IL TERMOPOLIO
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30/9/2016

Presentazione

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​Entrai, attratto dal vociare e, soprattutto, dall'aroma invitante di cibo. Avvicinatomi al bancone ordinai qualcosa da mangiare: un pasto frugale, come sempre, a base di farro e olive, il tutto accompagnato da un buon bicchiere di vino. Mi girai per cercare un posto a sedere e subito la mia attenzione fu rapita da un semplice gruppo di persone, sedute attorno ad un tavolo nella penombra: uomini e donne di varia età che chiacchieravano amabilmente tra loro, quasi “stridenti” se confrontati con il resto della clientela.
“Scusi, mi sa dire chi sono?” chiesi all’oste facendo cenno con il volto nella loro direzione. Come risposta ricevetti un sordo grugnito, prova evidente che la mia curiosità non era condivisa dall'uomo.
Decisi di trovare da solo risposta ai miei dubbi e mi diressi verso il tavolo: “Ho visto che c’è un posto libero, posso?” indicando la sedia.
Una volta seduto comincia ad ascoltare ciò che dicevano: stavano parlando di una popolazione scomparsa diversi secoli prima, delle loro usanze, persino dei cibi che mangiavano. Penso che si accorsero del mio interesse dal momento che si rivolsero a me: “Chiacchieriamo di Archeologia, del Passato, quello con la P maiuscola, sai? Il vecchio Lucio ne sa veramente tante: antiche civiltà, curiosità su popoli e imperi, aneddoti e tanto altro. Ti assicuro che ogni volta c’è qualcosa di nuovo da imparare. Se vuoi, puoi partecipare anche tu!”
Farfugliai qualcosa, colto alla sprovvista dalla loro offerta.
“Parliamo anche di Arte, degli artisti più noti e di quelli emergenti; discutiamo delle opere viste recentemente e di quali aspetti queste mettono in evidenza. Ogni martedì ci ritroviamo in questa taverna, ci sediamo a questo tavolo, chiacchieriamo e passiamo un po’ il tempo assieme. Non ci facciamo mancare niente!”
Da allora, quella taverna scoperta quasi per caso è diventata una tappa fissa della mia settimana.
                                                                                                                                                 Andrea Samueli

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27/9/2016

Gian Lorenzo Bernini: lo scultore di passioni impetuose e travolgenti

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di Ilaria Ceragioli

Estrosità, teatralità, virtuosismi e vortici di passioni incontrollate e travolgenti sono solo alcuni dei caratteri dominanti di quello stile che si diffuse nell’Europa della prima metà del Seicento: il Barocco. Un termine che, almeno in un primo momento, assunse una connotazione estremamente negativa e venne associato a tutto ciò che era stravagante, eccessivo e bizzarro. Fu uno stile che mirò a unificare le tre arti per eccellenza: la pittura, la scultura e l’architettura rendendole così un unicum artistico. La pittura, ad esempio, assorbì caratteristiche proprie della scultura quali inganni e illusioni ottiche, mentre la scultura esibirà giochi di luce e ombre, elementi maggiormente legati alle tecniche pittoriche. Tuttavia, fu la scultura ad assorbire le caratteristiche più rappresentative dell’estetica barocca. Se pensiamo all’attività scultorea del Seicento Barocco inevitabilmente balzerà alla mente colui che Papa Urbano VIII descrisse come un “Huomo raro, ingegno sublime, e nato per disposizione divina, e per gloria di Roma a portar luce al secolo”: Gian Lorenzo Bernini. Napoletano di nascita, Bernini si formerà presso la bottega dello scultore Pietro Bernini, padre e maestro da cui apprenderà l’arte dello scolpire.
Con Gian Lorenzo Bernini il marmo si anima e prende vita. Ciò si nota chiaramente in due celeberrime opere che l’artista realizzò per il cardinale Scipione Borghese, entrambe custodite presso la Galleria Borghese a Roma: il Ratto di Proserpina (1621-1622) e Apollo e Dafne (1622-1625). Due capolavori dalla bellezza disarmante che riassumono i principi fondanti dell’arte barocca e della produzione scultorea di Gian Lorenzo Bernini.
La prima opera sopra menzionata fu realizzata quando l’artista era poco più che un ventenne e vede come protagonista Proserpina (o Persefone) figlia di Giove e Cerere.

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La leggenda narra del rapimento della fanciulla ad opera di Plutone, re dell’Ade. Cerere, dea delle messi, addolorata per la notizia provocò carestia e siccità a tal punto che Giove invitò il Re degli inferi a restituire la fanciulla, la quale, però, non poté fare ritorno sulla terra in quanto aveva mangiato un chicco di melograno. Nell’Ade, infatti, chi osava cibarsi non avrebbe potuto raggiungere nuovamente il mondo dei vivi. Fu così che Giove permise a Proserpina di trascorrere sei mesi sulla terra e i restanti nell’Ade. Il momento immortalato da Bernini è quello del rapimento della fanciulla. Osserviamo un possente e barbuto Plutone che con forza e vigore stringe a sé la figura femminile la quale, voltandosi in segno di ripugnanza, è intenta a liberarsi. I tratti del volto di Proserpina si contraggono ed ha la bocca semiaperta in una smorfia disprezzante. I loro corpi sbilanciati verso sinistra e verso destra conferiscono movimento e teatralità all’azione. La scena, dunque, è ricca di pathos e di sentimenti discordanti.
Analoghe peculiarità dell’arte barocca si riscontrano nel gruppo scultoreo intitolato Apollo e Dafne.


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Il soggetto rimanda a un celebre racconto delle Metamorfosi di Ovidio che godette di un’enorme fortuna artistica e letteraria. Cupido, il dio dell’amore e del desiderio sessuale, punì Apollo perché soleva vantarsi delle sue abilità nell’usare arco e frecce facendolo invaghire follemente di Dafne. La fanciulla per sfuggire dall’irrefrenabile amore di Apollo, chiese al padre Peneo di trasformarla in un albero di alloro. Bernini scolpì proprio il momento della metamorfosi di Dafne in pianta di alloro. Le mani della ragazza dai capelli ricci e svolazzanti a poco a poco divengono foglie e Apollo cerca invano di trattenerla con la mano sinistra. Il dolce volto di Dafne è segnato da un furioso grido che accentua la drammaticità dell’azione scolpita. Questa tragicità, però, è qui attenuata da una passione meno impetuosa e violenta segnata da un significativo, ma minore movimento. Ad ogni modo il gruppo scultoreo presenta curve sinuose e un’espressività indubbiamente teatrale.
Dunque, Gian Lorenzo Bernini conferì corporeità e calore al marmo, un materiale di per sé roccioso immobile, statico e freddo. Lasciò così che le sue opere non fossero che un’eccellente manifestazione delle più intense, vorticose e irrazionali passioni umane.

 


Immagini tratte da:
- mcarte.altervista.org
- mcarte.altervista.org
- nashvillearts.com
- answers.com

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27/9/2016

Antonio Cederna: il profilo di un uomo coraggioso 

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di Antonio Monticolo

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Antonio Cederna nacque a Milano nel 1921 da una famiglia di estrazione borghese. Nel 1947 si laureò a Pavia in archeologia classica. Dopo una campagna di scavo presso Carsoli, in Abruzzo, si trasferì a Roma perché chiamato da Elena Croce (figlia di Benedetto Croce) a collaborare con la rivista Lo spettatore italiano in cui si occupava di critica d’arte. Successivamente venne notato dal filosofo Marco Antoni che lo segnalò a Mario Pannunzio, direttore de il Mondo.
Questa opportunità permise ad Antonio Cederna di intraprendere la sua attività di urbanista moderno ( urbanistica che s’interessi di tutto lo spazio vissuto dall’uomo). Sin dai suoi primi articoli, l’opera di Cederna era rivolta alla salvaguardia dei centri storici. Si scagliò contro la distruzione di interi quartieri storici che interessavano le città di Roma, Milano e Lucca, operata da architetti che avevano introiettato in modo erroneo il concetto post bellico di modernizzazione. Non deve essere dimenticato che questi sono gli anni in cui in Italia scorrono fiumi e fiumi di cemento che, come la lava di un vulcano, sommergono e distruggono qualsiasi cosa in nome della “modernità” e dello “sviluppo”.
Famosissimo è l’articolo del 8 Settembre 1953 intitolato: “I gangasters dell’Appia”. L’articolo rappresenta l’incunabolo di altri sui scritti, in cui l’archeologo critica in modo veemente lo sfruttamento della Via Appia da parte dei privati e contro il Comune di Roma reo di avallare tale scempio. Il desiderio di Cederna era quello di permettere a tutte le persone di fruire degli spazi che si aprono ai lati della Via Appia con la realizzazione del “Grande Parco dell’Appia Antica”.

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Il suo impegno non rimase però relegato solo ai numerosi articoli, ma si tradusse anche in collaborazioni con associazioni culturali come Italia Nostra (Associazione nazionale per la tutela del patrimonio storico, artistico e naturale della nazione), fondata a Roma nel 1955 da Umberto Zanotti Bianco, Pietro Paolo Trompeo, Giorgio Bassani, Desideria Pasolini dall’Onda, Elena Croce, Luigi Magnani e Hubert Howard. Anche se prendeva parte alle riunioni in modo attivo, Cederna non volle mai figurare fra i fondatori di Italia Nostra.
Le lotte di Cederna in difesa della Via Appia portarono ai successi sperati. Nel decreto ministeriale del 1965, firmato dal ministro Giacomo Macini, venne deciso che l’Appia Antica era interamente destinata a parco pubblico da Porta San Sebastiano ai confini del comune. Questa grande vittoria però non durò a lungo perché nei decenni successivi sorsero numerose costruzioni abusive. Ma dopo diversi interventi della Regione, il Gran parco della Appia Antica adesso è una realtà. La sua realizzazione si deve ad Antonio Cederna.
Abbiamo già detto prima che una lotta che Antonio Cederna portò avanti fu quella per la salvaguardia dei centri storici. Importante a tale riguardo fu il convegno di Gubbio che si tenne nel 1960, in cui Cederna e altri definirono i termini della “Carta di Gubbio”(dichiarazione finale del convegno). Tale dichiarazione sosteneva l’inscindibile unitarietà dei centri storici (l’intero centro storico è esso stesso un monumento). I risultati si videro subito, infatti in qualità di consigliere comunale Cederna fece costruire l’auditorium nell’area dello stadio Flaminio e non nel piccolo borghetto Flaminio. Un altro esempio è stata la salvaguardia di un pezzo di campagna romana nei pressi dell’Appia che stava per essere inondato da colate di cemento.
L’interesse di Cederna si spostò poi al centro di Roma. Dapprima propose di spostare i ministeri dal centro di Roma in periferia e di lasciare ivi solamente il Parlamento e la residenza del Presidente della Repubblica.

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Poi volse lo sguardo su via dei Fori Imperiali. Criticò aspramente l’operato di Mussolini che, negli anni ’30, per collegare Piazza Venezia con il Colosseo, fece spianare la Velia (uno dei colli di Roma) distruggendo antichi quartieri e deportando i suoi abitanti nelle borgate in periferia, ma soprattutto facendo costruire Via dei Fori Imperiali che recideva in modo netto e irrimediabile l’area del foro romano dall’area dei fori imperiali di Cesare, di Augusto, di Nerva e di Traiano.
Cederna appoggiò l’idea dell’archeologo Adriano La Regina di eliminare Via dei Fori Imperiali per ricreare l’unità originaria dell’area e creare, secondo Cederna: “uno spazio per la cultura, la contemplazione, il riposo". Ma soprattutto, "coll'eliminazione dello stradone che negli anni Trenta ha spianato un intero quartiere e con la creazione del parco centrale si sancisce l'incompatibilità del traffico con il centro storico e con la salute dei monumenti".
La rimozione di Via dei Fori Imperiali sembrò una possibilità concreta allorché, nel 1979, divenne sindaco di Roma Luigi Petroselli. Petroselli sostenne l’idea di smantellare la via e fra le prime cose fece chiudere via del Foro Romano che separava il Campidoglio dal Foro Romano. La morte improvvisa di Petroselli fece naufragare del tutto il progetto.
Sono passati oramai più di venti anni da quando Antonio Cederna si spense a Sondrio il 22 Agosto del 1996, ma il suo insegnamento è più attuale che mai.
Le lotte di Antonio Cederna hanno avuto come effetti vittorie e sconfitte, ma ciò che ne rimane è un esempio per tutti. La tutela, la salvaguardia, la valorizzazione (quest’ultima non in senso economico) e la fruizione da parte di tutti i cittadini devono essere i cardini intorno ai quali orientare lo sviluppo e la modernizzazione dei beni culturali nel nostro paese. L’operato di Cederna dimostra come l’urbanistica moderna abbia la possibilità di coniugare presente e passato. Quest’ultimo non deve essere inteso in senso assoluto, cioè scevro da qualsiasi legame, soprattutto con l’oggi, ma proprio il suo opposto, ovvero il luogo da cui si può attingere per capire il presente creando un ponte con ciò che la storia ci ha lasciato in eredità.

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Sitografia:
http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-cederna_(Dizionario-Biografico)/
http://www.archiviocederna.it/cederna-web/info/antonio-cederna.html#n

Immagini tratte da:
- www.iisbattistivelletri.gov.it
- www.repubblica.it
-
www.viaappiaantica.com
- www.repubblica.it

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20/9/2016

Zeus di Fidia ad Olimpia

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 […] Era fatta di avorio ed era così imponente che, sebbene il tempio fosse molto grande […] Zeus, seduto, sfiorava il soffitto con la testa, dando l’impressione che, se si fosse alzato in piedi, avrebbe sfondato il tetto […] (Strabone, Geografia VIII 3, 30)
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​di Andrea Samueli
FotoReplica moderna (1990) dell'Atena Parthenos presente nella ricostruzione del Partenone a Nashville
Il nostro viaggio questa settimana, a dispetto del titolo, comincia sull’acropoli di Atene, nel 438 a.C., e vede come protagonisti un artista considerato l’emblema stesso della classicità, Fidia, ed una statua crisoelefantina, cioè in oro e avorio, raffigurante la dea Atena. La statua, alta 12 metri, ritraeva la dea in piedi, con la mano sinistra appoggiata ad uno scudo ed una Nike alata a grandezza naturale nel palmo della mano destra; la testa era protetta da un elmo decorato con tre creste sorrette da una sfinge centrale e due pegasi ai lati. Si tratta della nota Atena Parthenos, la statua di culto che si trovava all’interno del Partenone. 

La fama di Fidia, dopo la realizzazione di questo capolavoro, era al culmine e l’artista venne chiamato ad Olimpia per la costruzione di una seconda statua crisoelefantina, questa volta che riproducesse il padre degli dei, Zeus.
La messa in opera di tali statue era un lavoro estremamente complesso: prese le misure esatte del tempio, l’artista realizzava un’anima lignea scolpita grossolanamente che riproduceva le proporzioni e l’ingombro della statua stessa. Su questo modello, una volta svuotato dell’interno per il posizionamento di puntelli e tiranti in cuoio o canapa, venivano posizionate le lamine in oro e avorio, modellate su stampi in terracotta precedentemente realizzati dal maestro. Le parti in avorio avevano lo scopo di riprodurre il carnato della divinità, mentre le parti in oro costituivano le decorazioni ed i panneggi. Queste ultime erano poi posizionate in modo tale da poterle smontare periodicamente e controllare che l’ingente quantità d’oro impiegata non diminuisse a causa di furti (basti pensare che per l’Atena Parthenos vennero impiegate 1 tonnellata d’oro). Un’operazione fondamentale per il mantenimento dell’opera consisteva poi nell’ungere con olio d’oliva tutte le componenti in avorio e la struttura in legno sottostante, per evitare il formarsi di crepe nelle prime ed i danni dovuti all’umidità nelle seconde. 
Testa di Zeus conservata presso il museo di Cirene
Moneta di Adriano con Zeus Olimpio
Replica moderna dello Zeus di Olimpia (San Pietroburgo, Ermitage)
La creazione del colossale Zeus richiese cinque anni di lavoro, al termine dei quali all’interno del tempio si ergeva una statua alta tra i 12 ed i 14 metri, posta su un basamento largo 6,65 m, lungo 10 m e alto circa un metro. Il padre degli dei era raffigurato seduto in trono, con la testa ornata con una corona d'olivo, mentre stringeva nella mano sinistra uno scettro sormontato da un’aquila e teneva nella destra una Nike alata; il corpo era parzialmente coperto da un manto, decorato con gigli in pietra dura e pasta vitrea, che arrivava sino ai piedi posti su uno sgabello retto da leoni. Il trono in avorio ed ebano era ornato con diverse Nikai e scene a carattere mitologico. Il basamento infine, in  marmo blu di Eleusi, presentava decorazioni a bassorilievo riproducenti le divinità olimpiche. 
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Di tale meraviglia possiamo tracciare la storia, sino al momento della sua scomparsa: il fatto che Caligola (37-41 d.C.) ordinò, invano, che la statua venisse smontata e portata a Roma ci informa del fatto che sotto tale imperatore lo Zeus era ancora esistente e, probabilmente, rimase ad Olimpia almeno sino ai tempi di Teodosio, quando il cristianesimo divenne religione di stato ed i culti pagani vennero vietati (318 d.C.); tale editto fu rinforzato nel 435 d.C. da un secondo editto, di Teodosio II, il quale ordinò che tutti i templi pagani venissero distrutti. Forse neppure questo decretò la distruzione della statua, poiché Cedreno da Bisanzio, storico del XII secolo, ci ricorda che un alto funzionario bizantino, Lauso (morto nel 436 d.C.), aveva realizzato una galleria d’arte nel suo palazzo nella quale aveva raccolto, con il permesso imperiale, numerose opere tra le quali anche lo Zeus crisoelefantino. Questo ci mette dunque al corrente che la statua era stata spostata da Olimpia e portata a Costantinopoli dove rimase, con ogni probabilità sino al 475 d.C., anno in un cui un incendio devastò la capitale bruciando anche il palazzo di Lauso e tutto il suo contenuto.
Fu così che, dopo nove secoli di vita, la grande creazione di Fidia, una delle sette meraviglie del mondo antico, scomparve senza lasciare traccia di sé. 
Immagini tratte da:
 - Statua di Atena (riproduzione), da Wikipedia Italia, Di Photograph by Dean Dixon, Sculpture by Alan LeQuire - Dean Dixon, FAL, voce "Atena Parthenos"
 - Testa di Zeus, da Wikimedia, By not mentioned - albakour.com, Public Domain, File "​Head of Zeus (Cyrene Antiquity Museum).jpg"
 - Moneta, da Wikimedia, By Sailko - Own work, CC BY 3.0, "Elide, moneta di adriano con zeus olimpio.JPG"
 - Zeus Olimpio (riproduzione), da Wikipedia Inglese, Di Sanne Smit - Opera propria (Self-made photograph), Pubblico dominio, voce "​Statue of Zeus at Olympia"
 - Zeus Olimpio, da Wikipedia Francese, Par Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy - Kansalliskirjasto, Domaine public, voce "​Statue chryséléphantine de Zeus à Olympie"

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20/9/2016

L’arte in una capsula del tempo : Passato e Presente a confronto grazie all’intelligenza artificiale

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di Marianna Carotenuto

Vi siete mai soffermati su una foto di un articolo di giornale come se ne sofferma un critico che analizza una opera d’arte?
Magari voi amanti dell’arte imbattendovi nel fotogiornalismo talvolta avete avuto l’impressione di cogliere un qualcosa che ricordasse il vostro pittore preferito.  Bene, avete fatto centro!
Guardare le grandi opere d’arte attraverso uno sguardo nuovo e cogliere le somiglianze con il mondo d’oggi è l’idea di fondo del progetto  Recognition, l’intelligenza artificiale made in Italy premiata dall’ IK Prize 2016 ed ora in mostra alla Tate Britain di Londra dal 2 settembre al 27 novembre 2016.
L’IK Prize, in partnership con Microsoft, è un riconoscimento promosso dalla TATE per celebrare la creatività nel mondo digitale. Annualmente team di tutto il mondo concorrono per creare l’idea più originale in merito all’utilizzo  della tecnologia digitale per innovare il modo di  scoprire ed  esplorare l’arte britannica nella collezione Tate.
Quest’anno è stato premiato il lavoro di  Coralie Gourguechon, Monica Lanaro, Angelo Semeraro e Isaac Vallentin il Team di Fabrica, il centro di ricerca sulla comunicazione di Benetton Group.


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Angelo Semeraro, Coralie Gourguechon e Monica Lanaro
Recognition, la loro  macchina-archivista alimentata dal potere dell’Intelligenza Artificiale, si basa su  parametri non solo visivi, come il riconoscimento facciale. Ci sono, infatti, altri strumenti tecnologici che danno vita ad un’analisi cromatica e compositiva oltre che all’analisi testuale delle didascalie associate alle immagini. Dunque si analizzano le somiglianze tra visi, oggetti, paesaggi, posture, colori  cercando di capirne anche il contesto.
Il risultato è una mostra in continua evoluzione, poiché Il software lavora h24 confrontando le immagini di attualità prese dall’archivio dell’agenzia Reuters con le foto delle opere in collezione alla Tate, cosi da generare le coppie di immagini che sono disponibili anche sul sito ufficiale http://recognition.tate.org.uk.
Che  ne pensate di questa somiglianza?

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sulla sinistra il leader dell’UKIP, Farage . Sulla destra “A young man”, by Lowry.
Recognition spesso coglie somiglianze che per molti di noi apparirebbero troppo azzardate.
Ecco subito un altro esempio tratto dal sito sopraccitato. Un uomo vietamita che carica acciaio con la sua tuta ed elmetto di protezione viene associato al dipinto di John Constable “Between Folkestone and Sandgate” del 1833.  

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Si può comprendere pertanto come questa mostra non sia solo una semplice revisione del passato utilizzando la lente della modernità e della tecnologia, ma rivela la netta differenza che c’è tra l’intelligenza umana e quella artificiale.
E’ possibile mettere alla prova la vostra percezione e confrontarla con quella di una macchina fino al 27 novembre 2016.
Buon divertimento!

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http://www.tate.org.uk/whats-on/tate-britain/exhibition/recognition

Immagini tratta da:
http://recognition.tate.org.uk

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13/9/2016

Gli stili della pittura parietale romana

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di Antonio Monticolo

Le lussuose dimore pompeiane ci hanno lasciato in eredità, fra le tante cose, anche un dono preziosissimo: le pitture parietali.
A Roma, la continuità della vita ha cancellato quasi del tutto le testimonianze pittoriche, a differenza della città vesuviana dove l’eruzione del 79 d.C. le ha preservate.
Le pitture parietali ritrovate a Pompei sono da anni oggetto di interesse degli esperti. Il loro studio ha permesso di individuare i cosiddetti quattro stili pompeiani. C’è da dire, sin da subito e a scanso di equivoci, che Pompei non deve essere considerato il centro irradiante di questi quattro stili, ma bensì una delle tante città in cui arrivò forte l’eco della pittura della capitale dell’impero.
Fatte queste premesse, vediamo più da vicino queste pitture e distinguiamo i quattro stili.

Il primo stile si sviluppa e ha un’ampia diffusione dalla metà del II sec.a.C. fino all'80 a.C. ca. Le pareti sono decorate con stucco colorato e imitano strutture murarie con blocchi squadrati.
La caratteristica principale di questo stile prevede una suddivisione della parete in questo modo:
 
- fascia superiore decorata con cornici in stucco
- una fascia mediana dipinta con colori come il rosso, il verde, il giallo e il nero
- uno zoccolo di colore giallo (il più delle volte)


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Stabiae, Villa di Arianna
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Ercolano
Il secondo stile, detto anche “stile dell’architettura in prospettiva”, si sviluppa dalla fine del I sec.a.C.fino al I sec.d.C. Questo stile si differenzia dal primo perché sulle pareti vengono rappresentate architetture, come colonnati, frontoni, edicole, porte e finestre, che inizialmente servivano a suddividere lo spazio, ma l’effetto trompe l’oeil (inganna l’occhio) creava l’illusione dello sfondamento prospettico e gradevoli effetti ottici. Il secondo stile permetteva di ampliare il limite murario delle stanze e di andare oltre lo spazio reale.
Inoltre vi è anche un arricchimento del repertorio figurativo in cui gli elementi architettonici verranno sostituiti da figure.


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Villa di Boscoreale
Il terzo stile si sovrappose al secondo stile e arrivò sino all’età dell’imperatore Claudio (41-54 d.C.). Tale stile è definito “stile ornamentale” e non ha più quelle caratteristiche prospettiche e illusionistiche proprie del secondo stile. Le architetture perdono del tutto la loro tridimensionalità (alcune volte solo le colonne la mantengono). Lo spazio è suddiviso e riempito con pittura monocroma e colori vivaci: blu, viola e rosa. Sulla parete si possono vedere candelabri, calami, bruciaprofumi che in molti casi sorreggono tetti e strutture.

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Casa di Marco Lucrezio Frontone - Pompei
Il quarto stile, detto anche “stile dell’illusionismo prospettico” si diffuse in epoca neroniana come reazione alla stilizzazione dello stile precedente. Ritornano alcuni elementi del secondo e del terzo stile come gli elementi architettonici che creano la prospettiva senza però l’illusione della realtà al di fuori oppure candelabri, tralci vegetali e figure alate. La parete era decorata soprattutto con il colore rosso su fondo bianco o nero.
A Pompei moltissime case erano decorate con questo stile in quanto la maggior parte di esse erano state ricostruite dopo il terremoto del 62 d.C.

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Domus Aurea
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Palestra di Ercolano
Immagini tratte da:
Primo stile
- capitolvim.it
- wikipedia, AlMare, pubblico dominio, voce: primo stile pompeiano
Secondo stile
- wikipedia, Meskens, cc BY-Sa-3.0, voce: secondo stile
- pinterest.com
Terzo stile
- capitolvim.it
Quarto stile
- wikiepdia, pubblico dominio, voce: Domus Aurea
- wikipedia, pubblico dominio, voce: quarto stile

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13/9/2016

Giovanni Fattori: dal segno alla macchia                                     

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di Olga Caetani

Nel rivoluzionario panorama dell’Italia preunitaria, molti artisti di idee liberali in fuga dalle repressioni austriache, papali e borboniche, trovarono un clima culturalmente più disteso nel Granducato di Toscana.  A Firenze, essi amavano ritrovarsi presso il Caffè Michelangelo in Via Larga (l’attuale via Cavour), il quale, dal 1848, divenne la culla del realismo italiano, di cui i macchiaioli, sulla scia delle teorie del critico d’arte fiorentino Diego Martelli, rappresentarono la componente più fortunata e originale. Anche Giovanni Fattori frequentava già dal 1850 lo stesso Caffè, a due passi dall’Accademia, ma aderì più tardi al movimento. Nato a Livorno nel 1825, a poco più di vent’anni il suo animo risultava diviso tra timidezza e inquietudine, tra un amore profondo per l’arte, del quale era quasi inconsapevole, e una passione patriottica sfrenata, anche se non parteciperà mai in prima persona ad uno scontro in armi. Nel 1846 si recò a Firenze per studiare alla scuola privata del pittore Giuseppe Bezzuoli, ritrattista e grande ammiratore di Ingres, la cui nitidezza del disegno costituirà un tratto distintivo anche dell’opera di Fattori. Gli studi accademici non lo appagavano, tranne il disegno appunto, pratica quotidiana che non lo abbandonerà per tutta la vita. Con i suoi piccoli album si recava in campagna a disegnare dal vero, anticipando altri macchiaioli come Signorini. Tuttavia le tendenze romantiche, alimentate dalla lettura di Victor Hugo e Walter Scott, continuavano a costituire una fonte di ispirazione. Gli antitetici romanticismo e realismo sembravano coabitare in lui, ma nel 1850 Fattori venne a contatto con le discussioni sulla ricerca di un’arte “vera e sincera” del Caffè Michelangelo. “Io allora lottavo fra il realismo macchia e il romanticismo”, scrisse Fattori nelle sue memorie. Fu il pittore romano Nino Costa in modo molto schietto, dopo aver osservato e apprezzato i suoi taccuini di campagna, ad indurlo a concentrarsi esclusivamente sul vero, riconoscendo il grande potenziale fattoriano ancora sopito. Su insistenza di Costa, nel 1859, Fattori partecipò ad un concorso pittorico per la realizzazione di quattro grandi tele raffiguranti i momenti salienti delle imprese belliche risorgimentali. Campo italiano dopo la battaglia di Magenta gli assicurò la vittoria.
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Campo italiano dopo la battaglia di Magenta,1862, olio su tela, 232×384 cm, Firenze, Galleria d’arte moderna
Se la piccola tavoletta con I soldati del ’59, che ne costituisce uno studio, è un perfetto esempio di pittura macchiaiola, il risultato finale si limita ad un equilibrato realismo, senza però indugiare in patetismi romantici. La scelta di raffigurare il momento immediatamente successivo alla cruenta disfatta italiana di Magenta, testimonia la lontananza della poetica di Fattori da scene di cruda violenza.
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Soldati francesi del’59, 1859, olio su tavola, 15×32 cm, Milano, collezione privata
Negli anni Sessanta, la morte della moglie per tubercolosi condusse il pittore in uno stato di angoscia profonda, dalla quale scaturì una serie di paesaggi spogli, desolati e privati dei tanto cari dettagli realistici, tuttavia dotati di estrema modernità, come La Sardigna.
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La Sardigna a Livorno, circa 1865, tela su cartone, 25×38 cm, Firenze, collezione privata
Vedendolo così affranto per le vie di Firenze, Diego Martelli, “il solo e caro amico, uomo di vero cuore”, invitò Fattori presso la sua casa a Castiglioncello, ove spesso soggiornavano anche gli altri macchiaioli. La bellezza e l’asperità del paesaggio marino e bucolico del litorale tirrenico divennero i suoi soggetti ideali. Fu un periodo molto prolifico, nel quale Fattori dissipò ogni esitazione nei confronti dell’osservazione della realtà in senso macchiaiolo. La rotonda Palmieri, nonostante le piccole dimensioni, ne è un celebre esempio. La composizione è ripartita in lunghe e sottili fasce di colore, perfettamente raccordate tra loro dal punto di vista cromatico. Le ricche signore sedute all’ombra di una luminosissima giornata al mare, sono risolte con nette “macchie” di colore, accostate secondo un’attenta alternanza di toni chiari e scuri. Già nello studio preparatorio, Signora all’aperto, conservato nella milanese Pinacoteca di Brera, adotta una soluzione compositiva a tarsia, di grande libertà espressiva.

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La rotonda Palmieri, 1866, olio su tavola, 12×35 cm, Firenze, Galleria d’arte moderna
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Signora all’aperto, 1866, olio su tavola, 12×17 cm, Milano, Pinacoteca di Brera
Immagini tratte da:
- Campo italiano alla battaglia di Magenta, www.pinterest.com
- Soldati francesi del ’59, www.artribune.com
- La Sardigna, www.zapgina.wordpress.com
- La rotonda Palmieri, wikipedia, pubblico dominio, voce: Rotonda Palmieri
- Signora all’aperto, www.frammantiarte.it




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6/9/2016

Il Mausoleo di Alicarnasso

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​di Andrea Samueli
Meno di vent’anni dopo la sua realizzazione, Alessandro Il Grande poté ammirare la meraviglia che si stagliava nel cielo della città da lui appena conquistata: il Mausoleo di Alicarnasso.
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Il Mausoleo venne completato nel 350 a.C. circa come sepolcro del satrapo della Caria Mausolo. Il rapporto di sudditanza con il Gran Re era però molto labile, tanto che sotto l’indebolito regno di Artaserse II, Mausolo riuscì ad espandere molto i confini del suo stato: partito dall’antica capitale Mylasa, conquistò dapprima il resto della Caria per rivolgere le sue mire espansionistiche alla Licia e alla Lidia, a Rodi, giungendo sino a Mileto e Alicarnasso, città che decretò nuova capitale della regione.

Qui decise di erigere la monumentale tomba che passerà alla storia come la terza meraviglia del mondo antico. Edificato tra il teatro e la baia, nel centro della città come era tradizione per le tombe dei fondatori delle colonie nel mondo greco, il sepolcro aveva dimensioni straordinarie: Plinio il Vecchio ce lo descrive di pianta rettangolare, con i lati di 35 e 40 metri.
L’opera architettonica fu affidata a due gradi architetti, Pitis e Satiro, gli stessi che probabilmente studiarono la pianta della città, i quali realizzarono una struttura composita: sopra uno zoccolo di cinque gradini si ergeva un podio in blocchi di granito rivestiti di marmo, arrivando ad un’altezza di 22 metri. Sopra questo si sarebbe potuta ammirare una parte colonnata con 9 colonne ioniche di fronte e 11 di lato alte 13 metri, le quali sorreggevano una grande piramide composta da 24 gradini alta 7 metri. Il tutto era coronato da un podio sul quale si trovava una quadriga, due volte più grande del normale, scolpita dallo stesso Pitis. Con tale coronamento la struttura raggiungeva i 49 metri di altezza. 
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Ma ciò che rendeva incredibile la tomba, oltre alla mole stessa, era l’apparato decorativo al quale lavorarono, uno per lato, quattro dei più grandi artisti greci: Skopas decorò la fronte, cioè il lato est; Leochares si occupò del lato occidentale; Brixias del lato nord; Timoteo realizzò la decorazione del lato sud. I fregi che ornavano il Mausoleo riproducevano temi cari alla cultura greca: una Amazzonomachia, una Centauromachia ed una corsa con i carri. A completare il tutto dovevano essere presenti oltre quattrocento statue, tra le quali leoni a tutto tondo posizionati, forse, sul cornicione tra colonnato e piramide e le due statue identificate (ma non c’è certezza) con Mausolo e la moglie/sorella Artemisia. 
La camera sepolcrale, intagliata nella roccia, si trovava all’interno, disassata rispetto al resto del monumento. Il sepolcro rimase visibile sino al XIII secolo, quando un violento terremoto ne decretò il crollo. Ma la perdita di gran parte delle decorazioni è da attribuire ai cavalieri di Rodi, i quali distrussero le statue per ottenere calce e reimpiegarono i blocchi in granito per la costruzione del vicino castello.
Anche per questa meraviglia rimangono solo pochi resti e la sua forma originaria rimane avvolta nelle nebbie della storia.

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Immagini tratte da: 
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Statua Mausolo, da Wikipedia Inglese, By Unknown - Jastrow (2007), CC BY 2.5, voce “Mausoleum at Halicarnassus”
Ricostruzione, da Pinterest
Leone, da Wikipedia Inglese, By Bigdaddy1204 (talk) (Uploads) - Own work, Public Domain, voce “Mausoleum at Halicarnassus”
Cavallo, da Wikipedia Inglese, By Unknown - Jastrow (2006), Public Domain, voce “Mausoleum at Halicarnassus”
Amazzonomachia, da Wikipedia Inglese, By Unknown - Jastrow (2006), Public Domain, voce “Mausoleum at Halicarnassus”
Ricostruzione 2, da Wikigallery, incisione di Ferdinand Knab (XIX sec.)

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6/9/2016

Pillole di Arte Contemporanea: Richard Hamilton, Just what is it that makes today's homes so different, so appealing? (1956)

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​di Alessandro Rugnone
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Mentre a Londra l'Indipendent Group, un circolo di giovani artisti e intellettuali, organizzava This is Tomorrow, mostra fissata il 9 Agosto 1956 alla Whitechapel Gallery, Richard Hamilton, artista che faceva già incursioni nel linguaggio dei manifesti pubblicitari, si stava preparando a dare materia di studio al critico Lawrence Halloway, a cui si deve l'uso ufficiale della parola pop. La mostra era aperta a nuovi esperimenti nei nuovi ambiti delle arti multimediali, della comunicazione e della progettazione di interni e la stessa tecnica con cui il poster fu realizzato ricorda il montaggio tipico dei manifesti pubblicitari. Il titolo (Ma cos'è che rende le case di oggi così diverse, così attraenti?) venne tratto da una comune rivista di costume e le stesse immagini impiegate per il collage furono tratte dalla stampa americana. In un interno che sembra esaltare il comfort della case moderne, ci si imbatte in cibi di pronto consumo, sullo sfondo un paralume con il logo della Ford, un quotidiano, elettrodomestici, registratore a nastro e un televisore, fumetti rosa al centro della parete come fossero veri e propri quadri e Hollywood che cerca di entrare in casa dalle finestre. Il tappeto è una folla di persone viste da lontano e il soffitto è la curva della Luna vista dallo spazio. Una pin-up a destra divide la scena con una casalinga intenta alle pulizie e con un culturista (il nuovo Adamo) che impugna un gigantesco lecca-lecca (lolli-pop) brandendolo come fosse una racchetta da tennis. Hamilton punta a rappresentare le immagini popolari del mondo moderno e insieme i mezzi di comunicazione che le diffondono. La decontestualizzazione di ogni oggetto e il suo riposizionamento in uno spazio nuovo conferisce dall'elettrodomestico alla persona una importanza pari. Prima che fosse coniata qualunque definizione, quest'opera divenne il manifesto di tutti quegli artisti che di lì a poco si si sarebbero definiti pop. Nel 1991 l'artista ha ripulito il collage e stampato altre 25 copie, segno della grande attualità del poster anche quasi dopo mezzo secolo.

Immagini tratte da: 
www.faculty.georgetown.edu

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