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30/8/2016

La "Venere" di Morgantina: la sua lunga storia

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di Antonio  Monticolo
Il 17 Marzo 2011, in occasione del 150° anniversario dell’unità d’Italia, venne riportata nella nostra penisola la cosiddetta Venere di Morgantina, statua creata in Sicilia alla fine del V sec.a.C.
Occorre precisare che tale capolavoro è erroneamente chiamato “Venere”, infatti gli studiosi ritengono, oggi, che si tratti di Demetra o Kore. 
Prima di raccontare la sua storia, lunga e ricca di colpi di scena, è doveroso fornire qualche informazione sulla sua genesi. La statua è alta 2,37 m e pesa seicento chili. L’artista che la elaborò, probabilmente un allievo di Fidia, chiamato in Sicilia, utilizzò per il corpo finissima pietra calcarea, mentre per le estremità (mani, testa e piedi) il nobilissimo marmo pario proveniente dall’isola greca. Oggi permangono lungo il corpo piccolissime tracce di colore: rosso, blu e rosa. Il panneggio ben realizzato, anche nella parte posteriore, ha portato gli archeologi a pensare che la statua, in antico, dovesse essere posta su di un piedistallo e visibile a tutto tondo.


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Oggi si può ammirare al Museo Archeologico di Aidone, in provincia di Enna, ma la sua collocazione non è stata sempre questa.
Non sappiamo nulla di certo intorno alla data precisa della sua scoperta, ma si sa che venne trafugata, con scavi clandestini, dal sito di Morgantina (Enna). Nel 1986 la statua compare in Svizzera in possesso di un tale Renzo Canavesi, tabaccaio, pseudo-collezionista e ricettatore. Renzo Canavesi, nel 1988, vendette la statua a un londinese di nome Robin Symes per 400.000 mila dollari. Costui la rivendette al Jean Paul Getty Museum, museo americano situato a Los Angeles, per 10 milioni di dollari.
L’acquisto venne ultimato allorché il Ministero dei Beni Culturali Italiano assicurò che l’opera non era stata trafugata dall’Italia.
La vicenda prese un'altra piega quando, nel mese di Luglio del 1988, Thomas Hoving, ex direttore del Metropolitan Museum di New York, rivelò che era a conoscenza del fatto che l’opera conservata al Getty Museum proveniva dal sito archeologico di Morgantina. Dopo tali rivelazioni, la procura di Enna diede  inizio alle indagini. Dagli ambienti dei tombaroli locali emerse la notizia secondo la quale alla fine degli ’70, con alcuni scavi clandestini, venne trovata presso il sito di Morgantina, un’area sacra da cui erano state trafugate due statue. A questo punto non era impossibile pensare che anche una terza fosse stata trafugata dalla stessa area. Attraverso analisi petrografiche si arrivò alla conclusione che per il corpo della “Venere” era stata utilizzata una pietra propria della Sicilia orientale.
Il Getty prese atto dell’analisi petrografica effettuata, ma si difese sostenendo che Renzo Canavesi l’aveva avuta in eredità dal padre.
Il processo ai danni di Renzo Canavesi si concluse nel 2001 con una condanna a due anni di reclusione e il pagamento di un’ammenda pari a 40 miliardi di vecchie lire.
Nel 2005 il Getty Museum, a causa del processo che stava per iniziare a Roma (processo dovuto ad alcune indagini della procura di Roma sul sistema attraverso il quale i musei americani erano entrati in possesso delle opere antiche) e a causa della pressione dell’opinione pubblica decise di accettare la richiesta di rimpatrio della statua. Nel 2007 il direttore del Getty, Michael Brend, firmò il documento con il quale si sancì la resa dell’opera all’Italia.


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Sitografia:
http://www.regione.sicilia.it/beniculturali/deadimorgantina/lastoria.html
http://www.psicosintesi.it/

Immagini da:
- Wikipedia ita, Sailko, CC BY-SA 3.0, voce: dea di Morgantina
- www.antikitera.net

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23/8/2016

La grande piramide 

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​di Andrea Samueli
Egitto, terra di una delle più antiche e affascinanti civiltà conosciute. Qui, quarantacinque secoli fa, attorno al 2560 a.C., veniva portata a termine la costruzione di una tomba monumentale, un segno tangibile della potenza e dell’autorità del faraone che regnava su queste terre: la grande piramide di Cheope. 
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Voluto dal faraone Khufu (Cheope) come sua dimora per la vita nell’aldilà, questo monumento appare oggi profondamente diverso dal progetto originario: le dimensioni appaiono molto ridotte in conseguenza alle pesanti spoliazioni avvenute nei secoli che privarono la piramide del rivestimento esterno in lastre di calcare perfettamente levigate e della parte sommitale coperta con lamine d’oro. Tale rivestimento venne infatti intaccato inizialmente da un forte terremoto che interessò l’area nel XIV secolo a.C. e successivamente dall’intervento dei sultani che impiegarono il materiale per la costruzione di palazzi e moschee a Il Cairo.
Ciò che stupisce di questa costruzione è la sua mole: una volta terminata doveva raggiungere i 230 metri per lato e superare i 146 metri in altezza, conferendo alla tomba il primato di edificio più alto al mondo che mantenne per i successivi trentotto secoli, fino a quando fu superata nel 1311 dalla cattedrale di Lincoln, in Inghilterra. 
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L’interno, quasi completamente pieno, presenta alcuni cunicoli e tre camere sepolcrali. I cunicoli si articolano in due corridoi principali, uno discendente ed uno ascendente: il primo [3-4] raggiunge, dopo 28 metri risparmiati nei blocchi che compongono la struttura, la base rocciosa della tomba, per poi proseguire intagliato nella roccia stessa per altri 77 metri; gli ultimi nove metri sono in orizzontale e conducono alla prima camera ipogea [5]. Al centro della stanza si trova un pozzo, probabilmente realizzato nel corso delle indagini archeologiche del 1837 da John S. Perring. L’utilizzo di questo ambiente rimane sconosciuto e forse potrebbe trattarsi di un cambio di progetto in corso d’opera in seguito ad una mutata idea del faraone. 
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Il corridoio ascendente [6] a sua volta si divide in due percorsi: il primo [8] conduce alla cosiddetta “camera della regina” [7], un secondo vano posto esattamente al centro della piramide, lungo la verticale, ma anch’esso privo di sepolture; il secondo porta alla “camera del re” trasformandosi però in quella che viene chiamata “Grande Galleria” [9], un corridoio di dimensioni maggiori, alto 8,6 metri e lungo 48,68 metri: il suo utilizzo rimane tutt’oggi oscuro ma le pareti costruite con enormi massi aggettanti in senso verticale di circa 7 cm l’uno rispetto all’altro sono uno straordinario esempio delle capacità architettoniche impiegate.
Al termine della galleria si apre la “camera del re” [10], sormontata da cinque lastre di granito di Aswan poste in orizzontale e due a V rovesciata come scarico per l’enorme peso superiore: depredata già in epoca antica, è la camera sepolcrale del faraone, come riportato dai geroglifici dipinti in rosso sulle pareti.
La "camera della regina"
La Grande Galleria
Ingresso originario alla grande piramide; l'ingresso attuale è frutto di una trapanazione successiva.
Erodoto nelle sue Storie ci racconta che ci vollero vent’anni per la costruzione ed il lavoro di centomila uomini, mentre Diodoro Siculo e Plinio il Vecchio riportano addirittura la cifra di 360mila operai. A prescindere dal numero di operai e dagli anni impiegati la grande piramide rimane un incredibile opera dell’ingegno umano: nonostante le varie teorie formulate, non appare ancora chiaro come furono messi in opera gli enormi blocchi di due tonnellate l’uno che la costituiscono né come riuscirono a completarla in un numero di anni relativamente breve. La monumentale tomba, muto gigante del passato, continua ancora oggi a custodire gelosamente questo segreto.
Immagini tratte da: 
Piramide, da Wikipedia Italia, by Berthold Werner - Opera propria, CC BY-SA 3.0, voce “Piramide di Cheope”
Schema altezze, da Wikipedia inglese, By Cmglee - Own work, CC BY-SA 3.0, voce "Great Pyramid of Giza"
Schema della piramide, da Wikipedia Italia, Di Flanker, CC BY-SA 3.0, voce "Piramide di Cheope"
Camera della regina, da Wikipedia Italia, di MONNIER Franck (monnierfranck@hotmail.com) - Opera propria, CC BY 2.5, voce “Piramide di Cheope"
Grande galleria, da Wikipedia Italia, Di Pprevos da nl, CC BY-SA 3.0, voce “Piramide di Cheope"
Ingresso originario, By Piergiorgio Rossi - produzione propria, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=14163115

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23/8/2016

Mimmo Rotella, “lo Strappamanifesti”, “il Pittore della carta incollata”, l'artista.

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di Alessandro Rugnone
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“Il profumo di Marylin”
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“Europa di notte”
“Non vedevo per quale ragione non si avesse il diritto di utilizzare vecchi biglietti, pezzi di legno fradicio, contromarche di guardaroba, fili di ferro, pezzi di ruote, bottoni, vecchie assi trovate nei cumuli d'immondizia, lavatrici, televisori, poster, cibi in scatola, bevande in lattina, come materiali alti”
Così Kurt Schwitters, personalità poliedrica, sconcertante ed estrosa, sintetizzava, negli anni venti, il suo punto di vista sull'arte. Dal ciarpame inservibile alla paccottiglia da rigattiere, dal materiale di scarto, ai rifiuti, all'immondizia, tutto ha la stessa dignità artistica della tela, della creta, del marmo, o di qualsiasi altro “materiale alto”. La spazzatura, i rottami, i detriti urbani non esprimono significato perché rappresentati, dipinti che siano o lavorati di scalpello o di bulino , ma perché presenti in tutta la loro vissuta fisicità. E' “L'appassionante avventura del REALE colto in sé”, un reale non RAPPRESENTATO ma PRESENTATO, scelto, prelevato e mostrato qual è in tutta la sua sconvolgente, eccezionale normalità. Un nuovo realismo (o nouveau réalisme per dirla con Pierre Restany), nuovo perché (ri)pensato e osservato con occhi totalmente diversi.

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“Compressione di Bicicletta”, 1970
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“Accumulazione di Brocche”, 1968
Tra i giovanissimi artisti firmatari delle otto pagine manoscritte redatte su carta monocroma blu, rosa e su foglia d'oro che compongono il celebre manifesto del 1960 Les Nouveaux Réalistes, i più rappresentativi del processo creativo di prelievo del reale e di riappropriazione del suo genuino significato sono i francesi Pierre Fernandez Armand, Daniel Spoerri, e César Baldaccini. Pierre Fernandez Armand, detto Arman, preleva rottami, lamiere, componenti meccaniche, elementi ferrosi e parti di carrozzeria da discariche e sfasciacarrozze per accumularli a suo gusto negli spazi espositivi a lui dedicati. Daniel Spoerri si interessa invece del vivere quotidiano, in particolare dei residui sporchi e disordinati che l'uomo abbandona sulle tavole dopo aver mangiato, per poi fissarli con colle e posizionarli sulle pareti espositive di prestigiose gallerie come fossero tele. César utilizza presse industriali per comprimere carcasse di automobili e realizzare coloratissime sculture in ferro cromato. Singolare, ma assimilabile alla stessa temperie avanguardista in cui si muovono Restany, Klein e gli altri protagonisti del Nouveau Réalisme, è l'esperienza artistica dell'unico italiano del gruppo, l'artista calabrese Mimmo Rotella.
Artista dalla multiforme personalità e dalle concezioni visive intense e sempre allineate ad un gusto avanguardistico (poco compiaciuto della ricerca commerciale, malgrado i soggetti rappresentati), Mimmo Rotella nasce a Catanzaro il 7 ottobre 1918 e, conseguita la maturità artistica presso l'Accademia di Belle Arti di Napoli, si stabilisce a Roma nel 1945. La prima fase della sua attività è caratterizzata dalla sperimentazione di stili pittorici diversi che lo porterà a rivoluzionare i linguaggi artistici del dopoguerra. Nel 1951 allestisce la prima mostra personale alla Galleria Chiurazzi di Roma, che ottiene ampia risonanza. Il suo nome comincia dunque a suscitare notevole interesse tanto che nello stesso anno gli viene assegnata una borsa di studio dalla Fulbright Foundation. Può così permettersi di frequentare la prestigiosa Università di Kansas City, un traguardo lontano per un ragazzo cresciuto nel meridione italiano più profondo. Rotella ricambia l'istituzione con la realizzazione di un pannello murale nella Facoltà di Fisica e con la prima registrazione dei poemi fonetici da lui definiti "epistaltici".
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“La tigre”
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“Le cachet”
Nel 1952 è invitato dalla Harvard University per una performance di poesia fonetica a Boston e dalla Library of Congress di Washington per la registrazione di alcuni poemi fonetici. Tornato in Italia, dopo una fase di riflessione sui mezzi della pittura e sulla necessità di utilizzare nuovi strumenti, inventa la tecnica del décollage, caratterizzata dallo strappo di manifesti pubblicitari affissi nelle strade i cui frammenti, siano essi il recto o il verso, sono incollati sulla tela secondo regole compositive analoghe a quella degli affichistes (o cartellonisti) francesi come Raymond Hains. Esempi memorabili di questa fase sono "Un poco in su" e "Collage", entrambi del 1954. Dal 1958 abbandona gradualmente le composizioni puramente astratte per realizzare décollage con immagini chiaramente leggibili. Questa tendenza culmina nella serie "Cinecittà", realizzata nel 1962 (che comprende "Eroi in galera" e "Tre minuti di tempo") e in quella dedicata alle stelle del cinema e a personaggi famosi ("Assalto della notte", 1962; "Marylin calda", 1963). Sono degli anni '60 e seguenti i lavori dedicati alle affiches del cinema mondiale con i volti dei grandi miti di Hollywood. Nel 1961 aderisce, su invito del critico Pierre Restany, al gruppo dei Nouveaux Réalistes, nel cui ambito già Raymond Hains, Jacques Mahé de la Villeglé, François Dufrêne utilizzavano i manifesti pubblicitari con procedimenti analoghi a suoi. Trasferitosi a Parigi nel 1964 lavora ancora sulla definizione di una nuova tecnica, la Mec Art, con cui realizza opere servendosi di procedimenti meccanici su tele emulsionate. I primi lavori di questo genere sono esposti alla Galleria J di Parigi nel 1965. Continua la sperimentazione con la serie degli Artypo, prove di stampa tipografiche scelte e incollate liberamente sulla tela. Gli anni '70 sono segnati da frequenti viaggi in USA, India, Nepal, per stabilirsi definitivamente a Milano nel 1980. Appartengono agli inizi degli anni '80 le "Coperture", manifesti pubblicitari ricoperti da fogli che occultano l'immagine sottostante, presentati allo Studio Marconi di Milano ed alla Galleria Denis René di Parigi. Torna alla pittura alla metà del decennio con il ciclo "Cinecittà 2" in cui riprende il tema del cinema affrontato in tele di grandi dimensioni e con la serie "Sovrapitture" su décollage e su lamiera: questi interventi pittorici su manifesti lacerati e incollati su pannelli metallici caratterizzano la stagione più recente dell'artista che morirà a Milano nel gennaio del 2006. Pierre Restany riconoscerà a Rotella i meriti di una ricerca artistica originalissima che oltre a contribuire alla fama di un movimento epocale come i Nouveaux Réalistes, sarà un vero e proprio banco di prova per tutta una generazione di giovani artisti che non potranno prescindere dalla sua straordinaria lezione: “Mimmo è stato un nouveau réaliste ante litteram a Roma negli anni Cinquanta, pre-pop a Parigi negli anni Sessanta, graffitaro e graffitista a Milano negli anni in cui lo era Basquiat a New York. Oggi come oggi Mimmo Rotella è l'uomo del momento: ecco la storia di una perenne modernità”. Lo strappamanifesti, il pittore di carta incollata (come ebbe a denigrarlo certa critica ottusa e provincialista) ha preso un pezzo di città, Roma, le sue borgate, la sua periferia, ce lo ha messo davanti agli occhi e ha posto sullo stesso piano il passato (i vecchi strati di immagini) e il presente (il velo nuovo che in parte strappa), in una sovrapposizione di dimensioni, di esperienze e di spazi dal fascino unico e straordinario. I suoi manifesti sono colorati e assillanti come la pubblicità, ma fragili come la carta di cui essa stessa è fatta.
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“Divertitevi a dare”
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“Rexona”
Immagini tratte da:

1 www.museomaco.it
2,5,6,7,8, www.ilpost.it
3 www.pinterest.com
4 www.nouveaurealisme.weebly.com

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16/8/2016

Khaled al-Asaad: un esempio per tutti

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di Antonio Monticolo

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Era il 18 Agosto 2015 quando un gruppo di militanti del Daesh decapitò il dottore Khaled al-Asaad, archeologo e direttore del sito di Palmira in Siria. Questo articolo non sarà un panegirico della sua brillante carriera, ma piuttosto il ricordo di un uomo che conosceva l’importanza morale e il valore educativo delle meraviglie che il passato ci ha lasciato in eredità. Proprio per questa consapevolezza ha deciso di perdere la sua vita celando le statue che i militanti cercavano. Le ha difese come se fossero le cose più preziose che aveva a cuore.
I suoi assassini lo hanno trovato nel suo studio, una piccolissima stanza molto simile ad uno sgabuzzino, intento a sfogliare libri, vere e proprie antologie di bellezze, ormai conosciuti a memoria.
Alcuni si saranno chiesti se questo sacrificio poteva essere evitato, fornendo ai suoi carnefici le indicazioni sull’ubicazione dei capolavori di Palmira. La domanda non può e non deve essere questa. Credo che occorra partire da un altro punto di vista. Cioè cercare di capire perché, pur avendo la possibilità di salvarsi, ha deciso di morire.

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Khaled al-Asaad ha dedicato la sua vita al sito siriano, basti pensare che, nonostante fosse in pensione e nonostante avesse avuto numerosi riconoscimenti internazionali (Ordine nazionale al merito della Repubblica Francese, Ordine al merito della Repubblica di Polonia, Ordine al merito della Repubblica di Tunisia) ha continuato a preservarne gli splendori.
La risposta va ricercata nell’ importanza che i cosiddetti beni culturali racchiudono. Nelle righe precedenti, sono stati usati i termini “morale” ed “educativo” riferiti ai capolavori che le popolazioni antiche ci hanno lasciato.
Le due parole non si distaccano molto perché sono l’una la conseguenza dell’altra. La funzione educativa che i capolavori antichi (nella categoria capolavori rientrano i siti, le opere d’arte e gli  oggetti d’uso quotidiano) emanano permette all’umanità di comprendere il presente che la circonda e di discernere ciò che bene e ciò che è male creando una coscienza critica.

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Riportare alla luce i “miarabilia” delle società antiche, studiare le opere d’arte, capire il passato e tutelare il patrimonio storico-artistico non sono operazioni fini a se stesse, ma rappresentano la condizione senza la quale non si potrebbe tramandare alle generazioni future la possibilità di capire il mondo prevenendo ad esempio proprio la barbarie che sta avvenendo da diverso tempo in medio oriente.
Khaled al-Asaad  ha deciso di donare la propria vita per i valori celati dietro quelle opere che volgarmente vengono chiamate “pietre” e “cocci”.  Ha perso la vita per difendere l’umanità tutelando quei tesori come se fossero i propri figli. Il suo ultimo desiderio, prima di essere decapitato, è stato quello di visitare un’ ultima volta il museo che con tata cura e zelo aveva guidato.
Dopo la sua morte è stato decretato "martire della scienza" dai Filomati (associazione culturale che promuove la ricerca, l’arte e l’impegno sociale).

 

Immagini tratte da:  
- www.45enord.ca
- www.panorama.it
- www.thetimes.co.uk



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16/8/2016

Camille Claudel: l'amore tormentato per Rodin

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di Ilaria Ceragioli
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A Fère-en-Tardenois, un piccolo paese nel nord della Francia, nacque una delle figure più interessanti e malinconiche del panorama artistico di fine Ottocento: la scultrice Camille Claudel. Un’artista che, come vedremo, sarà vittima della sua fragilità di fronte al dolore provocato dalla fine di un amore burrascoso. Di fatto, la sua fama è ancora oggi legata all’avvolgente relazione amorosa che nutrì verso un celebre scultore del suo tempo: Auguste Rodin.
Il primo incontro con Rodin avvenne nel 1883 quando il maestro Alfred Boucher gli affidò Camille Claudel.


La scultrice ricevette da Rodin un trattamento speciale e quella che inizialmente sembrò una semplice allieva e modella, ben presto, divenne sua amante.
Lo scultore francese, infatti, aveva già una fedelissima compagna accanto a sé: Rose Beuret. Con lei ebbe anche un figlio che portava lo stesso nome del padre, ma un cognome differente, in quanto lo scultore si oppose al riconoscimento legale della paternità. Dunque, parallelamente alla relazione con Rose Beuret possiamo collocare l’amore per l’allieva Camille Claudel. All’epoca la scultrice aveva diciannove anni, mentre Rodin aveva già un quarantina d’anni. Il loro rapporto, inevitabilmente, conobbe due fasi principali: un inizio spensierato e gioioso, poi, una drastica conclusione. Per capire a pieno le fasi del loro amore sarà efficace fare riferimento ad alcuni tra i più celebri capolavori della scultrice francese.
In una prima fase il rapporto tra Rodin e la scultrice, seppur celato per evitare scandali, non incontrò particolari complicazioni. Proprio nei lieti anni del legame sentimentale col maestro, Camille Claudel scolpirà Sakountala, opera dal forte carattere autobiografico.


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Di essa realizzerà schizzi in terracotta (1886), una versione in marmo (1888) e, successivamente, altre in bronzo (1905). La scultura propone una leggenda del V secolo legata alla tradizione indù che ha come protagonista una fanciulla, di nome Sakuntala, che si innamorò perdutamente del Re Duchmanta. Camille Claudel decise di scolpire il momento della ricongiunzione tra i due amati, avvenuta dopo diversi anni trascorsi l’uno lontano dall’altra. La scultrice, dunque, raffigurò un momento commuovente e carico di passione, proprio come quello che lei stessa stava vivendo col maestro Rodin. Si osserva così una figura femminile che alla vista dell’amato perde i sensi e viene amorevolmente sorretta dall’uomo inginocchiato dinanzi a lei. A conferire maggiore dolcezza all’opera è il bacio che, teneramente, la figura maschile dà sulla fronte della ragazza, quasi a rassicurarla come farebbe un genitore verso il proprio figlio.


Con lo scorrere del tempo, però, Camille Claudel cominciò a manifestare un eccesso di possessività e paure nei confronti di Auguste Rodin. La scultrice non sopportava e accettava che il suo amore per il maestro fosse ancora nascosto e conteso con un’altra donna. Dopo una breve separazione, nel 1898, Auguste Rodin giunse ad un’inaspettata e definitiva decisone. Il maestro pose fine all’amore per l’affascinante scultrice e decise di rimanere accanto alla compagna Rose Beuret per il resto della sua vita. La sofferta rottura con Rodin, di fatto, sarà il tema dell’ultima opera più esplicitamente autobiografica e nota di Camille Claudel: l’Âgemûr (1905).

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Si tratta di un gruppo scultoreo in bronzo costituito da tre figure. Rose Beuret a sinistra, Auguste Rodin al centro e Camille Claudel a destra. Rose Beuret, nei panni di un’anziana munita di mantello e dai tratti grotteschi e mostruosi, con estrema forza conduce verso di sé lo scultore, il quale avanza con evidente difficoltà e con lo sguardo rivolto verso il basso. Il maestro seppur giunto ad una sentenza decisiva, infatti, non sembra ancora pienamente convinto. Camille Claudel, inginocchiata ed incredula, protende dolcemente le braccia verso Rodin, ma quelle mani che un tempo si congiungevano, adesso sono distanti e non riescono più a raggiungersi. Il tramonto del loro amore è ormai giunto al termine.
Occorre dire che, con tutta probabilità, quella del maestro francese fu una scelta dettata da ragioni sociali, non sentimentali. Auguste Rodin avrebbe voluto rimanere accanto alla tanto amata scultrice, ma non volle rischiare di compromettere la propria immagine e la propria fortunata carriera artistica per una relazione che la società del tempo non avrebbe tollerato.
Il disgraziato destino di Camille Claudel la portò così a rimanere sola per il resto della sua vita. Abbandonata, incompresa e con frequenti segni di squilibrio mentale e di manie di persecuzione, di lì a poco, smetterà definitivamente di scolpire e morirà nella più completa solitudine tra le mura di un manicomio.



Immagini tratte da:
- wikipedia ita, dominio pubblico, voce: Camille Claudel
- oltreluna.women.it
- www.musee-rodin.fr
- www.musee-rodin.fr particolare
- restaurars.altervista.org
- www.ladepeche.fr

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9/8/2016

I Giardini Pensili di Babilonia

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​di Andrea Samueli
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Al suo palazzo egli fece ammassare pietre su pietre, fino ad ottenere l'aspetto di vere montagne, e vi piantò ogni genere di alberi, allestendo il cosiddetto «paradiso pensile» perché sua moglie, originaria della Media, ne aveva grande desiderio, essendo tale l'usanza della sua patria.
Così Giuseppe Flavio ci introduce la prima delle sette meraviglie del mondo antico, gli incredibili giardini pensili di Babilonia: un’area lussureggiante e ricca di alberi in mezzo al deserto. Stando alle sue parole vennero realizzati da Nebuchadrezzar II (VII-VI sec. a.C.) come dono per la sposa Amytis, colta da nostalgia per la sua verde terra natia.
Secondo altri autori antichi sarebbero invece frutto dell’inventiva della mitica regina Semiramide, identificata con la regina assira Shammuramat (IX sec. a.C.).

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​La descrizione più accurata di tale costruzione ci arriva da Diodoro Siculo il quale parla di strutture terrazzate in mattoni cotti, dotate di grandi vasche impermeabilizzate mediante l’uso di bitume e piombo, sorrette da una serie di arcate di altezza crescente.
Il giardino, di forma quadrata e con lato di 32 metri, sarebbe dunque assimilabile alle ben note ziqqurat, le costruzioni a gradoni tipiche dell’area mediorientale. Alcuni studiosi non accettano però tale interpretazione, preferendo immaginare i giardini addossati alle mura della città, accanto alla porta di Ishtar. 
L’impresa più ardua deve essere state la realizzazione di un impianto di irrigazione continua tale da portare l’acqua del fiume Eufrate sino alla sommità dei giardini: probabilmente vennero utilizzate grandi ruote idrauliche, simili alle norie ancora oggi impiegate in alcune zone della regione.


Norie, le ruote idrauliche ancora oggi impiegate
Ipotesi ricostruttiva dei giardini
Ipotesi ricostruttiva con la struttura a gradoni
Una teoria interessante è quella proposta dalla studiosa Stephanie Dalley, la quale ha ipotizzato la collocazione della prima meraviglia nella città assira di Ninive, attribuendone la costruzione al re Sennacherib (VIII-VII secolo a.C.). Lo stesso re, infatti, nelle iscrizioni che lo riguardano, ricorda di aver portato l’acqua sino alla città riuscendo così ad irrigare bellissimi giardini. A ciò si aggiungono una serie di disegni realizzati da Austen Henry Layard nel corso dell’800 che riproducono bassorilievi provenienti da Ninive nei quali compare il sistema di irrigazione citato poco fa. 
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La reale collocazione dei giardini rimane tutt’oggi dubbia e di questa effimera meraviglia non resta altro che il ricordo nei testi degli autori antichi.
Posizione di Ninive e Babilonia
Bassorilievo riprodotto da Layard
Immagini tratte da:
Disegno giardini con statue leonine, da telegraph.co.uk
Giardini pensili, da Wikipedia inglese, Di Maarten van Heemskerck - http://www.plinia.net/wonders/gardens/hgpix1.html, Pubblico dominio, voce “Hanging Garden of Babylon”
Noria, da Wikipedia italiana,  Di Heretiq - Opera propria, CC BY-SA 3.0, voce “noria”
Disegno in b/n, da Wikipedia inglese, Pubblico dominio, voce “Hanging Garden of Babylon”
Giardini pensili, da history.com
Copia bassorilievo Layard, da Wikipedia inglese, Public Domain, voce “Hanging Garden of Babylon”

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9/8/2016

Il confine labile tra autolesionismo e body art: l'esempio di Christopher Burden

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​di Alessandro Rugnone
Trans-Fixed, 1974
Shoot!, 1971
“[...] Ho come l'impressione che farsi sparare addosso sia un fenomeno tipicamente americano, al pari della torta di mele, della Coca Cola o del tacchino del Ringraziamento. Ci si spara addosso quotidianamente in America, lo vediamo in TV, lo si legge sui giornali. […] Beh, anch'io l'ho voluto provare”. (Shoot!, 1971)
Christopher Lee Burden, nato a Boston, Massachusetts, l'11 Aprile del 1946, lega la sua notorietà d'artista a una serie di performance o azioni estreme che segnano un'acme all'interno della storia della Body Art. 
FotoFive Days Locker Piece, 1971
Studente alla University of Carolina di Irvine, nel 1971, Burden presenta come progetto di tesi di laurea la performance Five Days Locker Piece dove si fa rinchiudere in uno degli armadietti metallici dell'istituto e trascorre cinque giorni e cinque notti in questo spazio angusto e claustrofobico avendo a disposizione solo un contenitore d'acqua per bere e uno per urinare. Il corpo è nascosto, recluso, e sottoposto a un'immobilità forzata e innaturale. L'azione non ha pubblico, o meglio, l'audience è rappresentata dagli studenti dell'Università che durante la frequentazione quotidiana si avvicinano all'armadietto per recare un po' di sollievo all'artista recluso. Le performance dei body artist, per loro natura transitorie, mutevoli e precarie, spesso irripetibili, palesano l'urgenza d'essere fermate, catturate, registrate in un'immagine, in un filmato, in una traccia che ne documenti l'avvenuta realizzazione e che le trasformi in oggetti d'arte, da esporre e inserire nel circuito del mercato. Five Days Locker Piece venne di fatto “oggettualizzata”, fotografata e venduta come pezzo d'arte, come merce.

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Shoot!, 1971
In Shoot! (1971) la componente d'autolesionismo che sin dall'esordio informa il percorso dell'artista statunitense diviene via via più estrema, eccessiva, esasperata e disturbante, si radicalizza a tal punto da mettere a serio rischio l'incolumità del performer e del pubblico.
“Era per me un'esperienza mentale, vedere come reagivo mentalmente” – ha spiegato in un'intervista del 1979 - “era sapere che alle sette e mezza sarei andato a fare un'azione in cui qualcuno mi avrebbe sparato addosso”.
Burden pianifica il proprio ferimento. Convince un amico a imbracciare un fucile calibro ventidue e dalla distanza di circa cinque metri si fa sparare addosso. L'atto si compie in una sala della galleria F-Space di Santa Ana, California, di fronte a un pubblico che assiste alla scena inerte, senza intervenire. Il proiettile avrebbe dovuto colpire solamente di striscio il braccio dell'artista ma l'improvvisato tiratore finisce per centrare in pieno l'arto del compagno trapassandolo da parte a parte. Il proiettile non raggiunge il cuore per un soffio.
In Deadman del 1972 si chiude in un sacco di tela e si stende nel mezzo di una strada trafficata di Los Angeles, rischiando di essere investito e di provocare incidenti. L'azione si conclude con l'arrivo della polizia e con l'arresto dell'artista.
La performance dal titolo Through the Night Softly del 1973 vede l'artista statunitense scivolare nudo su di un piano cosparso di chiudi, lamette, cocci di vetro e altro materiale tagliente. 
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Trans-Fixed, 1974
Del 1974 è la sua Trans-Fixed in cui si fa crocifiggere sul cofano di un maggiolone, piedi e mani trafitti da chiodi. Il motore viene spinto fuori giri per simulare le urla di dolore di questo Cristo postmoderno.
Doomed ebbe luogo tra le sale del Museum of Contemporary Art di Chicago, nel 1975.L'artista giace steso sul pavimento di una delle sale del museo sotto una teca in vetro di 5x3m, sopra di lui un orologio digitale scandisce la durata della performance. In Doomed l'artista pone in un certo qual modo la sua vita nelle mani degli astanti o dello staff del museo avendo pianificato di restare dentro la teca fino a quando qualcuno non avesse smosso l'inerzia dell'azione, interferendo con una delle tre componenti, il vetro, l'orologio o il performer. Dopo 45 ore dall'inizio della performance un membro dello staff del museo, preoccupato per l'integrità fisica dell'artista, gli avvicina un bicchiere d'acqua. Burden si alza, spezza l'orologio, ed esce dal museo.
Le performance di Burden ci mostrano il dolore in tutta la sua crudezza, nudo, palpitante, pulsante, senza filtri, o mediazioni. Ci sconcertano, ci stravolgono, ci scuotono, ci rendono drammaticamente accessibile e fruibile quel carico di sofferenza viva di cui non percepiamo che la flebile eco, distrattamente, dallo schermo piatto della nostra TV in salotto o dallo stereo della nostra utilitaria. E attraverso la sofferenza Burden ci offre occasione di catarsi, di purificazione. Perché solo dialogando con la morte possiamo trovare la nostra rinascita.
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Doomed, 1975
Immagini tratte da:
www.arttribune.com

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2/8/2016

Dal Christus Triumphans al Christus Patiens: un passaggio capitale per l'evoluzione dell'arte occidentale

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di Ilaria Ceragioli
Nel pieno dell’ Epoca Medievale si diffuse un’iconografia dalla forte valenza religiosa e simbolica, ossia quella della Crocifissione di Cristo. Venne così prodotta una grande quantità di croci dipinte che proponevano il tema in questione. Tuttavia, è fondamentale distinguere due tipi di modalità che vennero adoperate a tale scopo e che mostrano notevoli differenze dal punto di vista compositivo e tecnico. La prima modalità si incentrava sulla raffigurazione di un Christus Triumphans (Cristo Trionfante), la seconda, invece, presentava un Christus Patiens (Cristo Sofferente).
Ma quali sono le loro differenze? Osserviamole e scopriamole insieme!                           
Prima di tutto, occorre precisare che i due tipi di opere messi a confronto appartengono ad artisti differenti e che l’arco temporale che li separa è di circa 200 anni. Dunque, vedremo che l’iconografia del Christus Triumphans (di derivazione bizantina) con lo scorrere del tempo assumerà connotati diversi e si evolverà in quella successiva del Christus Patiens. Ciò segnerà l’introduzione della manifestazione dei sentimenti nell’arte occidentale.

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La croce dipinta risalente al 1138 è stata realizzata dal Maestro Guglielmo e la si può ammirare ancora oggi all’interno del Duomo di Sarzana nella provincia di La Spezia (Liguria). Si tratta di una tavola in legno a forma di croce che vede l’utilizzo della tempera ed è costituita da tabelloni laterali rappresentanti scene che rimandano al tema della Passione di Cristo. Come di consuetudine, sono presenti anche le figure di Maria e di San Giovanni Evangelista. Il soggetto, come già anticipa il nome, è un Cristo in atteggiamento “trionfante”. Il volto, infatti, è posto frontalmente rispetto allo spettatore e gli occhi spalancati non lasciano trasparire emozione alcuna. Il corpo,trionfalmente ben eretto, è sostenuto da 4 chiodi, uno per ogni mano e piede, dai quali è evidente la fuoriuscita del sangue. Nel complesso, dunque, domina una austera ieraticità che non lascia spazio a nessuna manifestazione emotiva. La sensazione suscitata conferisce così impassibilità e imperturbabilità.
Grazie ai contatti avvenuti con la cultura bizantina nell’arte occidentale l’immagine del Cristo “trionfante”lascerà il posto alla piena manifestazione dei sentimenti, dunque, alla rappresentazione di un Christus Patiens.


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A questo proposito esemplare è il celebre Crocifisso di Giunta Pisano. L’opera compiuta intorno agli anni 1250-1254 è custodita nella Chiesa di San Domenico a Bologna. La caratteristica più interessante è data dalla raffigurazione di un Cristo malinconico che mostra i segni della sofferenza ed è privo di vita. In Giunta Pisano, dunque, si ha un esplicito rifiuto nei confronti della bizantineggiante posizione trionfante del Cristo. Da questo momento ogni dettaglio è indubbiamente mirato ad enfatizzarne l’espressione. Il capo, chinato verso il basso, non è più posto frontalmente e gli occhi sono serrati. Anche la bocca, a sua volta, presenta una curvatura verso il basso. Gli arti inferiori, invece, si piegano leggermente. Il corpo è sbilanciato verso sinistra e assume così pose più realistiche. Inoltre, l’artista non inserisce ai fianchi di Cristo i tabelloni con le storie della Passione, ma pone nei bracci laterali le figure di Maria e di San Giovanni Evangelista.
Si evince che già con Giunta Pisano (poi con Giotto e Cimabue) si giunge all’immagine di un Cristo chiaramente segnato dal patimento e dal dolore. Cristo subisce così un graduale processo di umanizzazione. Tutto ciò contribuirà a generare maggiore coinvolgimento emotivo e turbamento in chi lo ammira.
Dunque, la figura inanimata e impassibile di Cristo, da questo momento, si fa reale.


Immagini tratte da:

- Crocifisso Maestro Guglielmo, la porzione.it
- Particolare del crocifisso del Maestro Gugliemo, www.cattedraledisarzana.it
- Cricifisso Giunta Pisano, wikipedia ita., pubblico dominio. Voce: Giunta Pisano
- Particolare del crocifisso di Giunta Pisano, wikipedia ita., pubblico dominio. Voce: Giunta Pisano

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1/8/2016

La Villa del Casale di Piazza Armerina

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di Antonio Monticolo

A Piazza Armerina, in Sicilia, sorge una delle ville romane più grandi mai costruite: la Villa del Casale. La villa si data al IV sec. a.C. ca. e sorge al di sopra di una più antica e piccola fattoria di età precedente. È costituita da numerosissimi ambienti: cortile e peristilio, terme, basilica e altri vani destinati al proprietario e alla sua consorte. In tutto la villa misura 3500 m2.

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Oltre alla maestosità dei vani e dell’edificio in sé, ciò che colpisce e affascina è la ricchezza dei mosaici che adornano i vani della villa.
Si accedeva da un ingresso con un arco a tre fornici e da lì, salendo dei gradini, si entrava in un atrio il cui pavimento era decorato con un mosaico che rappresentava l’adventus (l’arrivo in villa del proprietario). È costruito su due registri (o piani); nel registro superiore un uomo con corona di foglie lanceolate tiene in mano un candelabro ed è affianco da due giovani che hanno in mano dei ramoscelli e sembrano aspettare l’arrivo di qualcuno, mentre in quello inferiore alcuni giovani recitano o cantano.


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Oltrepassato il vestibolo, si entra nella corte circondata tutta intorno da un colonnato e adornata al centro da un fontana. I corridoi sono arricchiti di mosaici con ghirlande d’alloro e protomi di animali.

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Dai corridoi dei lati lunghi del cortile si può accedere a due sale da soggiorno: una a nord e una a sud. La sala a nord è ornata dal mosaico della “piccola caccia”, mentre nel vano a sud vi è il mosaico che rappresenta Orfeo che incanta gli animali con le sua musica. Nel mosaico della piccola caccia compaiono diverse scene suddivise in quattro piani: oltre alle scene di caccia, si possono osservare un sacrificio in onore della dea Diana e il banchetto del proprietario e dei suoi amici (si vedono gli uccelli, appena cacciati, arrostire su di un braciere).
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Dalla stanza di Orfeo si accede ad un vano ovoidale con peristilio che porta ad una stanza con tre absidi. Sul pavimento centrale il mosaico raffigurava le fatiche di Ercole, mentre nelle tre absidi erano rappresentati: il mito di Licurgo e Ambrosia (che si trasformerà in vite), Ercole contro i Giganti e l’apoteosi (l’ascensione agli dèi) di Ercole. Anche gli spazi che univano la parte centrale della sala  con gli absidi erano decorati con scene mitologiche: Dafne che si trasforma in alloro, Ciparisso in albero ed Esione o Andromeda ed Endimione in stelle.
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Accanto alla sala con il mosaico di Orfeo, vi è un altro vano decorato con un mosaico raffigurante  ragazze impegnate in agoni. Le fanciulle intente in queste gare indossano una sorta di bikini secondo la moda del IV secolo.
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Alla fine del peristilio s’incontra un corridoio trasversale lungo 60 metri. Questo è adornato con il mosaico della “grande caccia”. Qui viene rappresentata la cattura degli animali in tutto il mondo allora conosciuto e delimitato, nelle due absidi del corridoio, da due figure femminili che rappresentano la Mauretania (Marocco) e l’India. Il mondo è percorso da funzionari dell’impero che viaggiano per catturare e trasportare gli animali per i giochi. Si possono notare scene in cui si vedono lotte fra il cacciatore e la fiera oppure il trasporto su carri o su navi delle bestie catturate. Fra gli animali catturati vi sono un leone, un bisonte, un’antilope, un elefante, uccelli e tante altre specie di animali.
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Dal corridoio si accede alla cosiddetta basilica decorata con marmi e ornata di statue. Era in questo ambiente che il padrone svolgeva le sue funzioni pubbliche. Ai suoi fianchi vi erano alcuni ambienti probabilmente destinati alla domina e al dominus.
Infine sempre dal cortile centrale con peristilio si arriva al complesso termale con un vano adibito probabilmente a spogliatoio, poi attraverso un corridoio si accede al frigidarium (per i bagni freddi), e da qui al tepidarium e al calidarium. Il corridoio è decorato da un mosaico che raffigura una corsa di quadrighe al circo Massimo.  


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Ancora oggi persistono dei forti dubbi su chi fosse il proprietario di questa immensa villa. Sono state fatte numerosissime ipotesi, ma sicuramente le più suggestive rimangono quelle che indicano come padrone un imperatore: Massimiano (285-305), Massenzio (305-312). Oggi si pensa che il proprietario possa essere stato Lucio Aradio Valerio Proculo Populonio, governatore della Sicilia (327 e il 331) e console (340).
Anche se per il momento non vi sono certezze, ciò che si può affermare con sicurezza è che il proprietario doveva essere una persona di elevato rango sociale che svolgeva funzioni importantissime. 

 
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Immagini tartte da:

- www.noicomit.it
-
lisolafelice.forumcommunity.net
- httpwww.kiamarsi.itvilla-del-casale-piazza-armerina
- www.villaromanadelcasale.org
- www.localidautore.it
- www.vesuviolive.it
- innerspaceinteriordesign.com
- www.tripadvisor.it
- www.italia.it
- wikipedia italia, Almare, CC BY-SA 3.0. Voce: Villa del Casale


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