di Andrea Samueli ![]() Il noto adagio “Se bella vuoi apparire…” è ben conosciuto. Ma come si truccavano le donne nel mondo antico? La lotta contro i peli era pratica comune per Egizie, Greche e Romane (giusto per citarne alcune). Il poeta Ovidio ricorda “…non siano le gambe irte di duri peli…”: esistevano infatti apposite creme depilatorie a base di cera d'api, o contenenti miele e olio o ancora resine e sostanze caustiche unite ad olio. Sappiano di un particolare metodo, praticato anche da Cesare, per eliminare i peli dalle gambe: frizionare sulla pelle gusci di noce arroventati. Originale! Il volto poi richiedeva grande cura e le matrone romane dedicavano molto tempo al trucco: il latte di asina era considerato un ottimo emolliente, nonché un antirughe, mentre pigmenti a base vegetale o minerale costituivano la base per i cosmetici. Il fondotinta, non proprio salutare, era ottenuto mescolando biacca, polvere tossica derivata dal piombo e nota per la sua proprietà coprente, con miele: in tal modo si otteneva una carnagione chiara molto apprezzata nel mondo antico. Il fard era invece ottenuto con ematite (rossa) o altri pigmenti terrosi. Tralasciando le acconciature (ne parleremo in un prossimo articolo), parte fondamentale era riservata al trucco degli occhi: l’eye-liner aveva diverse origini, passando dal nero di seppia al nerofumo (polvere di carbone), alle formiche abbrustolite e unite a grasso animale o vegetale. L’ombretto variava la sua composizione in base al colore scelto: con la cenere impastata con l’acqua si otteneva una tonalità scura, mentre con le polveri di malachite e azzurrite rispettivamente un verde o un azzurro. Anche le sopracciglia erano truccate, allungate con un bastoncino intinto nel carbone. Nel mondo egizio uomini e donne facevano largo impiego di una polvere a base di antimonio (stibio) unito a grasso animale per allungare il contorno occhi e mettere in risalto le palpebre. Lo stibio, così come il carbone, erano poi impiegati anche per un vezzo molto apprezzato nel mondo romano: disegnare nei finti sul volto. Ultima, ma non per importanza, la cura delle labbra: i rossetti, spesso di un rosso molto acceso, erano ottenuti dall’ematite o dai ben più tossici minio e cinabro (minerali legati al piombo e al mercurio). Senza dubbio, un bacio difficile da dimenticare! Immagini tratte da:
Ritratto1, da Wikicommons, File:Fayum StrasbourgMBA.JPG, By Edelseider - Own work, CC BY-SA 3.0 Ritratto2, da Wikipedia Francese, voce "Portraits du Fayoum", Par {{creator: }} — Scanned and edited by Eloquence, Domaine public
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Guillaume Legros più noto sul web come Saype, è un artista svizzero classe 1989 divenuto famoso per la sua strabiliante abilità nel dipingere sull’erba. La sua volontà di rivoluzionare e rinnovare la tradizionale della Street Art, ha fatto sì che oggi si possa parlare di un nuovo tipo di arte “From Street to Land” , a metà tra graffitismo e Land Art. Ma non solo, la sua vuole essere anche una forma artistica del tutto ecologica; i colori, infatti, sono ricavati da una miscela di olio di lino, acqua, farina e pigmenti naturali. La sua attività artistica ha inizio nel 2013 quando comincia a sperimentare varie tecniche su plexiglass prima di trasporle all’esterno. Attraverso la sua mano, è la natura stessa a divenire una sorta di tela sulla quale Saype riesce a dare vita ai suoi soggetti; montagne, colline e prati situati principalmente tra Francia e Svizzera divengono così delle vere e proprie opere d’arte. Interessanti, risultano le varie fasi con le quali l’artista da origine alle sue creazioni; innanzitutto, fotografa il soggetto, poi passa al taglio dell’erba dell’area precedentemente scelta e, successivamente, comincia a cospargere la vernice attraverso una bomboletta. Infine, per prendere visione del lavoro in corso, si serve di un drone permettendogli così un’esaustiva visione dall’alto. Per prendere coscienza di quanto siano suggestive e affascinanti le sue opere non resta che ammirare la selezione riportata di seguito. Sulla montagna di Rocher-de-Naye, a 2000 metri sopra il livello del mare, Saype da vita all’opera intitolata A story of the future (2017), in cui protagonista è una dolcissima bambina dedita a sfogliare le pagine di un libro. Nello stesso anno, il giovane artista realizza anche Un grand homme et l’avenir?, opera d’arte creata in un campo di Lussemburgo in cui la figura di un bambino, che raccoglie illusoriamente un fiore, è accompagnata dalla presenza del premuroso e saggio nonno. Nel mese di giugno di questo anno, invece, Saype elabora a Parigi, sul celeberrimo Champs de Mars (lungo ben 15000 metri quadrati!) di fronte alla Tour Eiffel, la Beyond Walls, una vera e propria catena umana lunga ben 600 metri e larga circa 25 metri. Qui, numerose mani si uniscono e si stringono l’una con l’altra oltrepassando qualsiasi confine, qualsiasi spazio mentale, qualsiasi barriera. La pittura sull’erba di Saype, dunque, diventa sinonimo di solidarietà, umanità e rispetto tra uomo e natura. In aggiunta, la sua originale personalità e la sua straordinaria attività artistica gli hanno permesso di essere riconosciuto da Forbes come uno dei trentenni più influenti all’interno dell’attuale panorama artistico europeo. Immagini tratte da: www.inasherahart.altervista.org www.inasherahart.altervista.org www.graffitistreet.com di Nicola Avolio Mosaici, terme, palazzi frequentati da creature marine. Antiche reminiscenze archeologiche di epoca romana protette dalle acque che parlano di un luogo di villeggiatura per ricchi patrizi, amato anche da Cicerone, Domiziano, Cesare e Nerone. Conosciuto come “la Pompei sommersa”, il Sito archeologico di Baia custodisce al di sotto del mare un tesoro di profonda bellezza e inestimabile valore: situato nel più vasto contesto del Parco dei Campi Flegrei e, assieme al Parco Sommerso di Gaiola, tutelato dalla Soprintendenza dei Beni Archeologici di Napoli nonché area marina protetta, costituisce un tassello di splendore della Campania Felix ed è incastonato nell’area nord del Golfo di Napoli, tra Bacoli e la frazione di Baia. La ragione per la quale questi reperti archeologici si trovano oggi al di sotto del livello del mare è dovuta al fenomeno vulcanico dell’intera zona flegrea, il bradisismo, che da sempre ha interessato l’intera zona costiera a nord di Napoli: tale fenomeno ha causato movimenti verticali dell'area con escursioni in positivo ed in negativo di molti metri provocando negli ultimi 2000 anni l'inabissamento della linea di costa romana di circa 6/8 metri. Intorno al primo secolo a.C. infatti l'intera zona costiera a nord di Napoli era una fiorentissima stazione climatica, resa alla moda anche dalla presenza di una villa imperiale, il Pausilypon appunto che dette il nome al promontorio di Posillipo, costruita dal ricco liberto Publio Vedio Pollione. Costui alla sua morte, nel 15 a.C., nominò Augusto erede di tutti i suoi beni, Pausilypon compreso. In seguito ingrandita ed abbellita come proprietà imperiale, tale luogo pare abbia visto il tragico concludersi della congiura contro l'imperatore Nerone. Fra gli ambienti di maggiore pregio, che oggi si trovano inabissati, meritano una menzione il Ninfeo di Punta Epitaffio, triclinium con funzione di sala per banchetti risalente all'epoca dell'imperatore Claudio, le cui statue sono state trasferite all'interno del Museo archeologico dei Campi Flegrei dove l'ambiente è stato ricostruito, Capo Miseno, sede storica della flotta imperiale romana, l’antico percorso stradale, oggi percorribile tramite esperienze subacquee oppure tramite barche dal fondale trasparente che permettono di vedere al di sotto, e il Portus Julius, un sobborgo dell’antica Puteoli (oggi Pozzuoli) costruito da Marco Vipsanio Agrippa su volere di Ottaviano (da cui il nome) nel 37 a.C. e che costituiva un immenso complesso portuale che collegava il lago Lucrino con il lago d’Averno, sommerso anch’esso dal fenomeno del bradisismo e riscoperto soltanto nel 1956.
Un luogo straordinariamente suggestivo, ricco di storia e di archeologia, che ne fanno di questo tratto di fondali una piccola Atlantide romano/napoletana. Alcune informazioni per la stesura di questo articolo sono state tratte dai seguenti siti: https://it.wikipedia.org/wiki/Parco_sommerso_di_Baia https://it.wikipedia.org/wiki/Portus_Iulius https://initalia.virgilio.it/parco-sommerso-di-baia-una-piccola-atlantide-napoletana-15135 Immagini tratte da: http://insolitaitalia.databenc.it/turismo/capo-miseno-le-origini-del-nome-nel-mito-delleneide/ https://it.wikipedia.org/wiki/Ninfeo_di_Punta_Epitaffio http://www.archeoflegrei.it/la-citta-sommersa/strutture_sommerse_del_portus_iulius_-_archivio_soprintendenza_speciale_per_i_beni_archeologici_di_napoli_e_pompei/ di Olga Caetani È una tiepida mattina dell’estate del 1944 a Roma. La Città Eterna è stata liberata dall’occupazione tedesca ai primi di giugno e tanta è la voglia di ricominciare a vivere. Dalla vetrina della sua bottega di antiquario, Sebasti vede passare in bicicletta il giovane architetto e critico d’arte Andrea Busiri Vici, a caccia di tesori e di fortuna. Lo invita a fermarsi ed entrare: deve assolutamente mostrargli una cosa. Si tratta di una tavoletta dipinta a olio su entrambi i lati. Sotto gli strati di polvere e sporcizia, emergono un finto stipetto a muro, al quale sono fissate da un nastro alcune lettere ripiegate, e una scena di caccia, con arcieri impegnati a colpire uccelli acquatici a bordo di piccole imbarcazioni affusolate. L’attribuzione a Vittore Carpaccio (Venezia, c. 1460-1526) e le indagini di Busiri Vici sulla travagliata storia collezionistica dell’opera destano subito scalpore, tanto che il doppio dipinto viene venduto in Svizzera, per raggiungere poi il Getty Museum di Malibù e infine di Los Angeles, ove è conservato tuttora. Ma questo non impedisce a Carlo Ludovico Ragghianti di formulare un’interessante ipotesi a partire dal dettaglio del giglio che appare dal margine in basso a sinistra della tavoletta. Il gambo del fiore “reciso” potrebbe essere quello che si intravede nel vaso sulla balaustra raffigurata in un altro olio su tavola, pressoché delle stesse dimensioni, firmato da Carpaccio e appartenente alla collezione del Museo Correr di Venezia. Inoltre, Ragghianti intuisce che la balaustra si affaccia non sul cielo azzurro ma su uno specchio d’acqua, probabilmente sulla stessa laguna nella quale, poco più a largo, si sta svolgendo la battuta di caccia agli uccelli. Le due donne sedute sulla terrazza, a lungo erroneamente identificate come cortigiane, sono, secondo questa lettura, ricche e annoiate dame veneziane in attesa del rientro dei propri mariti. Definito il cantore della vita mondana del primo Rinascimento veneziano, Carpaccio fissa un momento di intima quotidianità femminile, nobilitato dai numerosi significati simbolici insiti nella flora e nella fauna del dipinto. Il giglio, innanzitutto, allude alla castità matrimoniale, come il mirto, sulla destra, è pianta cara a Venere, mentre la coppia di colombe, il pavone, i cani sono simboli di fedeltà coniugale. Anche il fazzoletto bianco e la collana di perle indossata dalla più giovane concorrono a sottolineare le stesse virtù, oltre a impreziosire la puntuale descrizione degli abiti e delle acconciature alla moda del tempo. Le indagini radiografiche a cui sono state sottoposte le due tavolette negli anni ’90 sembrano confermare la brillante intuizione di Ragghianti. Combaciando perfettamente, anche dal punto di vista prospettico, esse costituivano un unico dipinto, diviso in due parti probabilmente già in epoca rinascimentale. Per di più, il lato sinistro mostra le tracce della presenza di cardini o cerniere, come se in origine l’opera fosse composta da un secondo pannello, oggi perduto, con l’aggiunta del quale, tra gli altri elementi, anche la figura del levriero in primo piano sarebbe risultata intera. Per quanto riguarda la funzione del dittico, non ancora del tutto chiara, i cardini esistenti lungo lo spessore destro e la dimensione complessiva in altezza fanno pensare alle ante di una porta che si apriva e chiudeva “a libro” su un piccolo vano, utilizzato come studiolo e ricavato, forse, all’interno della camera della sposa, per la quale era stato commissionato come dono di nozze, dato il tema allegorico che informa il dipinto dello stipite rimasto. Immagini tratte da:
Potrebbero interessarti anche: di Marianna Carotenuto Nelle opere d’arte spesso sono nascosti grandi o piccoli segreti; una storia, un’immagine nascosta, un doppio significato o addirittura un pettegolezzo. Ecco alcuni dei segreti che conservano i più celebri dipinti. Danae Una radiografia del ‘Danae’, fatta negli anni 60, ha rivelato un importante segreto. Nella versione originale del dipinto, la musa Danae di Rembrandt aveva proprio il volto di sua moglie Saskia. Dopo la morte della donna, avvenuta nel 1642, le sembianze della musa ricordano invece Geertje Dircx, la sua amante. Inoltre, Danae era famosa per la sua relazione con Zeus; quindi è possibile che l’artista abbia riversato sul dipinto la sua vicenda sentimentale. Old Fisherman Tivadar Csontváry Kosztka (1853-1919) è stato uno dei primi pittori ungheresi a essere conosciuto e apprezzato in ambito Europeo, anche dallo stesso Picasso. In questo ritratto di un vecchio pescatore è nascosto un segreto, svelato solo dopo la morte del pittore. Mettendo uno specchio in mezzo al dipinto e riflettendo soltanto una metà del volto, il personaggio si trasforma in due ritratti: una persona che prega e il diavolo La camera gialla di Vincent van Gogh Nel 1888, van Gogh ha acquistato un piccolo studio ad Arles, nel sud della Francia, dove si nascondeva da artisti parigini e critici. Nel mese di ottobre, iniziò a dipingere la “Camera da letto ad Arles”. La scelta dei colori e l’intimità generale, aspetti importanti del quadro, fanno intendere la volontà dell’autore di simboleggiare il comfort e la sicurezza. Per alcuni studiosi specialisti di Van Gogh, invece, le scelte cromatiche insolite hanno una spiegazione diversa: rappresentare cioè il desiderio mancato di sonno e riposo. Inoltre sappiamo che Vincent stava curando l’epilessia e per l’effetto collaterale dei farmaci, Van Gogh aveva una diversa percezione del colore, prediligendo il giallo e il verde. Forse il pittore vedeva il mondo proprio come lo dipingeva nei suoi quadri. Autoritratto con orecchio bendato e pipa In “Autoritratto con orecchio bendato e pipa”, Van Gogh si mostra con l’orecchio destro fasciato. In realtà l’orecchio ferito era il sinistro. Ciò è spiegato dal fatto che van Gogh usò uno specchio per creare l’immagine di se stesso. Il quadrato nero Al contrario di quanto si possa pensare, il ‘quadrato nero’ non è né nero né è un quadrato. Nessuno dei suoi lati sono paralleli tra loro, né i bordi della cornice. Inoltre, il ‘colore’ ‘nero’ è il risultato di una miscela di diversi colori, non è stata infatti usata una vernice propriamente nera. Il quadro è stato dipinto così, piuttosto che per negligenza dell’artista, per sua volontà di creare una forma mobile dinamica.
Immagini tratte da: www.studiarapido.it www.analisidellopera.it www.doppiozero.com Wikipedia pubblico dominio : Danae Rembrandt |
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Gennaio 2022
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