Fra i più importanti vasi dell'antichità vi è sicuramente il vaso Portland. È un'anfora di vetro a cammeo tra le più alte espressioni dell'artigianato di età augustea. Si tratta di un vetro a più strati di colore contrastante lavorato secondo la tecnica della glittica, cioè asportando lo strato superiore per creare raffigurazioni che risaltavano sul fondo scuro. Il vaso deve il suo nome ai Duchi Portland che si annoverano fra i vari proprietari di questo capolavoro. Su uno sfondo di quattro alberi sono rappresentate due scene.
Nella prima scena (lato A) compare, al di sotto di una struttura architettonica, un giovane che incede e tende il braccio ad una figura femminile seduta su una roccia che a suo volta gli afferra il braccio mentre un serpente si avvolge intorno all'altro braccio. Al di sopra svolazza un erote con arco e torcia e di seguito compare un uomo barbato che osserva tutta la scena pensoso con mano al mento e gamba destra piegata posta al di sopra di un masso. Sull'altro lato (B) compare un giovane seduto con lo sguardo verso una donna anch'ella seduta che ha un braccio sulla testa e nell'altra mano un torcia accesa verso il basso che si volta a guardare una figura femminile seduta su un piano roccioso con un'asta nella mano sinistra.
Le diverse figure, e di conseguenza anche le scene, sono da tempo oggetto di interpretazione, basti sapere che fino al 2004 vi erano ben quarantasette tesi interpretative. I filoni esegetici seguono due linee ben precise: una storico-allegorica e l'altra mitica.
Secondo la prima, il giovane sarebbe Augusto che avanza verso la madre Azia, il serpente dovrebbe rappresentare Apollo, il padre mitico di Augusto e l'uomo pensoso invece Nettuno, divinità cara ad Augusto dalla battaglia di Azio del 31 a.C. allorché sconfisse Antonio e Cleopatra. Nella scena successiva invece sarebbe rappresentata la fine di Troia, collegata a Roma perché i discendenti di Enea, fuggiasco da Troia, fonderanno Roma. La figura femminile seduta al centro sarebbe Ecuba che si tormenta per la scelta del figlio Paride rappresentato nella figura di quel giovane seduto sul piano roccioso. Secondo l'interpretazione mitica, la vicenda raffigurerebbe le nozze di Peleo e Teti, i genitori di Achille. Peleo avanza e stringe la mano a Teti seduta e a osservare la scena sarebbe Oceano, il nonno di Teti oppure il padre, Nereo. Dall'altra parte invece ci sarebbe la madre o la nonna di Teti seduta al centro affiancata da Mercurio (il giovane seduto) e Venere che assistono alle nozze. Questa interpretazione si basa sostanzialmente sull'identificazione del serpente come essere marino.
Immagini tratte da:
Wikiepdia, Jastrow, CC BY 2.5, voce: Vaso Portland
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Il pittore francese Edgar Degas ci racconta la vita nella Parigi del XIX secolo. Una vita fatta di cafè, di ippodromi, di musica e di balletti all'Opéra. La maggior parte delle opere dell’artista possono essere attribuite al movimento dell’ Impressionismo. In realtà Degas, nei suoi dipinti, tende a discostarsene, servendosi di tecniche sperimentali e di procedimenti fotografici.
«Mi chiamano il pittore delle ballerine», disse una volta Edgar Degas al gallerista Ambroise Vollard. «Non capiscono che per me la ballerina è un pretesto per rappresentare il movimento».
A differenza dei suoi colleghi impressionisti, intenti a rappresentare la luce e l’atmosfera, Degas vuole immortalare la vitalità dei corpi in movimento. Per fare questo affronta molti temi. La danza, gli ippodromi, i ritratti dei soggetti della vita quotidiana parigina, così naturali da non sembrare in posa. Inoltre, l’artista non dipinge en plein air, crea delle bozze e poi le rielabora nel suo studio e, soprattutto, non raffigura la natura, bensì spazi chiusi, così da suscitare riflessioni psicologiche ed esistenziali. I colori utilizzati da Degas sono aridi e dissonanti perché nessun particolare deve spiccare rispetto ad altri; lo sguardo dello spettatore deve muoversi nel quadro rispettando il dinamismo tipico delle sue opere. Egli usa spesso i pastelli per tradurre subito in colore il gesto veloce del disegno. L’ausilio preferito da Degas per le sue opere è senza dubbio la fotografia, una delle innovazioni tecnologiche dell'Ottocento che più profondamente ha condizionato l’arte di quegli anni. L’artista utilizza la tecnica fotografica come mezzo utile nello studio del movimento e nel disegno. Degas se ne serve per catturare l’istantaneità della scena. Le sue opere sono caratterizzate da tagli prospettici molto arditi che lasciano intuire una realtà oltre quella dipinta, si può dire che i suoi quadri hanno un’inquadratura tipicamente fotografica.
Tecnica fotografica e indagine sociale, caratteri peculiari dell’arte di Degas, si intrecciano tra di loro ne “L’ assenzio”: una rappresentazione del crescente isolamento sociale della Parigi dei suo tempo.
La scena di questo quadro è ambientata nel Cafè de la Nouvelle-Athènes e rappresenta due amici di Degas, la donna è l’attrice Ellen Andrée e l’uomo è l’incisore Marcellin Desboutin. Il pittore aveva chiesto ai due di posare come alcolizzati in preda alla solitudine e ai pensieri. Il pittore cerca di cogliere un istante di sensazione psicologica.
Le due persone nel bar sono vicine ma si ignorano completamente. La solitudine della donna viene accentuata proprio dal bicchiere di assenzio che ha innanzi. La “bevitrice d’assenzio” ha lo sguardo perso nel vuoto, l’uomo le è vicino ma non le fa compagnia, beve da sola. Qui Degas riprende il vero, piuttosto che il bello, scava a fondo nei piaceri e nelle solitudini di Parigi con sguardo attento. L’attenzione del pittore nel cogliere aspetti marginali ma significativi del quotidiano si ripresenta anche nella raffigurazione del mondo della danza, in particolare nel celebre dipinto “La lezione di danza”.
Degas rappresenta il momento in cui una ballerina sta provando dei passi di danza sotto l'occhio vigile del maestro mentre le altre ragazze, disposte in semicerchio, osservano e attendono il loro turno.I gesti delle ballerine vengono descritti quasi ossessivamente: c’è chi si riposa, chi si rimette a posto l’orecchino, chi si gratta la schiena e chi ancora si sistema i capelli. Nessuna di queste figure è in posa. L’inquadratura è tipica della fotografia. Degas coglie un attimo a caso dei mille possibili della lezione, per cui è possibile trovare espressioni estremamente naturali e spontanee; ne rappresenta tutti i dettagli, compresa la prospettiva, studiando tutti i movimenti e le sensazioni che le ballerine suscitano.La naturalezza del quadro è suscitata dal taglio fotografico dell'immagine, ripresa dal basso verso l'alto. Degas fa spiovere la luce del dipinto in parte da una grande finestra dal fondo e in parte da destra. Il colore, steso con zone ampie e pennellate sintetiche, non descrive ma evoca materie e volumi. Un'altra peculiarità de La lezione di danza risulta essere la sensazione di estensione oltre i margini della tela; questo effetto suggerisce la transitorietà del momento immortalato e la volontà dell'autore di superare l'immobilità della normale pratica accademica, ostile a questi tagli così inconsueti. Tali caratteri si ripresentano nella maggior parte dipinti di Degas.
In ordine di successione le tele "Scuola di ballo dell'Opera", "Prove di balletto in scena", "La famiglia Bellelli", "Fantini a Longchamp".
La storia di questo monumento comincia nel 42 a.C., alla vigilia della battaglia di Filippi, lo scontro che vide le forze del secondo triumvirato (Ottaviano, Antonio e Lepido) fronteggiare i cesaricidi Cassio e Bruto ed il loro esercito; in questa occasione, per un’eventuale vittoria, Ottaviano fece voto di realizzare un tempio dedicato a Marte Ultore (Vendicatore). La battaglia si concluse positivamente per i triumviri, ma gli anni a venire furono segnati da scontri politici e da una feroce guerra civile, che vide uscire Ottaviano come nuovo regnante (principe) dello Stato romano.
Solo nel 2 a.C., dopo diversi anni di lavori, il foro ed il grande tempio dedicato a Marte vennero inaugurati. Lo stesso Augusto ci racconta che il complesso venne realizzato con i fondi provenienti dal bottino di guerra e Svetonio precisa che il terreno adibito alla costruzione fu acquistato da privati ma, per non entrare in disputa con alcuni proprietari, il progetto originario fu ridimensionato. ![]()
Niente sappiamo dell’architetto a cui fu commissionato il grandioso progetto. Il foro, lungo 125 metri e largo 118, era diviso dal quartiere della Suburra da un muro alto 33 metri; al contempo due grandi ingressi, posti ai lati del tempio e dotati di scalinate, permettevano di superare il dislivello tra il foro e la zona abitata. I visitatori che entravano da questo lato si imbattevano in due archi, uno di fronte ad ogni ingresso, eretti nel 19 d.C. e dedicati a Druso Minore (figlio di Tiberio) e a Germanico (figlio adottivo di Tiberio).
Procedendo verso la piazza si costeggiava il tempio, posto su un podio alto oltre tre metri. La scalinata di accesso presentava un altare al centro e due fontane ai lati; la fronte era scandita da otto colonne corinzie alte quasi 18 metri, così come i lati lunghi. L’interno era suddiviso in tre navate di cui quella centrale molto più ampia delle laterali. La cella terminava con un'abside all’interno della quale erano collocate le statue di culto di Marte Ultore, Venere e, forse, del Divo Giulio.
Due portici simmetrici, dotati di esedre (spazi semicircolari coperti con semicupole) e rialzati rispetto alla piazza da tre gradini, si aprivano ai lati del tempio, racchiudendo così lo spazio dedicato al foro augusteo. La parte superiore dei portici presentava statue di Cariatidi alternate a scudi con teste di Giove Ammone e altre divinità; i muri perimetrali erano scanditi da semicolonne di cipollino, tra le quali si aprivano nicchie contenenti statue bronzee di personaggi importanti del periodo repubblicano (summi viri). Una statua di Enea con Anchise e Ascanio troneggiava nell’esedra nord, circondata dalle statue degli antenati della gens Iulia ed i re di Alba Longa; in quella sud avremmo potuto ammirare Romolo con le spoglie di Acrone, da lui vinto, e altre statue raffiguranti summi viri.
La scelta di questo complesso iconografico non era casuale. In tal modo Augusto voleva unire la storia della Repubblica con quella della gens Iulia: Marte, padre di Romolo (colui che ha fondato Roma), e Venere, madre di Enea (colui che ha fondato la gens Iulia), si trovano entrambi venerati nel tempio voluto da Augusto, raffigurato in una statua monumentale posta al centro della piazza antistante il tempio stesso.
Il foro, voluto ufficialmente per creare nuovi spazi adibiti ai processi, alla politica (le riunioni del Senato si tennero più volte all’interno del tempio) e al commercio, fu in realtà il modo più eclatante per glorificare la figura di Augusto e l’inizio di una nuova era per l’impero romano.
Immagini tratte da: posizione del Foro di Augusto, da romanoimpero.com, voce “Foro di Augsto” foro di Augusto oggi, da Wikipedia Italia, CC BY-SA 3.0, voce “Foro di Augusto” ricostruzione del Tempio, da flickr.com pianta del tempio, da Wikipedia Italia, Di Cassius Ahenobarbus - Opera propria, CC BY-SA 3.0, voce “Tempio di Marte Ultore” pianta del Foro, da materiale dell’autore 15/8/2017 Franco Vaccari, Esposizione in tempo reale N.4. Lascia una traccia fotografica del tuo passaggio (1972)Read Now
Esposizione in tempo reale N.4. Lascia una traccia fotografica del tuo passaggio (1972)
“[...] ho esposto una cabina Photomatic (una di quelle cabine per fototessere che si trovano nelle grandi città) ed una scritta in quattro lingue che incitava il visitatore a lasciare una traccia fotografica del proprio passaggio. Io mi sono limitato ad innescare il processo facendo la prima photostrip, il giorno dell'inaugurazione; poi non sono più intervenuto. Alla fine dell'esposizione le strip accumulate erano oltre 6000”
Esposizione in tempo reale N. 4. Lascia sulle pareti una traccia fotografica del tuo passaggio, opera presentata dall'artista e fotografo modenese Franco Vaccari in occasione della 36° Biennale d'arte di Venezia del 1972, kermesse nutrita quell'anno di collaborazioni di altissimo prestigio (si pensi a Giulio Turcato, Gino de Dominicis, Luciano Fabro e Mario Merz per il solo padiglione Italia), pone in essere quell'operazione di occultamento (o dissoluzione) dell'autore dietro la sua creazione teorizzata dall'artista a più riprese in tutto l'arco della sua carriera. Alla fine degli anni sessanta Vaccari mette a punto il concetto di esposizione in tempo reale, dando vita a performance che, come spiega, si autogenerano o autocostruiscono attraverso l'uso del mezzo fotografico. In Esposizione in tempo reale N.4 l'artista installa una Photomatic (o cabina automatica per fototessere) negli spazi espositivi della Biennale e esorta i visitatori a farsi immortalare dall'obiettivo automatico in una striscia fotografica di quattro fototessere. Alle pareti affigge un invito in quattro lingue: “Lascia una traccia fotografica del tuo passaggio”. L'invito viene accolto entusiasticamente. Durante l'esposizione le pareti si riempiono di migliaia di strip accostate le una alle altre in un variegato catalogo di volti, di smorfie e di espressioni. Ogni singolo scatto interagisce organicamente con l'insieme di cui è parte e realizza nel complesso un variopinto mosaico di tasselli narrativi ed emozionali. “La differenza fra gli happening, le performance e le esposizioni in tempo reale è una differenza di struttura. Mentre infatti le prime si sviluppano linearmente e nelle varie fasi ubbidiscono a precisi programmi predeterminati, le esposizioni in tempo reale hanno come elemento caratterizzante la possibilità di retro-azione e cioè del feedback”. La novità dunque, osserva Vaccari nel 1974, è il feedback: lo spazio della contemplazione si disgrega lasciando spazio a quello dell'azione, dell'interazione, del gioco. Il visitatore si rende così parte attiva e partecipe della creazione artistica. “Per un momento” - scrive Vaccari - “chi accettava il gioco aveva uno spazio da gestire in modo autonomo, uno spazio privato immerso nello spazio pubblico, in cui era possibile dare libero sfogo al desiderio e al sogno”. L'opera si autoalimenta, vive di una vita propria al di là della coscienza dell'artista che la crea. E il risultato è sensazionale.
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1 2 3 4 www.arttribune.com
Malgrado il clima di forte tensione e d’incertezza globale, alimentato dall’insorgere della Prima Guerra Mondiale, vi fu un pittore che nelle sue tele espresse con determinazione e senza esitazioni la gioia di vivere, si tratta del celeberrimo Marc Chagall.
Marc Chagall nacque nel 1887 da una famiglia ebraica risiedente in Bielorussia (allora appartenente all’Impero Russo) e la sua esistenza percorse un arco temporale piuttosto lungo tanto da assistere in prima persona ai due conflitti mondiali più terribili della storia dell’umanità. Mai come in questo periodo l’arte diventò un mezzo capace di manifestare la precarietà della vita e di immortalare sulla tela i sentimenti di profonda malinconia e frustrazione derivanti da tali avvenimenti. L’arte divenne un rifugio, nonchè uno strumento di denuncia e di ribellione nei confronti di una realtà sanguinosa e straziante. Tuttavia, in questo contesto storico e artistico Chagall si configura come un artista “controcorrente”: al contrario di molti suoi contemporanei, infatti, Chagall non smise di rappresentare la meraviglia e la bellezza della vita. Marc Chagall ben presto abbandonò la sua terra natìa per recarsi a Parigi dove ebbe modo di familiarizzare con molteplici pittori, tra i quali Modigliani e Soutine. Chagall non appartenne ad una corrente ben precisa; il Cubismo lo appassionò soltanto, negò l’appartenenza al Surrealismo e non fu un pittore “espressionista” perché la sua pittura non aveva come unico protagonista il colore. Ad ogni modo, nelle sue opere figure spesso capovolte e tonalità blu e rosse sembrano prendere vita. Creatività e spontaneità divengono le colonne portanti della sua attività pittorica, tanto da renderla unica nel suo genere ed estremamente piacevole. Un chiaro esempio è l’“Autoritratto con sette dita” (1911-1912), oggi custodito al Stedelijk Museum di Amsterdam.
Si tratta di un olio su tela in cui l’artista si ritrae nell’atto di dipingere. Tuttavia, l’artista non sta dipingendo la Tour Eiffel visibile dalla finestra posta alle sue spalle, bensì ciò che lui stesso vede con gli occhi dell’immaginazione. Le sette dita con cui si raffigura, invece, non sono altro che un’ulteriore manifestazione e conferma della sua abilità fantasiosa.
Numerosi e pieni d’amore, invece, sono i quadri in cui il pittore celebra quel forte sentimento che lo univa a Belle, la sua amatissima moglie.
Opere come “La passeggiata” (1917-1918), conservata al Museo Russo di San Pietroburgo e “Il compleanno” (1915), custodito al Museum of Modern Art di New York sono solo due esempi.
Ancora al Musum of Modern Art di New York è conservata “Io e il mio villaggio” (1911), un’opera chiaramente legata alla sua terra natìa, la Russia.
Lui stesso scriverà “Nel mio quadro Io e il mio Paese, ho dipinto una piccola mucca ed una lattaia nella testa di una grande mucca perché avevo bisogno proprio di quel tipo di forma in quel punto della composizione. Ho utilizzato mucche, lattaie, galli e l'architettura tipica della provincia russa come fonte d'ispirazione formale perché questi elementi appartengono al mio paese d'origine; ed essi probabilmente hanno lasciato nella mia memoria visiva un'impressione più profonda di tutte le impressioni che ho ricevuto successivamente.” Il suo legame con il paese d’origine, dunque, fu fondamentale per la sua attività pittorica.
Marc Chagall impostò così la sua vita come una sorta di favola. Una fiaba che condivise con Belle e che assunse piena concretezza nella sua produzione artistica. Si ha così una pittura lontana dal dolore e dall’angoscia e capace di trasmettere quel senso di serenità d’animo che cominciava a vacillare in tutto il globo.
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A Pompei, presso Porta Stabia, è stata scoperta la tomba di Gneo Alleio Nigidio Maio. Vissuto in età neroniana-flavia era il più noto impresario di spettacoli gladiatori della città vesuviana. La tomba reca ancora un’iscrizione lunga 4 metri in cui viene raccontata la vita di questo noto personaggio dall’acquisizione della toga virile alle nozze. Vengono descritte le sue attività di organizzazione di giochi dei gladiatori, nei banchetti pubblici e le elargizioni liberali. La tipologia del monumento e l’iscrizione hanno portato gli archeologi a pensare che alla tomba sia pertinente anche un bassorilievo conservato al Museo Archeologico di Napoli.
In Francia, a sud di Lione e più precisamente a Vienne, un gruppo di archeologi ha rinvenuto i resti di un importante sito romano che è stato immediatamente ribattezzato “Little Pompei” per la ricchezza e lo stato di conservazione dei ritrovamenti. All’interno di questa area vi sono abitazioni di lusso risalenti al I secolo d.C. che sono state abbandonate improvvisamente circa 300 anni dopo in seguito ad incendi che ne hanno favorito il buono stato di conservazione.
A Poseidonia, meglio nota come Paestum, è stata scoperta una fattoria presso il santurario di Hera alla foce del fiume Sele. La fattoria, che si sviluppa su una superficie di circa trecento metri quadrati, attraverso lo studio dei reperti ceramici, si daterebbe tra il II e il I secolo a.C. Dalle indagini effettuate sui vani che compongono questa fattoria è emerso che la sua attività sia certa fino al II secolo d.C. Nei vani che componevano la fattoria venivano stoccati prodotti quali olio, erbe aromatiche e altre derrate alimentari.
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“Amici vado al Louvre, serve qualcosa?”
Tutto accadde nella calda estate parigina del 1911. In un lunedì di agosto, venne rubato dal Louvre il quadro più famoso di tutti i tempi: la Gioconda di Leonardo. I sospettati furono più di 1300, ma i primi costretti al carcere furono Guillaume Apollinaire e Pablo Picasso, il primo per aver dichiarato la volontà di eliminare l’arte del passato in favore di una nuova arte e il secondo per aver usato come fonte di ispirazione delle statue fenice sottratte al Louvre. Successivamente, si scoprì che l’artefice del furto fu un imbianchino italiano, Vincenzo Peruggia, originario di Dumenza, un paese del nord della provincia di Varese.
Peruggia emigrò in Francia giovanissimo, lavorò al Louvre e partecipò ai lavori per la sistemazione della teca di vetro dove era conservato il dipinto. Conosceva quindi perfettamente il luogo e le abitudini del personale del museo. Rubare la Gioconda e portarla in Italia fu un gioco da ragazzi! Ma quale fu il piano dell’imbianchino?
Peruggia, per dotarsi di un alibi, la domenica notte, organizzò una serata in un caffè con i suoi amici, fece molto tardi, si finse ubriaco e addirittura si fece multare per schiamazzi notturni. Andò a dormire in attesa che arrivassero le sette del mattino, uscì di casa senza farsi notare da nessuno, entrò nel Louvre e, sapendo di trovare il custode addormentato, si diresse verso il Salon Carrè, staccò dalla parete il quadro di Leonardo, tolse la cornice e infilò la tela dentro il suo giubbotto. L’imbianchino conosceva molto bene le abitudini del personale del museo, tutte le possibili vie di fuga che però non usò. Infatti, con tutta calma si diresse verso l’uscita e chiese persino aiuto a un idraulico perché gli aprisse il portone. In un baleno fu così su Rue de Rivoli e poco dopo nel suo appartamento, dove nascose la Monna Lisa sotto il tavolo della cucina. Erano le 8:30 del mattino. Alle nove in punto Peruggia uscì nuovamente di casa, facendosi notare dalla portinaia pettegola e andò di nuovo al Louvre, svegliò con un rumoroso saluto il custode, si scusò con il capo per il ritardo e iniziò a lavorare. Nello stesso momento, il pittore Louis Béroud e l’incisore Frédéric Laguillermie, da poco arrivati al Louvre per studi e ricerche, notarono che la Gioconda non era al suo posto. Di lì a poco la notizia della sparizione del quadro allarmò tutti, tanto da fare il giro del mondo.
Molte erano le ipotesi, alcuni pensavano che la colpa fosse dei tedeschi, altri di un pazzo o addirittura di un maniaco. La vicenda sfiorò il paradosso, dato che lo stesso Prefetto di Parigi perquisì la casa del ladro e, oltre a non trovare nessun indizio, firmò l’atto di perquisizione sullo stesso tavolo che nascondeva il dipinto.
La situazione diventò una tragicommedia. Apollinaire fu arrestato perché ritenuto colpevole del furto. Il suo arresto si basò in realtà su una calunnia del suo ex amante Honoré Géri Pieret che, per vendetta, lo accusò di aver ricettato alcune statuette rubate dal museo. Tali statuette arrivarono nelle mani di Pablo Picasso, amico di Apollinaire, che cercò di sbarazzarsene dichiarando di non aver mai conosciuto il poeta. Ma tutto ciò non aveva nessun legame con la Gioconda. Fu lo stesso Picasso che coniò la famosa battuta “Amici vado al Louvre, serve qualcosa?”. Intanto il vero autore del furto custodì il dipinto dentro una valigia di cartone per ben 28 mesi! Peruggia tornò nel suo paese d’origine con la seria intenzione di restituire la Gioconda all’Italia, ma trovatosi in difficoltà economiche, si recò a Firenze per rivendere il quadro. Si rivolse al’antiquario Geri a cui spedì una lettera in cui scrisse: “Il quadro è nelle mie mani, appartiene all’Italia perché Leonardo è italiano” e concluse firmandosi “Leonardo”. L’antiquario accettò di vederlo insieme al direttore degli Uffizi. I due, increduli, si ritrovarono tra le mani il capolavoro di Leonardo, lo stesso quadro che la polizia di tutto il mondo stava cercando. Così, chiesero al Peruggia di avere un po’ di tempo per analizzarlo, inoltre avvertirono le autorità. Vincenzo Peruggia fu arrestato per sette mesi. Dopo la partecipazione alla prima guerra mondiale, morì a Saint-Maur-des-Fossés, nel giorno del suo 44° compleanno. Il dipinto ormai ritrovato venne esibito in tutta la penisola: prima agli Uffizi di Firenze, poi all'ambasciata di Francia di Palazzo Farnese a Roma e, infine, alla Galleria Borghese. La Gioconda arrivò in Francia a Modane, su un vagone speciale delle Ferrovie italiane, accolta in pompa magna dalle autorità d'oltralpe, per poi giungere a Parigi dove, nel Salon Carré, venne accolta dal Presidente della Repubblica francese, Raymond Poincaré, e da tutto il Governo. Immagini tratte da: Tgcom24.mediaset.it Linkiesta.it letteraturaartistica.blogspot.it cultstories.altervista.org |
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Gennaio 2022
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