua prima opera, il Sonno di Endimione (1791), attualmente custodita al Louvre.

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Nell’opera si possono osservare alcuni elementi particolarmente innovativi, in primis la scelta inusuale di raffigurare (apparentemente) soltanto la figura di Endimione e non quella di Diana mentre gli si avvicina, come di consuetudine. In realtà anche Diana è presente all’interno della tela, ma non nella forma umana, bensì sotto forma di raggio di luce proveniente dalla luna. La fonte luminosa diventa, dunque, metafora di Diana e lo zefiro-cupido è quella figura allegorica che permette il contatto tra i due.
Al 1806, invece, risale un’opera che suscitò critiche molto aspre: la Scena di Diluvio, anch’essa conservata al Louvre.

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Il solo titolo del dipinto può trarre in inganno. La tela, infatti, non raffigura il biblico Diluvio Universale, bensì una famiglia aggrappata ad un ramo che di lì a breve si sarebbe spezzato facendo precipitare l’intera famiglia nelle profondità delle acque. Si trattava di una rappresentazione eccessivamente drammatica per il gusto del tempo. In un’epoca in cui dilagava la pittura trionfante di David in cui protagonisti erano eroi capaci di affrontare le situazioni più pericolose e ardue,  l’opera girodettiana non poteva che manifestare disgusto e ripugnanza.
La ricerca dell’originalità condusse Girodet a una frequente insoddisfazione personale tanto da invitarlo a fare e disfare continuamente le sue opere. Un esempio eloquente è dato dall’opera Pigmalione e Galatea (1819).
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Girodet impiegò ben sette anni per vedere ultimata la sua tela. Come possiamo immaginare, anche questo dipinto non fu esente da critiche. Era ritenuta un’opera troppo “filosofica”, fredda e poco espressiva. Si tratta in realtà di un dipinto particolarmente innovativo in cui il pittore non volle semplicemente illustrare il mito ovidiano in cui lo scultore Pigmalione si innamorò della sua scultura, Galatea, ma inserendo la figura di cupido, volle raffigurare in modo allegorico il sentimento d’amore, nonché l’unione tra i due amanti.
Anne-Louis Girodet-Trioson, dunque, fu un artista dall’indiscutibile talento, ma anche un pittore controcorrente. Il pubblico dell’epoca influenzato maggiormente dall’attività artistica del maestro David non riuscì a comprendere lo scopo della sua pittura e di conseguenza la sua originalità. Fu così che Girodet, negli ultimi venti anni della sua esistenza, decise di abbandonare definitivamente la pittura per abbracciare l’attività letteraria.
 
Per saperne di più sull’artista: “L’incubo di Pigmalione” e “Ingannare la morte” a cura di Chiara Savettieri.

Immagini tratte da:
wikipedia, pubblico dominio, voce: Girodet
letteraturaartistica.blogspot.it
wikipedia, pubblico dominio, voce: Pigmalione and Galatea
pinterest.com



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17/7/2017

La statua di Augusto "Prima Porta"

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di Antonio Monticolo
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La statua di Augusto Prima Porta, località in cui è stata ritrovata nel 1863, datata alla fine del I secolo a.C., raffigura l’imperatore stante con la gamba destra a sorreggere il peso del corpo mentre la sinistra è posta all’indietro. Questa posizione delle gambe ricorda molto da vicino il Doriforo di Policleto a cui l'artista ha fatto riferimento per la realizzazione della sua opera. Augusto ha il braccio destro in avanti e con quello sinistro sostiene il paludamentum (mantello del generale romano). Il volto è giovanile e i capelli sulla fronte sono disposti nel caratteristico tipo a coda di rondine.


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Ai piedi della statua vi è Eros su un delfino che con la mano sinistra tocca la gamba di Augusto ad indicare  un contatto diretto con l’imperatore. Sia Eros che il delfino rimandano a Venere poiché il primo è il figlio della dea, mentre il secondo simboleggia la nascita di Venere dall’acqua. La scelta di rappresentare Eros sul dorso di un delfino non è casuale poiché la dea dell’amore oltre ad essere la madre di Eros è anche madre di Enea, padre a sua volta di Iulo da cui la gens Iulia diceva di discendere, dandosi così un antenato mitico e divino.
Parimenti importanti sono le rappresentazioni che si trovano sulla corazza anatomica perché hanno un significato che va a di là della loro raffigurazione.
Al centro compare il re dei Parti, Fraate IV , che restituisce le insegne, che M. Licinio Crasso che aveva perso durante la  battaglia di Carre nel 53 a.C, al popolo romano  personificato dal dio Marte accompagnato dal cane. Ai lati sono rappresentate le personificazioni sedute di due province sottomesse (Gallia e Hispania?).
In alto compaiono la quadriga del Sole, la personificazione di Caelus (?), quella di Rugiada e di Aurora che inseriscono la scena principale in una dimensione cosmica.
In basso compaiono Apollo (divinità a cui Augusto era legato) sul dorso di un grifo alato e sua sorella Diana su di una cerva. Infine ancora più in basso Tellus, dea dell’abbondanza sdraiata con cornucopia.
Queste rappresentazioni simboleggiano la potenza e il ruolo di Augusto come princeps e guida di Roma. È colui che si è fatto restituire le insegne di Crasso (Marte) ed è colui che ha sconfitto Marco Antonio nella battaglia di Azio nel 31 a.C. Inoltre Augusto fa rappresentare  alcune divinità come Caelus, Aurora, Rugiada e Sole che simboleggiano la nuova era e la nuova pace instaurata col principato dopo anni di guerre civili iniziate con Mario e Silla nel 83 a.C. e terminate con la battaglia di Azio nel 31 a.C.

Immagini tratte da:
wikipedia, pubblico dominio, voce: Augusto Prima Porta
wikipedia, tratrakys, pubblico dominio, voce: Canone di Policleto
wikipedia, saliko, CC-BY 3.0, voce: Augusto Prima Porta


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11/7/2017

Drawing Egnazia:  “Lo spettacolo dell’Archeologia”

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 Parco archeologico di Egnazia, Savelletri - Fasano (BR)
7 luglio - 6 agosto 2017
 
Visioni notturne in 3D, attività esperienziali, colori e potenza delle immagini. Per cinque fine settimana, dal tramonto alle ore 23, sarà possibile immergersi nel parco archeologico di Egnazia emozionandosi con le ricostruzioni di ambienti del passato. Dibattiti culturali, concerti live, laboratori esperienziali e rievocazioni storiche faranno da cornice a questo grande avvenimento archeologico.
 
COMUNICATO STAMPA
 
Un’esperienza di grande partecipazione emotiva arriva al Parco archeologico di Egnazia, per vivere gli ambienti del passato in modo innovativo. Dal 7 luglio al 6 agosto 2017 l’area archeologica nei pressi di Fasano sarà teatro dell’evento Drawing Egnazia “Lo spettacolo dell’Archeologia”. Attività esperienziali, eventi e un percorso tecnologico e interattivo, legati alla storia del luogo, creeranno un suggestivo mix di sensazioni e conoscenze. Drawing Egnazia ha l’obiettivo di sperimentare un nuovo modello di fruizione integrata e di diffondere moderni strumenti di comunicazione e divulgazione del bene archeologico-monumentale.
Il progetto, ideato dal “S.A.C. - La Via Traiana” e finanziato dalla Regione Puglia, è stato realizzato dal CETMA (Centro di Ricerche Europeo di Tecnologie, Design e Materiali) in collaborazione con il MiBACT - Polo Museale della Puglia e Museo Nazionale e Parco Archeologico di Egnazia “Giuseppe Andreassi” -, con TIME ZONES, con il supporto promozionale di Sistema Museo e l’assistenza tecnica della Profin Service.
 
Per cinque fine settimana, dal venerdì alla domenica, dal tramonto alle ore 23, sarà possibile immergersi in ricostruzioni di ambienti del passato di uno dei più interessanti parchi archeologici della Puglia, situato a pochi chilometri dal mare, in corrispondenza dell’antico asse di collegamento tra Bari e Brindisi. Nelle calde sere d’estate, il parco si trasformerà, inoltre, in un contenitore per attività parallele: dibattiti culturali, concerti live, laboratori esperienziali e rievocazioni storiche faranno da cornice a questo grande avvenimento.
 
Drawing Egnazia trasforma il Parco archeologico in un’installazione video-artistica con soluzioni tecnologiche multimediali e ricostruzioni digitali che richiamano le architetture originali. Sul profilo delle antiche vestigia prenderanno vita visioni notturne in 3D con la tecnologia della realtà aumentata. Le proiezioni murali ricostruiranno i luoghi del passato; una sala interattiva all’interno del Museo mostrerà la ricostruzione della Tomba a Camera “del Melograno”; gli ologrammi, i colori e la potenza delle immagini renderanno la scoperta del parco un’esperienza capace di abbracciare tutti i sensi.
Con Drawing Egnazia le immagini del passato si appropriano dello spazio e del presente. La fusione di antico e moderno diventa la chiave per un processo di diversa fruibilità, rendendo più sentito il rapporto con il sito archeologico, soprattutto da parte del pubblico più giovane.
 
IL PROGRAMMA
 
Gli incontri in programma saranno libere trattazioni aventi come tema il passato. “Non la storia, ma le storie”, voci di ”passati” intensi ed originali come quella dell’archeologa Raffaella Cassano, del filologo Luciano Canfora, dei giornalisti Carlo Freccero e Gianni Minà, dei professori La Rocca e Pierpaolo Martino. Prevista anche la rassegna “Ad Theatrum”, con due giornate di teatro classico dal vivo.
Un ciclo di concerti live diffonderà note di vari generi tra le antiche vestigia. Dalla musica contemporanea del pianista Arturo Stalteri, alla psichedelia sudamericana del gruppo cileno dei Chicos de Nazca, all’unica data europea dei californiani Tuxedomoon; per finire con la musica indiana dell’ensemble indiano Jugalbandi.
L’Associazione Vivarch curerà il ciclo di laboratori di animazione e didattica a tema storico archeologico, con specifico focus sulla realtà di Egnazia. Le attività saranno incentrate sull’esperienzialità, con la realizzazione pratica di manufatti attraverso tecniche e tecnologie del periodo storico analizzato. Sabato 22 luglio è in programma la rievocazione storica con la ricostruzione di un mercato di epoca romana.
 
Il Parco di Egnazia e la Via Traiana, che ad esso conduce, si collocano come porta di accesso ad un sistema ambientale e culturale complesso e di notevole significato, un’importante leva di percorsi di conoscenza. Fondamentale la valorizzazione di questi giacimenti di umanità trascorse per restituire alle tracce del passato una “missione pedagogica”, attraverso nuovi scenari di fruizione. La combinazione di tecnologie del visuale con l’arte contemporanea permette di ricostruire il passato con visioni suggestive ed allo stesso tempo filologicamente rigorose. L’obiettivo generale del progetto consiste nel creare un sistema di fruizione integrato tra i comuni ricadenti nel SAC (Sistemi Ambientali e Culturali) “La via Traiana”, in grado di generare effetti di sviluppo e di valorizzazione sull’intero territorio. Fanno parte di questa rete di valorizzazione i comuni di Brindisi, Carovigno, Ceglie Messapica, Ostuni, Fasano e San Vito dei Normanni, insieme al Parco Naturale Regionale Dune Costiere da Torre Canne a Torre San Leonardo e alla Riserva Naturale dello Stato di Torre Guaceto.

IL SITO ARCHEOLOGICO DI EGNAZIA
 
Inserito in un felice contesto naturalistico-ambientale, è uno dei più interessanti della Puglia. Citata da autori come Plinio, Strabone, Orazio, la città ebbe grande importanza nel mondo antico per la sua posizione geografica; grazie alla presenza del porto e della Via Traiana, infatti, fu attivo centro di traffici e commerci. La storia dell'antica Gnathia si è snodata nell'arco di molti secoli.
Il primo insediamento, costituito da un villaggio di capanne, sorse nel XV secolo a.C. (età del bronzo). Nell'XI secolo a.C. (Età del Ferro) si registra l'invasione di popolazioni provenienti dall'area balcanica, gli Iàpigi, mentre con l'VIII secolo a.C. inizia la fase messapica che per Egnazia, come per tutto il Salento, cesserà con l'occupazione romana avvenuta a partire dal III secolo a.C. La città entrerà, quindi, a far parte prima della repubblica e poi dell'impero romano e decadrà insieme ad esso con un’importante ripresa in età tardo-antica e medievale.
Della fase messapica di Egnazia restano le poderose mura di difesa e le necropoli che presentano monumentali tombe a camera decorate con raffinati affreschi. Della città, scavata solo in parte, si conservano le vestigia risalenti alla fase romana. Notevoli i resti della Via Traiana, della Basilica Civile con l'aula delle Tre Grazie, del Sacello delle divinità orientali, dell'anfiteatro, del foro. Ottimamente conservato il criptoportico. Sono presenti anche due basiliche paleocristiane, originariamente con pavimento a mosaico.
 
 PROMO TICKET 5 euro per ogni singola serata.
 
Informazioni evento
Call center Sistema Museo 0744 422848 (dal lunedì al venerdì 9-17, sabato 9-13) - 080 4140264 – info@laviatraiana.it
www.laviatraiana.it
 
Info per la stampa
Sistema Museo – Sara Stangoni
ufficio stampa@sistemamuseo.it - mobile 334 1046655

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11/7/2017

Modi di dire... del passato

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di Andrea Samueli
Nella lingua italiana troviamo espressioni particolari, mutuate dal latino, che spesso vengono utilizzate senza conoscerne veramente l'origine. Vediamone insieme qualcuna: 
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Alle calende greche (ad kalendas graecas)
L’espressione, riportata da Svetonio e attribuita ad Augusto, indica una data indefinita: le calende sono infatti il primo giorno del mese nel calendario romano, ma non sono presenti in quello greco. Un po’ come il nostro “Lo farò nel duemilamai”.

Una tantum
È una locuzione che significa “una volta soltanto” e non come spesso capita di sentire “una volta ogni tanto”.
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Il dado è tratto (alea iacta est)
Si usa per indicare una decisione irrevocabile. Cesare di ritorno dalle campagne in Gallia (fine del 50 a.C.)  ricevette dal Senato l’ordine di congedare l’esercito e ritornare a Roma da privato cittadino; il generale decise invece di non obbedire e di varcare alla testa dei suoi uomini il fiume Rubicone, limite per legge inviolabile dai generali in armi, dando così inizio alla seconda guerra civile. Nel fare ciò, riporta ancora Svetonio, Cesare avrebbe tentennato, vista la gravità del gesto, per poi convincersi e pronunciare la famosa espressione “Il dado è tratto”.

Lo ha scritto una gallina (gallina scripsit)
Quante volte abbiamo sentito dire: “Scrive come una gallina” per indicare un tipo di grafia non proprio perfetta? L’espressione è di origine romana, del II secolo a.C., ed è attribuibile al commediografo Plauto: nell’opera Pseudolo il protagonista definisce in tal modo la brutta scrittura di una ragazza innamorata.
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Non plus ultra (nec plus ultra)
Il motto trae la sua origine dal mito: lo stesso Ercole infatti, giunto al limite dal mondo, avrebbe posto tale iscrizione sulle colonne d’Ercole (Stretto di Gibilterra) per indicare che nessun mortale sarebbe potuto andare oltre. Nel linguaggio comune va ad indicare il massimo livello raggiunto nell’esecuzione di un lavoro.

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Tabula rasa
Fare “tabula rasa” significa cancellare tutti i dati da un supporto senza lasciarne traccia, sia che esso sia materiale che mentale. L’espressione deriva dal supporto scrittorio adoperato dagli antichi Romani: un tavoletta cerata, incisa per mezzo di uno stile e, una volta riempita di annotazioni, cancellata per poterla riutilizzare raschiando (latino rasa = cancellata, raschiata) la cera stessa.

Immagini tratte da:
Augusto, da Wikipedia Italia, Di Till Niermann - Opera propria, Pubblico dominio, voce “Augusto”
Dado, da Wikipedia Italia, Di Photograph by Rama, Wikimedia Commons, Cc-by-sa-2.0-fr, CC BY-SA 2.0 fr, voce “Alea”
Ercole Farnese, da Wikipedia Italia, Di English: Glycon of Athens (copy), Lysippos (original type) - Marie-Lan Nguyen (2011), CC BY 2.5, voce “Ercole Farnese”
Tavoletta cerata, da www.romanoimpero.com, voce “La scuola romana”

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4/7/2017

Diego Velázquez: il pittore del Barocco spagnolo

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di Olga Caetani
Gli inizi del Seicento in Spagna furono segnati dalla disastrosa eredità lasciata da Filippo II, i cui fallimenti in politica estera condussero il regno sull’orlo del declino economico. Tuttavia, furono anche gli anni di una grande fioritura culturale, segnata dalla pubblicazione del Don Chisciotte di Cervantes e dalla pittura visionaria di El Greco, che aprì la via della modernità agli artisti successivi, tra i quali si configura il maggior pittore del Barocco spagnolo: Velázquez.

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Diego Velázquez, Autoritratto, 1645 circa, Firenze, Uffizi
Diego Rodriguez de Silva y Velázquez esordì giovanissimo con opere appartenenti al genere del bodegón, una pittura di vita quotidiana, di soggetti umili e di natura morta, che in Spagna produsse interessanti interpretazioni del caravaggismo. In un capolavoro come L’acquaiolo di Siviglia, Velázquez dimostrò di aver compreso profondamente l’opera di Caravaggio, nonostante ne avesse conosciuto i testi principali soltanto attraverso le copie degli imitatori. Dall’oscurità del fondo emergono tre personaggi, vicini e al contempo isolati nell’intensità dei propri pensieri. Il venditore d’acqua, noto nelle strade della città natale del pittore, ha il volto rugoso e gli abiti sdruciti, ma si presenta all’osservatore come una figura monumentale e ieratica. Le gocce d’acqua che colano lungo la pancia dell’anfora di terracotta, la lucentezza della brocca smaltata e i giochi di luce che riverberano sulla superficie trasparente del calice di cristallo conferiscono al dipinto un senso di straordinario naturalismo.

L’acquaiolo di Siviglia, 1619-1620, Londra, Wellington Museum; Caravaggio, Incredulità di San Tommaso, 1602-1603, Potsdam, Bildergalerie
Nel 1623, Velázquez giunse a Madrid, dove, con un fiero ritratto equestre di Filippo IV, ottenne la prestigiosa carica di pintor del rey, ossia di pittore ufficiale del re, all’età di appena ventiquattro anni, conservandola fino alla morte, avvenuta nel 1660. Se da un lato gli obblighi legati al gusto della corte madrilena gli impedivano di dare sfogo alla propria inventiva artistica, dall’altro ebbe l’opportunità di studiare le numerose opere di Tiziano presenti nella collezione dei regnanti di Spagna e distribuite tra il Palazzo Reale e l’Escorial. Su sollecitazione di Rubens, che in quel periodo si trovava a Madrid, Velázquez partì alla volta dell’Italia nel 1629, quindi vi tornò vent’anni dopo per un altro e ancor più fecondo viaggio, durante il quale produsse alcune tra le sue opere maggiormente conosciute. É il caso del ritratto vivissimo di papa Innocenzo X Pamphilj, che si pone in eloquente dialogo con i precedenti di Raffaello e di Tiziano.

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Papa Innocenzo X, 1650, Roma, Galleria Doria Pamphilj
Raffaello, Papa Giulio II, 1511, Londra, National Gallery; Tiziano, Papa Paolo III con Alessandro e Ottavio Farnese, 1546, Napoli, Museo di Capodimonte
Verosimilmente fu dipinto a Roma anche l’unico nudo che conosciamo di Velázquez, l’unico dell’intera tradizione spagnola, almeno fino a Goya. In una posizione piuttosto inusuale per un nudo, la conturbante ed erotica figura femminile si identifica come Venere allo specchio soltanto in virtù del particolare delle ali di Cupido.
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Venere allo specchio, 1650, Londra, National Gallery
Rientrato definitivamente a Madrid, nel 1656 Velázquez realizzò il suo dipinto senza dubbio più celebre: Las Meninas. Il titolo fa riferimento alle due damigelle d’onore che accompagnano l’infanta Margherita, situata al centro della composizione. Fanno parte del suo seguito due nani, uno dei quali è impegnato a infastidire il cane dal muso corrugato in primo piano, e alcuni funzionari. La luminosa apertura sulla parete di fondo, da cui si intravede il consigliere José Nieto, dà la misura dell’affondo prospettico della composizione. Poco oltre, uno specchio riflette il soggetto dell’immensa tela di cui vediamo il verso in primissimo piano e che lo stesso Velázquez sta dipingendo: Filippo IV con la consorte Marianna d’Austria, che tuttavia sono esterni alla scena rappresentata, occupando idealmente lo spazio dello spettatore. Autoritratto, ritratto, pittura di storia e di genere si confondono in questo quadro eccezionalmente moderno, fermo immagine di un momento della vita del tempo, nel quale, per una volta, i ruoli dell’artista e di colui che è ritratto sono ribaltati, scompaginando ogni logica e convenzione.

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Las Meninas, 1656, Madrid, Museo del Prado
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  • Pieter Paul Rubens: la rielaborazione barocca dell’eredità italiana  
Immagini tratte da:
  • www.fattoadarte.corriere.it
  • www.frammentiarte.it
  • www.cenacoloitalia.it
  • www.frammentiarte.it
  • wikipedia.it, pubblico dominio, voce: Ritratto di Giulio II
  • wikipedia.it, pubblico dominio, voce: Paolo III con Alessandro e Ottavio Farnese
  • www.frammentiarte.it

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