di Antonio Monticolo Una delle anfore a figure nere più famose è certamente quella che rappresenta Achille e Aiace intenti al gioco dei dadi o degli astragali. È opera del ceramografo Exekias e datata intorno al 530 a.C. I due sono rappresentati seduti di fronte e completamenti assorti nel gioco. Le lance di Aiace sono poste davanti al tavolino, mentre quelle di Achille cadono dietro conferendo profondità all’intera composizione. La scena offre allo spettatore una sensazione di caducità. Se da un lato l’attimo di riposo è sottolineato dagli scudi riposti alle loro spalle e dagli elmi (quello di Aiace è posto al di sopra dello scudo e quello di Achille è appoggiato sulla testa) dall’altro, proprio le armi e, in particolar modo le lance, sottolineano tutta la gravità della situazione. Sempre intorno al 530 a.C. si data un’altra anfora a figure nere di Exekias che rappresenta il suicidio di Aiace. Aiace ha perso la contesa con Odisseo per il possesso delle armi di Achille e colto da pazzia stermina un gregge di pecore scambiandole per nemici. Di fronte a tale infamia, Aiace decide di suicidarsi gettandosi sulla spada. Exekias rappresenta l’attimo prima del suicidio dell’eroe greco. La drammaticità della scena è data dalla solitudine dell’eroe ormai deciso a togliersi la vita. Aiace è inginocchiato, intento a posizionare la spada nel terreno. Alle sue spalle è raffigurata una palma, mentre le lance, lo scudo e l’elmo sono posti lontano perché ormai hanno perso la loro funzione. Immagini tratte da: - Immagine 1 - wikipedia: Exekias Pubblico dominio - Immagine 2 - wikipedia: Exekias CC BY-SA 3.0
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di Olga Caetani Giovanni Francesco Barbieri, meglio noto con il soprannome di Guercino, a causa di uno strabismo all’occhio destro, trascorse a Roma un periodo brevissimo rispetto agli altri pittori provenienti dalla scuola bolognese dei Carracci, ma non per questo meno ricco di capolavori, capaci di lasciare il segno nello sviluppo del Barocco romano. Più giovane di tutti i suoi conterranei, fu senza dubbio il più moderno, in termini di stile e di scelte iconografiche. Ludovico Carracci lo presentava come “gran disegnatore, e felicissimo coloritore […] mostro di natura, e miracolo da far stupir chi vede le sue opere”, tanto che, ben presto, ottenne la protezione del cardinale Alessandro Ludovisi. Non appena costui ascese al soglio pontificio, con il nome di Gregorio XV, lo invitò a raggiungerlo a Roma. Nella Città Eterna, Guercino poté conoscere, oltre all’antico, l’opera di Michelangelo, Raffaello e Annibale Carracci, con l’esempio dei quali il suo stile dal tratto rapido e volutamente tremolante acquistò maggiore eloquenza e monumentalità. Ma, al contempo, Guercino fu immediatamente attratto dalle straordinarie novità introdotte da Caravaggio, riprendendone il tenebrismo e l’attenzione al dettaglio naturalistico. Del Merisi, Guercino ebbe modo di osservare da vicino un’opera che costituisce un unicum all’interno della vasta produzione del genio lombardo: l’olio su muro – Caravaggio infatti dipinse sempre su tela e mai ad affresco – per il soffitto del camerino alchemico del cardinale Francesco Maria Del Monte, al piano nobile del “casino” della sua villa suburbana presso Porta Pinciana, all’epoca aperta campagna. Giove, Nettuno e Plutone, personificazioni dell’aria, dell’acqua e della terra, nonché dei tre stati della materia, si stagliano, seminudi e possenti nel modellato, su un cielo temporalesco, con al centro la sfera luminosa dei segni zodiacali. La visione dei nudi virili dal sotto in su certamente eludeva ogni forma di decorum seicentesco, ma si trattava pur sempre di un ambiente privato, dedito alla pratica empirica dell’alchimia. Nel 1621, il “casino” di Del Monte fu acquistato dal cardinal nipote Ludovico Ludovisi, che affidò a Guercino la decorazione della sala contigua al camerino alchemico e di quella sottostante, situata al piano terreno. Qui, sul soffitto a volta illusionisticamente “sfondato”, oltre la finta architettura realizzata ad affresco da Agostino Tassi, Guercino dipinse il carro dell’Aurora, il cui “passaggio” è reso possibile dall’architrave parzialmente diruto che costituisce l’antro, rischiarato soltanto dal lume di una lucerna, ove si è appisolata la Notte, con un libro aperto sulle gambe e i due figli dormienti, allegoria del Sonno e della Morte. Altri simboli sinistri della donna sono la civetta e il pipistrello volteggiante nel cielo scuro. Nella lunetta opposta, invece, appare il Giorno, un giovane alato, portatore di luce, preceduto dal carro dell’Aurora, che campeggia al centro della volta, trainato da due possenti cavalli pezzati. La soluzione adottata da Guercino per la raffigurazione dell’Aurora, che segue i dettami dell’Iconologia di Cesare Ripa (1593), si discosta completamente da quella proposta da Guido Reni qualche anno prima nel soffitto del Casino dell’Aurora di Palazzo Pallavicini-Rospigliosi, allora proprietà di Scipione Borghese: una composizione maggiormente statica, che ricorda un fregio classico, certamente preziosa, raffinata ed elegante, ma forse priva di quella potenza suggestiva che Guercino è stato capace di infondere col calore della tempera. Una scala a chiocciola conduce dalla Sala dell’Aurora alla Sala della Fama, incarnata da una florida figura femminile che spicca il volo trionfante al suono della tromba, con al seguito l’Onore e la Virtù. Nel rosso cremisi e nel giallo-oro delle loro vesti sono ravvisabili i colori del simbolo araldico della famiglia Ludovisi, la cui fama, in seguito al pontificato di Gregorio XV, sarà consacrata in eterno. Guercino si muove verso una direzione molto più movimentata e complessa - in una parola “moderna” - anticipando alcune conquiste spaziale e compositive degli anni avvenire. Alle finte colonne tortili che reggono la trabeazione della Sala della Fama, infatti, dovette guardare anche Bernini, circa un decennio più tardi, per il Baldacchino di San Pietro, una delle opere fondanti lo stile barocco. Immagini tratte da:
Potrebbero interessarti anche: di Ilaria Ceragioli Nell’immaginario comune la parola “scarabocchio” ha da sempre avuto un’accezione piuttosto negativa in quanto normalmente utilizzata come sinonimo di “pasticcio”, di “sgorbio”. Colui che scardinò, o per meglio dire, superò questa concezione dispregiativa attribuita a questo “segnaccio” apparentemente privo di significato e di valore, fu indubbiamente il celeberrimo artista americano Cy Twombly. Nel 1951 Twombly realizza la sua prima mostra presso la Kootz Gallery di New York, mentre l’anno successivo compie il suo primo viaggio in Italia, paese in cui si stabilì in via definitiva qualche anno dopo (morirà infatti a Roma nel 2011, all’età di 83 anni). Qui, più precisamente a Roma, Gaeta e Napoli, acuisce il suo già forte interesse per la storia e per l’antichità. Ciò emerge, ad esempio, nella sua Leda and the Swan (Leda e il cigno) del 1962. Un energico ingarbugliarsi di linee e di segni di matita, pastello e colori a olio rende qui omaggio all’amore di Twombly per la classicità e per la mitologia. Infatti, il mito narra che Giove si tramutò in un cigno per unirsi a Leda, l’affascinante regina di Sparta. Nonostante le svariate e prepotenti sovrapposizioni dei tratti, nell’opera sono facilmente riconoscibili un fallo e dei cuori che, senza troppa esitazione, emergono da questo caos materico. Al 1970 risale invece Untitled, tela appartenente alla Collezione Menil e conservata presso la Cy Twombly Gallery di Houston. Si tratta di una composizione che rientra all’interno di una serie di opere che visivamente ricordano lo stesso effetto generato dalla scrittura in gesso su una lavagna. Su uno sfondo grigio scuro emergono così innumerevoli linee tendenzialmente circolari e di colore bianco. Twombly ci invita a rifiutare lo stereotipo estetico servendosi di un segno piuttosto goffo e “infantile” che riproduce, talvolta, una calligrafia calcata e modellata che trova la sua esistenza ed essenza nel gesto. Tale gesto non ha origine da un momento di tedio, ma nasce dall’esigenza di azione che, inevitabilmente, produce effetti sulla percezione visiva e mentale dello spettatore. Il gesto dà vita a pulsioni discontinue ed evoca un’idea libera dalla repressiva razionalità permettendoci così di godere pienamente della spontaneità dell’andamento indomabile di un tratto o di una pennellata, ormai privi di regole e di limiti. Più recente (2001) è Lepanto, un ciclo pittorico composto da 12 tele create dall’artista statunitense per la Biennale di Venezia e attualmente esposto al Museum Brandhorst di Monaco di Baviera. Si osservano composizioni cromatiche costituite da sfumature di giallo, rosso, turchese e azzurro che riescono a trasmettere il dramma generato dalla celebre Battaglia di Lepanto (1571), conflitto navale in cui la Lega Santa (coalizione di truppe spagnole, veneziane e papali) sconfisse l’imponente flotta ottomana segnando così la fine del dominio nel Mediterraneo (di seguito Lepanto III e Lepanto XII). L’eccellenza creativa e stilistica dell’attività artistica di Cy Twombly, racchiusa nella denominazione di “Simbolismo romantico”, è oggi maggiormente testimoniata dal valore economico attribuitole dal mercato mondiale: ad esempio, nel 2017 il dipinto Leda and the swan (soggetto mitologico che compare per almeno 6 volte nella sua produzione artistica) fu venduto dalla Christie’s, celebre casa d’aste di New York, per ben 52, 9 milioni di dollari.
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Gennaio 2022
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