di Andrea Samueli Immortali persiani Gli Immortali, o Compagni in altre fonti, erano soldati scelti al servizio dell’esercito persiano. È Erodoto, nelle sue Storie, a definirli Athanatoi, Immortali appunto, per la caratteristica di contare sempre nei loro ranghi diecimila unità: “Era stato scelto per ciascuno - nel caso in cui, costretto da morte o malattia, mancasse al numero complessivo - un sostituto; ed erano sempre diecimila: né più né meno.” (Erodoto, Storie, trad. di Piero Sgroj) Addestrati nell’utilizzo di più armi, erano dotati di una corta spada, arco e frecce, una lancia con punta in ferro e uno scudo di vimini ricoperto in pelle; a protezione del corpo indossavano una pesante armatura a scaglie sotto la quale portavano una ricca tunica a maniche lunghe e pantaloni. La testa erano invece protetta da un berretto in stoffa (o feltro). Ne possiamo vedere una raffigurazione nei rilievi che adornavano il palazzo imperiale di Dario I a Susa. Catafratti e arcieri partici I catafratti, dal greco “coperto da armatura”, erano unità di cavalleria pesantemente armate. Il cavaliere era protetto completamente da un’armature a piastre con gambe e braccia coperte da un rivestimento a lamine di bronzo, mentre il cavallo era dotato di una corazza integrale a scaglie cucita su uno stato di cuoio. L’arma principale del catafratto era una lancia lunga quattro metri (detta kontos) da impugnare con entrambe le mani, fissata all’armatura del cavallo per meglio gestirla durante la carica e per trasferire maggiore forza nel momento dell’impatto. Non essendo ancora presenti le staffe, la sella disponeva di un marcato rialzo posteriore e di due agganci laterali per le gambe del cavaliere. L’efficacia di queste unità, già di per sé devastante sui campi di battaglia antichi, veniva aumentata combinando il loro intervento con quello degli arcieri a cavallo. Il “tiro partico” prevedeva che gli arcieri si avvicinassero al nemico fino a una distanza di 90 metri dopo la quale, spronati gli animali, cominciava il lancio di frecce fino ai 45 metri, per poi frenare la corsa e tornare indietro scagliando ancora dardi sulle file avversarie. Il tutto poteva essere ripetuto varie volte finché, inflitte perdite adeguate da scompaginare la formazione nemica, intervenivano i catafratti. Nella celebre battaglia di Carre, i Parti disponevano di 1000 catafratti e 9000 arcieri a cavallo, riforniti di frecce da un convoglio di ben 1000 cammelli. Immagini tratte da:
Immortali, da Wikimedia, By Unknown - Jastrow (2005), Public Domain, File: Archers frieze Darius palace Louvre AOD487.jpg Catafratti, da Pinterest (Battle of Carrhae) Arcieri a cavallo, da Pinterest (Parthian archer) Potrebbero interessarti anche:
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Intervista all’artista
di Marianna Carotenuto
Una scultura di marmo. Una figura femminile, delicata. Una mano sul cuore e il corpo lacerato dalle crepe, ma dall’interno una forte esplosione di fiori risana ogni spaccatura.
Questa è una sintesi di ciò che vediamo a primo impatto osservando l’immagine proposta, ma ciò che evoca è di gran lunga più forte. Sono sicura che se vi interrogassi chiedendovi cosa susciti in voi, raccoglierei tante emozioni diverse, come d’altronde sempre succede di fronte alle opere d’arte. E allora vi chiedo: Cosa percepite? In quale museo pensate si trovi? La risposta corretta è la seguente: fisicamente non si trova in nessun museo! È una scultura digitale, creata attraverso tecniche 3D dall’artista francese Jean Michel Bihorel con cui ho avuto il piacere di parlare e porgere alcune domande che trovate di seguito. M: Jean-Michel nella vita sei un 3D Generalist. Come è nata la tua passione per il mondo 3D? J.M: Entrambi i miei genitori sono Artisti classici, quindi in un certo senso sono sempre stato esposto all’arte. Ho scoperto il 3D all’età di 15 anni durante un piccolo workshop di animazione per bambini organizzato nel posto in cui vivevo. È stata una rivelazione! Ero in grado di creare qualunque cosa usando solo un PC. Allora ho venduto la mia Play Station per comprarne uno e da allora il mio gioco preferito è creare oggetti in 3D. M: Sul tuo profilo Behance possiamo vedere diversi tipi di lavori: vignette, personaggi animati, architetture e foto. Ma la mia attenzione è stata rapita dalle tue sculture. Appena le ho viste la mia reazione è stata: “Wow queste sculture in marmo sono incredibili!” E quando ho scoperto che si trattava di scultura digitale mi sono ritrovata completamente senza parole! Quindi, prima di tutto, la mia domanda è: Perché sculture di marmo? J.M: Scelgo il marmo per questa serie di "interfacce", in particolare per enfatizzare il divario tra arte tradizionale e arte digitale. M: Ho notato la tua tendenza a rappresentare oggetti che si rompono. In “Controlling your fracture in Houdini”, il guerriero di terracotta si sgretola. “Lorene” ha delle crepe dorate in viso e anche nella serie "Flower Figures" ci sono sculture rotte nelle cui fessure ci sono fiori o foglie. Qual è il significato di queste crepe? J.M: Le crepe nei miei lavori sono solo un modo per rivelare ciò che c’è dentro. È un modo per rompere le apparenze esterne. Nel caso di Lorene, è un'altra cosa, si basa sulla filosofia di Kintsugi che crede che le crepe facciano parte della storia di un oggetto e che contribuiscano alla sua bellezza se sono ben riparate. E io pensavo che sarebbe stato bello se fosse potuto accadere lo stesso anche agli uomini. M: Riferendomi al tuo progetto intitolato “Flower Figures” e in particolare alla “Figure N. 02” che posso dire essere tra tutte la più conosciuta in rete, ti chiedo: Come è nato tale progetto e cosa significano i fiori nelle crepe? J.M: Con le mie immagini, il più delle volte mi concentro maggiormente su una sensazione usando i materiali e le luci. È un processo abbastanza spontaneo quindi non direi che ho mirato a un significato speciale. Ma la scelta tra morbidezza e durezza è intenzionale e da quella scelta è nato un messaggio ovvio. Si, Figure N.02 è l'immagine che la maggior parte delle persone preferisce tra tutte le mie opere, quindi non mi sento di dire più di tanto. Queste immagini sono per tutti e ognuno può darne un proprio significato. M: Per quanto riguarda le tue sculture floreali, so che hai trovato un'ortensia secca per strada e hai deciso di fare qualcosa, mixando la delicatezza dei fiori con la fragilità evocata dalle crepe nel marmo. J.M: Si, è nata questa idea anche grazie all’aiuto di mia moglie. Esatto, mi piace molto il termine delicatezza. M: Come nascono le tue opere? Quali sono le tecniche? J.M: Come figlio della generazione numerica, abbraccio pienamente tutti gli strumenti digitali come la realtà virtuale, la scansione, i modelli e la struttura 3D. Ma in tutte le mie immagini cerco di mantenere un legame con l'arte tradizionale imitando la realtà dei materiali e delle forme. In questo modo cerco di creare un collegamento tra le due forme d'arte. M: Considerando questo nuovo modo di fare arte, hai mai temuto che il pubblico potesse porre le tue immagini su un gradino inferiore rispetto all’arte intesa in modo tradizionale? J.M: Considero il 3D come uno strumento, e ogni nuovo mezzo richiede un po' di tempo per essere conosciuto e accettato dal pubblico. Per quanto mi riguarda, non voglio che la parola "digitale" sia la descrizione principale della mia arte. Sto usando uno strumento digitale per fare arte ma l'immagine e la sensazione che ne derivano sono ciò che conta di più. Si dovrebbe iniziare a considerare il 3D come uno strumento in grado di produrre arte e non una forma d’arte. Per scoprire tutte le opere di Jean-Michel Bihorel visitate il sito https://www.behance.net/jmbihorel Immagini tratte da https://www.behance.net/jmbihorel Potrebbero interessarti anche: di Ilaria Ceragioli Irregolare, contorto, grottesco: erano questi i termini con cui inizialmente si soleva qualificare quello stile che nacque a Roma nel terzo decennio del Seicento, il Barocco. Aggettivi dal carattere fortemente dispregiativo che riportano alla mente quegli attributi assegnati secoli prima a un altro stile artistico, il Gotico. Linee serpentine, forme ricurve e corpi dalle avvolgenti torsioni esprimono quella teatralità, quell’illusione e quella drammaticità di cui si avvalsero la scultura, l’architettura e la pittura del Seicento. Interessante è l’impatto che tale corrente artistica ebbe sulla città di Genova. Un influsso così considerevole che tutt’oggi si parla di “Barocco genovese”. La diffusione dello stile barocco in quest’area geografica è legata a una fase particolarmente fiorente e fortunata della Repubblica di Genova. Alcune famiglie nobili tra cui le dinastie Doria, Spinola, Pallavicini, Adorno, infatti, vollero mostrare la propria magnificenza commissionando ritratti, ma soprattutto facendo costruire e decorare palazzi cittadini, chiese e ville. All’interno di questo fertile contesto economico e artistico, fondamentale fu l’attività del pittore genovese Gregorio de Ferrari. L’artista decorò la volta e la cupola della più antica chiesa di Genova, la Basilica di San Siro. Al suo interno, nel 1676 il pittore affrescò La gloria di s. Andrea Avellino e tele con Estasi di s. Francesco e Riposo durante la fuga in Egitto. Tra i più rappresentativi esempi del Barocco genovese ricordiamo anche la decorazione interna della Chiesa di Santa Maria delle Vigne. Qui, di fatto, dimora l’opera di Gregorio de Ferrari intitolata S. Michele arcangelo che precipita gli angeli ribelli. Un trionfo cromatico, gestuale e spaziale caratterizza così le figure bibliche che animano le scene, creando un’atmosfera d’insieme capace di catturare immediatamente l’occhio e lo spirito dello spettatore. A un certo punto della sua carriera Gregorio de Ferrari iniziò a lavorare con il suocero Domenico Piola, un altro eccellente protagonista del Barocco genovese. Frutto del loro genio è l’ornamento interno della Basilica della Santissima Annunziata del Vastato. Come anticipato, il Barocco genovese non si manifestò soltanto all’interno di edifici religiosi, ma anche all’interno di palazzi signorili. Ne è un lampante esempio Palazzo Rosso, in particolare la decorazione ad affresco presente nel secondo piano nobile. Anche qui, intorno al 1686-1687, vi lavorarono Gregorio de Ferrari e Domenico Piola. Ricordiamo così l’Allegoria della Primavera, nella sala 19 e l’Allegoria dell’Estate, nella sala 20. Nell’Allegoria della Primavera Cupido è intento a dare fuoco a delle fiaccole, Venere è raffigurata in atteggiamento seducente e Marte è presentato in volo. È giunta la primavera e tutto prende vita: putti e fanciulle giocano festosi.
Nell’Allegoria dell’Estate al centro della composizione vi è Apollo accompagnato da un leone che allude al segno zodiacale. In volo, affiancata da un putto, vi è invece Cerere, dea delle messi e della fertilità. Innumerevoli, dunque, sono le sorprese artistiche create da Gregorio de Ferrari che dimorano a Genova. Forte è l’invito a farsi avvolgere da quest’aura barocca che risplende di maestosità, di accese cromie e di panneggi svolazzanti e che esplode di esuberante vitalità. Immagini tratte da: www.wikiwand.com www.chiesadigenova.it www.tripadvisor.com.sg www.commons.wikimedia.org www.commons.wikimedia.org di Antonio Monticolo L’anfora Dressel 1 (il nome fa rifermento a Heinrich Dressel, 1845-1920, il quale fu uno dei primi a studiare e a classificare le anfore e i bolli presenti sulla anfore stesse) è la più comune anfora della tarda età repubblicana romana. Il tipo è convenzionalmente suddiviso in tre sottotipi:
Le differenze che producono questi sottotipi si riscontrano soprattutto nella forma dell’orlo. Inoltre, questi tre sottotipi vengono prodotti in età più o meno differenti. Infatti, la Dressel 1A inizia a essere prodotta tra il 140/130 a.C. e persiste fino alla metà del I secolo a.C. La Dressel 1B venne prodotta tra l’ultimo quarto del II secolo a.C. fino all’ultima decade del I secolo a.C. Infine, la 1C fu realizzata tra la fine del II secolo a.C. e il secondo quarto del I secolo a.C. La Dressel 1 fu una delle anfore più esportate nel Mediterraneo. La sua diffusione nella seconda e prima metà del I secolo a.C. costituisce la più importante evidenza dell’esportazione della produzione agricola dell’Italia nel mondo antico. Una grande quantità di queste anfore sono state trovate soprattutto nel bacino occidentale del Mediterraneo, mentre un numero minore in quello orientale. Ne sono testimonianza sia i ritrovamenti terrestri sia quelli marini. Infatti, in diversi riletti è stata trovata in grande quantità questa tipologia di anfora. Ad esempio sono stati ritrovati molti relitti lungo le coste della Gallia (l’attuale Francia) e nei pressi della costa della penisola iberica. Presso la Grand Congluè (isolotto vicino Marsiglia) sono stati trovati sul fondale due relitti sovrapposti. Inerente al tema trattato, l’imbarcazione che ci interessa è quella più recente, cioè quella che si adagia sul relitto che tocca il fondale. Tale relitto conteneva materiali della fine del II – inizio I secolo a.C. con 1200-1500 anfore Dressel 1A. Un gran numero di anfore Dressel 1 ritrovate in tutto il Mediterraneo presentano il nome di Marco Sestio associato all’ancora o al tridente. Egli era membro di un’importante famiglia senatoria e proprietario di grande tenute vinicole. Marco Sestio era anche associato con Cosa, colonia latina, ubicata nella zona odierna di Orbetello, nel grossetano. Qui, infatti, le concentrazioni delle sue anfore furono trovate presso il porto ed è possibile che le ville che producevano il suo vino fossero localizzate nell’Ager Cosanus. Immagini tratte da:
roma sotterranea archeologia subacquea.org Potrebbe interessarti anche: Dal 18 settembre al 14 ottobre 2018 il Lu.C.C.A. Lounge & Underground ospita il ciclo di dipinti a tema dell’artista toscano. l “Cantico dei Cantici”, uno dei testi più lirici e inusuali delle Sacre Scritture, è col suo messaggio di amore universale alla base del viaggio visivo dell’artista toscano Elio De Luca. Il ciclo di dipinti compone la mostra itinerante dal titolo “Amore. Cantico dei Cantici”, a cura di Maurizio Vanni e prodotta da MVIVA, che farà la sua prima tappa nel Lu.C.C.A. Lounge & Underground e sarà aperta al pubblico dal 18 settembre al 14 ottobre 2018 con ingresso libero. L’incontro con l’artista si terrà sabato 29 settembre 2018 alle ore 17 e nell’occasione sarà presentato il libro d’artista, edito da Polistampa, che oltre a includere la riproduzione delle opere in esposizione sarà corredato dal testo originale del Cantico. Unico poema d’amore presente nell’Antico Testamento, contenuto sia nella Bibbia ebraica che in quella cristiana, il Cantico racconta in versi l’amore tra due innamorati, con tenerezza ma anche con un ardire di toni ricco di sfumature sensuali, che ha guadagnato nei secoli schiere di estimatori anche tra i laici. “Ciò che ha sempre incuriosito l’artista toscano – spiega il curatore Maurizio Vanni – è stata l’analisi del non visibile attraverso il visibile e il mistero che circonda questo componimento non poteva non conquistare la sua attenzione. De Luca tenta di raffigurare i sentimenti e gli stati d’animo scaturiti dalla sua lettura, ma cerca anche di indagare le parole da nuove ottiche proponendo una costante ricerca di unire gli opposti: il divino con la materia, il sacro con la terrestrità, l’infinito con il finito, la luce celestiale con la consistenza dei corpi, dove il soprannaturale potrebbe trasformarsi nel filo rosso che lega tutte le cose del mondo”. De Luca non si limita a illustrare i passaggi più suggestivi del Cantico, ma li prende a prestito per celebrare l’amore in tutte le sue sfaccettature, l’estasi, i sospiri, i lucidi sogni, il rincorrersi, il trovarsi, lo stordimento sensoriale, il cercarsi, il ritrovarsi, ma anche l’amplesso e i momenti di dolce erotismo nei quali i due corpi si fondono diventando una cosa sola. I fondi oro rappresentano il non reale, qualcosa di distante e irraggiungibile, e danno un effetto mistico e sovrannaturale. “Ne scaturiscono opere raffinatissime – continua Vanni – nelle quali la leggerezza dei corpi sembra quasi immersa in un mare dorato. Gli incarnati appaiono illuminati dall’interno, da un bagliore intenso che li rende eleganti e quasi immateriali. Tutto si muove lentamente, quasi ritmato da un metronomo marziale che scandisce un tempo più esistenziale che cronologico. L’amore si trasforma in simbolo supremo che riesce ad accogliere in sé significati molteplici, materiali e trascendentali, umani e divini”. Oltre al tenero e sensuale amore tra i due protagonisti, le sue tele rimandano anche all’amore del creatore (Dio o forse lo stesso artista) per le sue creature e all’approccio spirituale all’esistenza terrena. “L’amore del Cantico è umano – sottolinea Vanni –, ma ha in sé una scintilla divina che lo rende unico e lo avvicina alla luce dell’Altissimo. Visto da un’altra ottica, l’amore umano del Cantico si apre ad essere il pretesto più efficace per parlare di Dio. Il Cantico di De Luca è un’ode alla vita, un inno all’amore vero e profondo, simbolo di promesse eterne terrene e sovrannaturali, ma anche traccia concretamente eterea d’infinito e di completezza. Solo questo tipo di amore potrà salvare il mondo”. Note biografiche Elio De Luca Da oltre quarant’anni sulla scena artistica nazionale, Elio De Luca, nato nel 1950 a Pietrapaola (Cosenza), si trasferisce giovanissimo a Prato, dove si diploma nel 1969 presso la Scuola d’Arte Leonardo da Vinci. Qui tiene la sua prima mostra personale alla Galleria Muzzi nel 1972. Dal 1998, dopo l’antologica che il Comune di Prato gli ha dedicato in Palazzo Datini, la frequenza e l’importanza di rassegne, incarichi e riconoscimenti sono state sempre maggiori. Nel 2001 espone alla Galleria Arte Capital di Brescia, nel 2002 alla Galleria Comunale del Castello Aragonese di Taranto, nel 2003 al Palagio di Parte Guelfa e a Palazzo Panciatichi a Firenze. È del 2004 la mostra itinerante “Il palcoscenico dell’esistenza” presentata nel Ridotto del Teatro del Popolo di Castelfiorentino e poi spostata in altre sedi. Nel 2005 realizza la personale “Mater Terrae” nella città di Matera ed è invitato ad esporre al M'ARS Contemporary Art Museum di Mosca. Nel 2006 lo troviamo al Foreign Art Museum di Riga, in Lettonia, mentre gli viene organizzata da ModenArte la personale presentata presso i Musei Civici della Città di Lecco e poi al Centro per l’Arte di Miami. Nello stesso anno è uno degli artisti selezionati per partecipare alla mostra “Rifiuti preziosi. Il Nouveau Réalisme e la cultura contemporanea”, tenutasi a Palazzo Strozzi a Firenze. Nel 2007 è uno degli artisti selezionati per rappresentare l’Istituto di Cultura Italiana all’Artist Istanbul Art Fair e partecipa alla mostra “Artisti italiani contemporanei” a Boca Raton e a Santa Fé. De Luca realizza inoltre per la Chiesa di San Bartolomeo, presso il Monastero di Scampata di Figline Valdarno, il Crocifisso, due grandi pale laterali e una lunetta. Nel 2008 dipinge i nove pastelli ad olio di grandi dimensioni che accompagnano nei teatri italiani lo spettacolo musicale “Robin Hood” scritto da Beppe Dati. Nel 2009 la città di Poppi gli dedica un’antologica presso la Galleria Comunale d’Arte Moderna. Nel 2010 espone al Museo Nazionale di Palazzo Venezia a Roma e nel 2012 alla Dogana Veneta del Comune di Lazise. Nel 2014 realizza la doppia mostra “Donne e miti” per la Sala del Basolato del Comune di Fiesole e la Sala delle Colonne del Comune di Pontassieve. Dello stesso anno è l’esposizione presso lo Spazio Italia di Pechino dal titolo “Capriccio Italiano”, realizzata in collaborazione con l’Ambasciata Italiana in Cina e con l’Istituto Italiano di Cultura a Pechino. Sono del 2016 le esposizioni a Città della Pieve, Barberino Val d’Elsa, Stigliano e Arezzo. Nel 2017 è invitato ad esporre una grande mostra dal titolo “Donna - Elogio delle virtù” al Palazzo Pretorio del Comune di Certaldo MOSTRA ELIO DE LUCA “AMORE. CANTICO DEI CANTICI” a cura di Maurizio Vanni Lu.C.C.A. Lounge&Underground Dal 18 settembre al 14 ottobre 2018 orario mostra: da martedì a domenica 10-19, chiuso lunedì Ingresso libero Incontro con l’artista e presentazione libro sabato 29 settembre 2018 ore 17 Ad Agropoli, nell’elegante scenario del Castello Angioino Aragonese, ha preso avvio, con inaugurazione sabato 1 settembre e conclusione il 30 settembre, la personale d’arte pittorica “Alma Meditèrranea” di Lilliana Comes. La mostra curata dal critico d’arte Antonella Nigro, è patrocinata e sostenuta da: Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Regione Campania, Provincia di Salerno, Settembre Culturale di Agropoli, Istituto Italiano dei Castelli, Le Città del Libro, Città che Legge, Centro Studi Hemera, Parco del Cilento, Wespace Galleria d’Arte, Selene Associazione di Promozione Sociale. Con Lilliana Comes saranno presenti Adamo Coppola, Sindaco di Agropoli e Francesco Crispino, Presidente Commissione Cultura e Beni Culturali Città di Agropoli. Per cogliere lo spirito del Mediterraneo e svelarne i segreti, occorre ripercorrere le voci che attraverso i secoli ne sono state interpreti e testimoni, dai grandi filosofi, alle maestose testimonianze architettoniche e artistiche, alle storie, ai miti e alle leggende. Scrive la curatrice ‹Lilliana Comes concentra la sua ricerca pittorica sulla figura femminile che propone eterea e sognante, d’una delicatezza quasi impalpabile, sovente lieve regina della notte e degli astri. […] Da questo punto di vista, le figure femminili dell’artista assumono la connotazione di dee che posseggono e custodiscono un sapere arcano e perduto, lo stesso di Selene ed Ecate. Leggiadre ed aggraziate figlie di Berenice, nei capelli serbano tramonti, architetture e orologi: sfondi blu, s’intrecciano e confondono con i flutti turchini di mari mediterranei e le onde indaco di belle chiome sciolte al vento; fili dell’anima che si dipanano e disegnano edifici, archi e ponti sospesi, memori d’una bellezza costiera e marittima su cariatidi contemporanee›. Ed è proprio attingendo a tanti ricchi frutti che l'artista Lilliana Comes in una sua visione artistica intima e fascinatoria, fra tradizione e modernità, propone “Alma Meditèrranea”, un ciclo di opere fra dipinti, disegni e sculture. Una mostra d’arte che sia anche un invito, mai come ora necessario, per riflettere sull'esigenza sempre più impellente di un dialogo interculturale in un’area geografica in cui "abitano" da sempre nella loro difficile ma necessaria convivenza, diverse identità geopolitiche e culturali. Il Mediterraneo nella sua complessità, è uno straordinario universo popolato da poliedriche fusioni e commistioni di popoli e di lingue, una realtà complessa in cui l’incontro e lo scontro delle diversità generano e determina forze e propulsioni creative. Così, l’artista Comes, fa sue le variegate storie del mare, della terra e delle tradizioni, i colori, le atmosfere pregne di miti, leggende e spiritualità, costruendo, allo scenario figurativo e immaginifico della sua tavolozza di colori, il mondo abitato dalle civiltà del Mediterraneo. Un Mediterraneo che si erge fiero, dignitoso e consapevole delle proprie diverse radici e della sua svariata ricchezza, resa ancora più grande e consistente dalle sue umane diversità. Figlia d’arte, grazie al padre scultore, intraprende il suo viaggio nel mondo delle arti visive. Allieva dello scultore Lelio Gelli e del pittore Enrico Cajati, si diploma all’Istituto d’Arte Palizzi di Napoli. Le sue opere sono state esposte a Copenaghen, Berlino, Berna, Londra e, con il ciclo “Mediterranean”, all’International Boat Show di Qingdao, Cina; è stata ospite ad Arte Padova e Arte Genova. Illustratrice in campo editoriale, grazie alla sua attenzione verso i temi di genere e multiculturalità, ha curato numerose immagini di copertina e illustrazioni per libri e riviste, fra cui le illustrazioni per Panorama e Cronache Internazionali. Nel 2010 le viene conferito il Premio per le Arti Visive Città di New York e nel 2012 riceve il Premio per la Carriera Artistica, conferito dalla Regione Lazio. Nel 2013 nell’ambito del Congresso Internazionale di Psicologia di Comunità “Beyond the Crisis” di cui cura il manifesto, viene invitata alla Fondazione Mediterraneo con la personale “Le Donne d’Europa”. Nel 2014 partecipa al progetto “Arte Dubai” e a “An Art Search” di Londra 2015. Nell’agosto 2016, l’artista partenopea è protagonista a Fiuggi Terme della Fashion for Art “Benetton wears Lilliana Comes”, prima start-up artistica sulle eccellenze italiane con il brand Benetton su Moda, Arte e Cultura. Nel 2016 con il patrocinio della Regione Umbria e del Comune di Perugia, nella prestigiosa sede di Torre Strozzi Centro d’Arte, presenta la personale “Voices in the Moonlight - Parole di Donne”. In occasione della mostra la sua arte viene sostenuta, per le tematiche di genere, dal Premio Nobel Dario Fo. Nel 2017 prende forma il progetto “GridaDiFata”, reportart di arte poesia nei luoghi dello scempio ambientale presente a gennaio 2018 presso il PAN Palazzo della Arti di Napoli. SITO UFFICIALE: http://www.lillianacomes.com/ (da cui sono tratte le immagini) di Andrea Samueli Quante volte abbiamo incontrato le mummie dell’antico Egitto? Tra film, fumetti, libri e videogiochi fanno ormai parte del nostro immaginario come mostri terribili e dagli immensi poteri. Ma in cosa consisteva in realtà il processo di mummificazione? Gli Egizi credevano in una vita dopo la morte: affinché il defunto potesse vivere nell’aldilà era necessario che il corpo si conservasse il più a lungo possibile. Le notizie che abbiamo riguardo a tale pratica non provengono direttamente dai testi dell’antico Egitto, bensì da studi di autori greci più tardi e dalle analisi moderne condotte sulle mummie rinvenute. La salma veniva così affidata a sacerdoti chirurghi specializzati nel trattamento dei cadaveri: nella casa della purificazione il sacerdote procedeva all’estrazione del cervello e all’apertura del costato sinistro tramite un apposito coltello rituale in selce. Da questa apertura erano tolti gli organi interni che, una volta imbalsamati e avvolti in bende, venivano riposti in appositi vasi (canopi) con le fattezze dei quattro figli di Horo: Amset, la divinità con testa umana, proteggeva il fegato; la milza era affidata a Hapy, dalle fattezze di un babbuino; polmoni e intestini erano inseriti rispettivamente nei vasi di Duamutef, con la testa di un canide, e Qebehsennuef dalla testa di falco. Gli unici organi lasciati al loro posto erano i reni, troppo difficili da raggiungere, e il cuore, sede dell’anima. Seguiva la fase di disidratazione con l’immersione del corpo per 35 giorni nel natron (un tipo di sale); i sacerdoti procedevano poi all’inserimento nel cadavere di tamponi imbevuti in aromi e mirra al fine di dare nuovamente forma al corpo e garantirne una migliore conservazione. L’apertura praticata all’inizio del rituale veniva coperta con una placca e la salma, una volta lavata e unta, era pronta per il bendaggio: tra le bende di lino, precedentemente immerse in resine, erano posti amuleti e formule magiche per facilitare il passaggio nell’aldilà. Il corpo, avvolto in una grande telo, era infine deposto nel sarcofago. Ciò che gli Egizi pensavano accadesse dopo la morte è raffigurato nel Libro dei Morti, l’insieme delle formule magiche necessarie a raggiungere il mondo dei morti e ottenere l’immortalità. Il defunto, accompagnato da Anubi, è sottoposto al giudizio del tribunale di Osiride, composto dal dio stesso e da 42 dei. Al cospetto di costoro avviene la pesatura del cuore (psicostasia): il cuore, posto su una bilancia, deve risultare più leggero di una piuma, simbolo della dea della Giustizia Maat. Accanto alla bilancia vediamo il dio della scrittura Thot nell’atto di registrare l’esito e un mostro pronto a divorare il defunto in caso di fallimento: si tratta di Ammit, la “Grande Divoratrice”, un essere con la testa di coccodrillo, il corpo di ippopotamo e le zampe di leone. Superata la prova il defunto viene ammesso alla presenza di Osiride che lo accoglie tra i beati. P.s. (Per cinefili) Se vedete una mummia, ricordatevi che temono i gatti! ;) Immagini tratte da: - La mummia (film), youtube - vasi canopi, da Wikipedia Italia, Di User:Captmondo (Own work (photo)), CC BY-SA 3.0, voce "Vasi canopi" - mummia, da www.brooklynmuseum.org/exhibitions/mummy_chamber/ - pesatura del cuore, da pinterest Potrebbero interessarti anche:
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