IL TERMOPOLIO
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25/10/2016

"Michelangelo secondo me": il citazionismo di Tano Festa tra Rinascimento e Pop Art

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​di Alessandro Rugnone
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La creazione dell'uomo, (1964)
"Festa sa bene [...] come sia impossibile superare di slancio la distanza e come la storia non sia un impaccio ma piuttosto l’esito di un tracciato e di un percorso capace di armare il procedimento creativo con strumenti di dialogo [...] mediante la pratica della citazione. L’artista non vuole emulare nella tecnica gli antichi maestri, Michelangelo, Van Eyck o Ingres. Egli ne riconosce la distanza e ne amplifica il distacco attraverso l’iscrizione iconografica nei fotogrammi della sua pittura" (A. Bonito Oliva, “Il tallone di Achille. Sull’arte contemporanea”, Feltrinelli, Roma 1988).
FotoRenato Mambor, Giosetta Fioroni, Sergio Lombardo, Cesare Tacchi, Jannis Kounellis,Umberto Bignardi, Tano Festa (Scuola di Piazza del Popolo)
Tano Festa, assieme ai coetanei Mario Schifano, Franco Angeli e ad un nutrito gruppo di giovani artisti poco più che ventenni come Mambor, Fioroni, Tacchi, Cerioli, Lombardi e Kounnellis, fu tra i più significativi protagonisti di quella Giovane scuola di Roma o Scuola di Piazza del Popolo (dal nome della piazza romana dove artisti, intellettuali e letterati erano soliti incontrarsi attorno ai tavoli dello storico Caffè Rosati o nella sede della galleria La Tartaruga in via del Babuino di proprietà del gallerista e mercante d'arte Plinio de Martiis) che fece della Roma dei primissimi anni '60 la città italiana capace più di ogni altra di rispondere in modo originale e indipendente agli stimoli di movimenti artistici di transizione come New Dada, Pop Art, Nouveau Réalisme, che, pur condizionati dai tratti dell’Informale europeo, dell’Action painting e dell’Espressionismo astratto statunitense, aprirono la strada ai caratteri che poi avrebbero dominato l’arte nei decenni successivi. Nato a Roma il 2 Novembre del 1938, Tano Festa si diploma in fotografia artistica nel 1957 presso l'istituto d'Arte in via Conte Verde con uno studio sugli effetti cromatici che si ottengono in camera oscura gettando l'acido direttamente sulla carta fotografica. I disegni che sono rimasti a testimoniare i suoi esordi, tra il 1956 e il 1958, hanno chiare ascendenze surrealiste e sono debitori del magistero del grande pittore surrealista cileno Roberto Matta: "Eravamo tutti attratti dal Surrealismo" – ricorda Renato Mambor – "Tano all'inizio faceva delle cose un po' surreali [...] eravamo entrambi inamorati del primo Matta". Nel 1959 espone in una collettiva insieme a Franco Angeli e Giuseppe Uncini alla galleria La Salita, di Gian Tomaso Liverani, all'epoca una delle più prestigiose a Roma per l'arte contemporanea.

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La camera rossa, (1963)
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Persiana, (1963)
Nel 1960 abbandona la gestualità informale e realizza i suoi primi dipinti monocromi. Sono ampie e omogenee campiture di colore rosso (un rosso che ricorda la luce utilizzata nella camera oscura nella fase dell'impressione fotografica) alternate a strisce di carta imbevute delo stesso colore che solcano la tela verticalmente e la dividono in sezioni non regolari. Nel novembre dello stesso anno Festa, Angeli, Schifano, Lo Savio e Uncini inaugurano a La Salita la nota mostra "Roma 60. 5 pittori". Le strisce di carta imbevute di colore vengono ora sostituite da listelli di legno disposti verticalmente e a intervalli irregolari. Il combine-painting (o assemblaggio) che ne deriva, di chiara impronta oggettuale-Novodadaista-Novorealista, e l'uso di vernici industriali al posto della tempera a olio, contribuiscono a annullare definitivamente la partecipazione emotiva dell'autore. Nel 1962 fanno il loro ingresso nell'arte di Tano Festa gli oggetti. Finestre, porte, armadi, mobili ricostruiti dall'artista secondo una logica straniante e antinaturalistica, privi di cardini, maniglie, serrature, perennemente chiusi. Espone alla galleria Sidney Jais di New York assieme ai principali artisti internazionali interessati alle poetiche dell'oggetto, quelli della corrente definita in america New Dada e in Francia Nouveu Réalisme, dal cui ambito emergerà di lì a poco la Pop Art. Al 1963 appartengono le sue celebri rivisitazioni in chiave pop art dei grandi maestri della pittura del passato da Michelangelo, ad Ingres, a Van Eyck. 
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Particolare dei Coniugi Arnolfini, (1963)
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Odalisca, (1963)
La prima figura tratta da un'opera cardine del canone pittorico occidentale ad essere reinterpretata dall'estro dell'artista romano è l'effige del mercante lucchese Giovanni Arnolfini dipinta nel 1434 da Jean Van Eyck ne "I coniugi Arnolfini", celebre tela esposta alla National Gallery di Londra. Tra le sue prime citazioni figura anche la "Grande Odalisca" di Ingres, ora conservata al Louvre ("questa (la Grande Odalisca) mi piace, potrei metterla in un quadro come potrei metterci una pianta, una macchina, una persiana"), ma le immagini tratte da Michelangelo saranno le più frequenti e assidue lungo tutto il percorso creativo ed artistico di Festa. Le opere derivate da Michelangelo si susseguono infatti nella produzione dell’artista senza soluzione di continuità per circa un ventennio, a partire dal 1963. La prima opera di Festa a contenere un'iconografia michelangiolesca è "Particolare della Sistina dedicato a mio fratello Lo Savio" del 1963, citazione dell'Adamo di Michelangelo così come compare sulla volta della Sistina. Francesco Lo Savio era morto nel settembre di quello stesso anno e il tema biblico della nascita della vita nella Creazione di Adamo era associato, in relazione oppositiva, a questo tragico avvenimento. Tratte dallo stesso soggetto sono le due versioni de "La Creazione dell'Uomo" esposte alla Biennale di Venezia del 1964. Si tratta di strutture di legno composte da quattro pannelli verticali, di diverse misure, affiancati e uniti a formare quasi un paravento, al cui interno viene sezionata la figura di Adamo che protende il braccio verso il Creatore. In questi lavori l'immagine antica, tratta spesso da una fotografia in bianco e nero di matrice Alinari, è stampata su carta e trasposta su tela. Su questa immagine poi l'artista interveniva con lo smalto, cancellandone alcuni particolari. Alla galleria La Tartaruga di Roma nel 1964 espone le prime opere dove appare un nuovo particolare dell'opera michelangiolesca, la testa dell'Aurora, una figura scultorea appartenente al complesso monumentale delle tombe di Giuliano e Lorenzo de' Medici nella Sacrestia Nuova in San Lorenzo a Firenze. Il soggetto michelangiolesco questa volta viene realizzato attraverso la tecnica della proiezione su tela (con proiettore), ricalco a mano e campitura a smalto. A New York, nel 1967, Festa torna ossessivamente sull'iconografia michelangiolesca dipingendo quasi esclusivamente il particolare dell'Aurora delle tombe medicee e intitolando le sue tele "Michelangelo according to Tano Festa". Furio Colombo, presentando una selezione di queste opere alla galleria Arco d'Alibert nel 1968, poi riproposta alla galleria Il Punto di Torino, scriverà: "Si è portato un'ossessione in classe turistica da Roma a New York e da New York a Roma, come si porta una malattia, un sogno ricorrente, una storia d'amore [...]" Il raffinato citazionismo di Festa disseminerà l'intera produzione degli anni '70/'80 di omaggi alla grande arte antica e del recente passato (Leonardo da Vinci, Turner, Velasquez, Manet, Cezanne su tutti) instaurando coi Maestri un dialogo mai sterile e pedissequo ma sempre proficuo e fecondo di suggestioni e di sviluppi che accompagnerà l'artista romano fino alla morte sopravvenuta precoce all'età di quarantanove anni.
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Michelangelo according to Tano Festa, (1967)
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Particolare delle Tombe Medicee, (1965)
Immagini tratte da: 
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1 www.piccolenote.ilgiornale.it
2 www.gruppodipiombino.blogspot.it
3, 4, 6, 7, 8 www.artslife.com
5 www.dagospia.it

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24/10/2016

Medardo Rosso: sculture di luce

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di Olga Caetani

A partire dagli anni Sessanta-Settanta dell’Ottocento, le ricerche artistiche in pittura  e scultura non proseguirono più in parallelo, ma subirono una sorta di divaricazione a svantaggio della scultura stessa. Lo si percepiva soprattutto passeggiando nelle vie e nelle piazze cittadine di quei paesi che all’epoca avevano da poco raggiunto l’unità nazionale, compreso il Regno d’Italia. Le strade si abbellirono di statue monumentali raffiguranti i momenti salienti, ma anche i singoli “eroi” del Risorgimento, con intenti celebrativi e pedagogici in senso patriottico. Numerose effigi di Garibaldi, Mazzini, Cavour venivano fuse in bronzo con un ritmo quasi industriale che lasciava ben poco spazio all’inventiva dell’artista, obbligato a sottostare ai canoni dell’alta committenza pubblica. Umberto Boccioni sintetizzò chiaramente l’insofferenza per questo genere di produzione artistica con i toni aspri e diretti del suo Manifesto tecnico della scultura futurista, pubblicato nel 1912. Secondo Boccioni, l’unico grande scultore italiano moderno “che abbia tentato di aprire alla scultura un campo più vasto, di rendere con la plastica le influenze di un ambiente e i legami atmosferici che lo avvincono al soggetto” fu Medardo Rosso. Nato a Torino nel 1858, dopo i primi approcci con la pittura e con il marmo in scultura, intraprese il consueto iter formativo degli artisti del tempo, iscrivendosi ai corsi dell’Accademia di Brera dal 1882. A Milano si avvicinò al movimento artistico-letterario della tarda Scapigliatura, portandone le premesse alle estreme conseguenze e prediligendo tematiche sociali alle scene di vita borghese. Molto presto le sue sculture si affrancarono dai sentimentalismi romantici e da ogni minuzia descrittiva, divenendo fresche e immediate  traduzioni di attimi fugaci tratti dalla realtà circostante. Questo genere di vibranti e vivide opere non poteva essere scolpito in marmo, che richiedeva innanzitutto un’attenta fase progettuale, quindi una lunga lavorazione. Così Medardo adottò la tecnica di modellazione in gesso e soprattutto in cera, conferendo a questi materiali dignità artistica, dato che in precedenza venivano scelti solo per l’esecuzione di bozzetti preliminari. La portinaia, di questo periodo, è raffigurata in un momento rubato al quotidiano. Gli occhi sono infossati e il capo è reclinato in una profonda stanchezza, tale che il mento si fonde letteralmente con il petto, effetto reso possibile dalla duttilità della materia impiegata.
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La portinaia, 1883, gesso, Barzio, Museo Medardo Rosso
In contrasto con i tradizionali metodi di insegnamento, Rosso fu espulso dall’Accademia. Si recò a Parigi, città immersa in un clima culturale che aveva appena conosciuto l’Impressionismo, perciò favorevole alle sue figure dai contorni evanescenti, quasi smaterializzate e fatte di luce, frammenti di visioni da osservare da un punto di vista singolo, secondo il volere dell’artista. La sua partecipazione al Salon des Indépendants del 1886 fu un successo. Perfettamente integrato nella vita parigina, conobbe Zola, Degas, Rodin, la cui poetica del “non finito” è diversa dalle ricerche di vivo dinamismo di Rosso, secondo il quale “come la pittura, anche la scultura ha la possibilità di vibrare in mille spezzature di linee, di animarsi per via di sbattimenti d’ombre e di luci, più o meno violenti, d’imprigionarsi misteriosamente in colori caldi e freddi”. L’età dell’oro o Aetas aurea fissa in cera un’intima istantanea di vita dell’artista: la moglie Giuditta Pozzi è intenta a calmare il pianto del figlio Francesco, sussurrandogli dolci parole di conforto.
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Aetas aurea, cera su anima di gesso, Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea
Problematica nella datazione (probabilmente il 1896), in quanto sconcertante per la sua modernità a queste altezze cronologiche, è Madame X. Il titolo ci suggerisce un volto femminile, ma ogni riferimento fisionomico è qui annullato, complice la luce. Forse si tratta di un’anonima espressione di dolore e angoscia, capaci di far sprofondare la figura in una rarefazione totale dei connotati. Certa è l’ambiguità dell’opera, modellata sia con “il tocco sensuale del pollice, che imita la leggerezza della pennellata impressionista”, come scrive Boccioni, sia con netti colpi di spatola. Le analogie con La musa addormentata di Constantin Brancusi (1910) si sprecano: con la scultura di Medardo Rosso viene a chiudersi l’Ottocento. 
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Immagini tratte da:
- www.scultura-italiana.com
- www.scultura-italana.com
- www.arte.it
- www.centrepompidou.fr

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18/10/2016

Dalì e Il sogno del classico a Palazzo Blu

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di Livia de Pinto
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Saranno in mostra a Palazzo Blu fino al 5 febbraio 2017 le opere di Salvador Dalì, uno degli artisti più celebri, poliedrici e controversi del Novecento. Non il Dalì appartenente al periodo surrealista e universalmente noto, dal cui gruppo venne per altro espulso già nel 1939, ma quello mistico ed estremamente riflessivo che un giorno, dagli Stati Uniti, dove si era trasferito con la moglie Gala a causa della guerra, aveva dichiarato :“DIVENTARE CLASSICO […] ʻOra o mai piùʼ”; era il 1941 e Dalì, conscio della necessità di un cambiamento da imprimere alla sua pittura, avrebbe mantenuto la parola fino alla fine.
            Dal nucleo di circa 150 opere ospitate dalla Fondazione Palazzo Blu, con il patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, dell'Ambasciata di Spagna in Italia, della Regione Toscana e del Comune di Pisa e provenienti dal Dalì Museum di St. Petersburg in Florida, dal Teatro Museo Dalì di Figueres e dai Musei Vaticani, traspare chiaramente l'importanza assunta dall'Italia e, in particolar modo, dall'arte del suo Rinascimento per la svolta data dall'artista di Figueres alla propria produzione durante il suo percorso artistico.
            Come a sottolineare il profondo sentimento mistico e religioso riscoperto da Dalì dopo l'uscita dal gruppo Surrealista, la mostra apre le sue porte ai visitatori con un nucleo di quattro dipinti – La Trinità (Studio per Il concilio ecumenico), 1960, Paesaggio di Portlligat, 1950, Sant'Elena a Portlligat, 1956 e L'Angelo di Portlligat, 1952 – dove capitale si rivela il suo nuovo spirito religioso e, in tre opere su quattro, il paesaggio della località di Portlligat, tanto cara all'artista, dove è immersa la figura della moglie Gala, qui ritratta come donna angelo, nuova guida salvifica, musa innalzata al ruolo, che mai perderà per l'artista, di divina e immanente ispiratrice.
            Cuore pulsante dell'esposizione, che accompagna i visitatori per tutta la durata della mostra, è poi la serie di illustrazioni commissionate a Dalì dal Governo italiano per la Divina Commedia in occasione del 700° anniversario della nascita di Dante Alighieri. Hanno una storia travagliata questi 102 acquarelli realizzati tra gli anni Cinquanta e Sessanta per l'Istituto Poligrafico dello Stato, soprattutto per le polemiche relative ai costi di realizzazione e alla nazionalità non italiana dell'artista affidatario della commissione; ciononostante Dalì li realizzò tutti, illustrando le vicende dell'Inferno, del Purgatorio e del Paradiso danteschi, dove, oltre al persistente insorgere di ricordi surrealisti dell'artista, ben identificabili in certe linee “nervose” e in elementi ricorrenti come la famosa “stampella” daliniana, traspare la passione per il classico da lui abbracciata ormai da circa dieci anni e, in particolar modo, per le opere del grande Michelangelo Buonarroti.

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Salvador Dalí, I principi della valletta fiorita, Purgatorio, Vol. 1, Canto VII. Illustrazione per la Divina Commedia, 1959-1963.

Sono proprio le opere di Michelangelo che, soprattutto, insieme a quelle dei grandi maestri del passato come Raffaello e Perugino, rivivono nel nucleo di lavori che si snoda attorno agli acquarelli danteschi durante il percorso espositivo. In particolare, gioiello della mostra sono alcuni dipinti pienamente attinti dal Rinascimento italiano – quattro dei quali inediti –  attribuibili alle ultime creazioni dell'artista realizzate negli anni Ottanta. Mediante essi, Dalì è in grado di trasmetterci, ancora oggi, il suo profondo rispetto per l'arte del passato e, contemporaneamente, la perenne e intrinseca necessità di un suo superamento attraverso un'innovazione che attinge a piene mani dalla contemporaneità. Eco geologica, ad esempio, lavoro del 1982, è la riproposizione della marmorea Pietà di Michelangelo ubicata nella Basilica di San Pietro in Vaticano, dove l'artista di Figueres attua una sorta di fusione tra la Madonna con il Cristo e il paesaggio retrostante attraverso una serie di intarsi che “bucano” la Vergine e il Cristo lasciando trasparire terre e rocce retrostanti, creando così un'opera intrisa di elementi mistici e surrealisti al tempo stesso. Il guerriero o Los embozados, ovvero Lorenzo de' Medici dalla tomba di Lorenzo de' Medici di Michelangelo è un'altra opera del corpus di lavori dell'ultimo periodo di produzione dell'artista dove, ancora una volta, lo spirito del classico e quello surrealista si fondono in un'opera capace di esprimere il senso del classicismo daliniano. Nuovamente, il paesaggio e il volto di Lorenzo de' Medici si compenetrano creando un'immagine dal forte senso mistico, intriso di reminiscenze surrealiste come, ancora, la “stampella” posta sotto il naso del guerriero o il famoso orologio mollemente adagiato sull'orecchio.

Salvador Dalí, Eco geologica, dalla Pietà di Michelangelo, 1982; Salvador Dalí, Il guerriero o Los embozados, 1982
Nelle stanze del piano superiore Palazzo Blu ospita poi un ulteriore nucleo di illustrazioni per la letteratura; si tratta dei lavori su carta creati per The Autobiography of Benvenuto Cellini a seguito dell'incarico ricevuto nel 1945 dall'editore Doubleday&Company per la nuova edizione inglese dell'opera celliniana, di cui la maggior parte è stata fatta dall'artista sullo stesso tipo di carta tagliata in formati differenti con l'accompagnamento del testo di riferimento, in francese, con la grafia di Gala. Stampato in sole mille copie firmate e numerate, tale lavoro vide la luce in California, dove Dalì produsse in totale quarantuno illustrazioni su carta di cui sedici a colori realizzati ad acquarello e inchiostro e venticinque a inchiostro su carta, in bianco e nero, tutti dimostrazione della profonda ammirazione provata dall'artista spagnolo per l'antico artista, abile tanto nella scrittura, quanto nella scultura e nell'oreficeria.
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Salvador Dalí, illustrazione per The Autobiography of Benvenuto Cellini, 1945

Come un nuovo umanista, Dalì non cessò mai di esibire nella sua produzione i propri interessi intellettuali e le personalissime teorie in perenne mutamento, rivelandosi capace di amalgamare all'interno dei suoi quadri soggetti classico-rinascimentali con argomenti puramente contemporanei di matrice scientifica – come nel caso dell'interesse dell'artista, nato a fine degli anni Quaranta, per gli studi in ambito nucleare –  o religiosa. La mostra di Palazzo Blu tenta, in definitiva, di porre in evidenza la capacità, che fu propria dell'artista di Figueres, di fondere senza alcuna forzatura il sentimento della modernità con il senso del presente, riscontrabili tanto nelle tematiche abbracciate quanto nella tecnica pittorica da lui adottata.

Immagini tratte da www.mostradalipisa.it

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17/10/2016

Heinrich Schliemann e la scoperta di Troia "dalle possenti mura"

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di Antonio Monticolo

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Heinrich Schliemann nacque nel Land Meclemburgo-Pomerania (uno degli stati federati tedeschi) nel 1822. Figlio di un pastore protestante, fu il padre ad avvicinarlo all’antico sia leggendogli versi dell’Iliade e dell’Odissea sia regalandogli un libro in cui l’immagine della città di Troia in fiamme colpì moltissimo l’immaginario del piccolo Heinrich. Intraprese studi classici frequentando il ginnasio della città, ma per motivi economici dovette cessarli e iniziò un apprendistato presso un commerciante di Fürstenberg.
Gli anni che vanno dal 1841 al 1868 sono quelli in cui Schliemann si dedica all’attività di commerciante. Viaggiò in tutto il mondo, dall’Olanda, dove imparò l’inglese, il francese, l’italiano e il portoghese alla Russia passando per gli Stati Uniti dove farà una vera e propria fortuna prestando soldi ai cercatori d’oro.
Abbandonata del tutto l’attività di commerciante, Schliemann si recò in Turchia alla ricerca della città di Priamo.
 
Leggiamo dal suo diario: “Il 6 Agosto, all’una di notte, partii dal Pireo alla volta dei Dardanelli sul Nil, un vapore delle Messageries impériales”.


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Schliemann, dopo aver ottenuto i permessi necessari per scavare, si dedicò completamente alla ricerca della città di Troia. Dopo attente osservazioni del territorio, comprese che Ilio (antico nome della città di Troia) non potesse trovarsi nel luogo del moderno villaggio di Bunarbaschi perché la sua morfologia non corrispondeva alla descrizione che ne viene fatta nei poemi omerici.
 
Ecco le parole del 14 Agosto 1868
:” Verso le dieci del mattino arrivammo a un terreno elevato, molto esteso, coperto di cocci e di frammenti di blocchi di marmo lavorati. Quattro colonne ritte, isolate, sepolte a metà nel terreno indicavano la presenza di un tempio antico. La superficie disseminata di frammenti era così estesa che non si poteva dubitare di trovarci nel perimetro di una grande città, un tempio fiorente, e in effetti eravamo sulle rovine di Nuova Ilio, chiamata ora Hissarlik, che significa palazzo[…]” e continua :”Mi recai alla città di Jeni Schehr sul promontorio del Sigeo […]. Di là si gode di un’ottima vista di tutta la piana di Troia. Quando mi trovai sul tetto di una casa, con l’Iliade in mano, e osservai il panorama, mi pareva di vedere sotto di me la flotta, il campo e le assemblee dei Greci, Troia e la rocca di Pergamo sull’altura di Hissarlik, le marce e le contromarce e le battaglie delle truppe nella pianura fra la città e il campo. Per due ore feci sfilare davanti ai miei occhi i fatti principali dell’Iliade, finché l’oscurità e una gran fame mi costrinsero a scendere”.

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Vennero scavate trincee che portarono alla luce ben sette strati testimonianze della diacronia della città. Schliemann identificò il secondo strato (2600-2350 ca. a.C.) come quello attribuibile alla Troia omerica. Infatti si accorse che in questo strato vi erano tracce di incendio che attribuì immediatamente all’assedio degli Achei. Inoltre, in questo strato, Schliemann trovò anche quello che definì “Il tesoro di Priamo”, un cospicuo numero di oggetti d’oro (e non solo) che secondo la tradizione venne nascosto dal re al momento dell’assedio.
 
Eccone il racconto: ”17 Giugno 1873. Dietro a questo muro, a otto-nove metri di profondità, ho portato alla luce la cinta troiana che prosegue oltre la Porta Scea, e scavando ancora sullo stesso muro, nei pressi immediati della casa di Priamo, mi sono imbattuto in un grosso oggetto di rame […] che ha attirato tanto più la mia attenzione in quanto mi pareva di scorgere oro dietro di esso […]. Per sottrarre il tesoro all’avidità degli operai […] feci subito ordinare il paidos (una parola di origine incerta, passata in turco, che qui si usa per il riposo), e mentre gli operai mangiavano e si riposavano estrassi il tesoro con un grosso coltello”.
 
Prima di spedirli ad Atene, fece indossare alcuni oggetti alla moglie, Sophia Engastroménou, (un’ateniese sposata in seconde nozze) per avere davanti agli occhi l’immagine della bellezza di Elena.
Oggi, secondo gli studi dell’archeologo statunitense Blegen, si ritiene che lo strato VIIa (1300-1170) sia quello attribuibile alla città cantata nei versi dell’Iliade.

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L’approccio portato avanti da Schliemann, che non si basava su una metodologia scientifica, ma su intuizioni, ha causato moltissimi danni. Allo stesso tempo però ha rappresentato una delle prime applicazioni dell’uso dei sondaggi preliminari e della datazione degli strati archeologici attraverso manufatti tipologicamente riconosciuti.
Immagini tratte da:
- wikipedia, pubblico dominio, voce: Heinrich Schliemann
- wikiepdia, CherryX, CC BY-SA 3.0, voce: Troia
- wikipedia, CherryX, CC BY-SA 3.0, voce: Troia
- wikipedia, pibblico dominio, voce: Heinrich Schliemann

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17/10/2016

Sofonisba Anguissola: la prima celebre pittrice italiana del ‘500

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di Ilaria Ceragioli
Se ci soffermassimo a riflettere sul nome di una pittrice italiana del Rinascimento inevitabilmente balzerebbe subito alla mente quello di Artemisia Gentileschi. Fu senza dubbio una rilevante e talentuosa artista italiana, ma erroneamente a quanto si è soliti credere, non fu la prima.
Circa una sessantina di anni prima, ossia il 2 febbraio del 1532, infatti, nacque nella città di Cremona una nobil donna dai grandi occhi azzurri, primogenita di sei sorelle e orfana di madre, nonché colei che merita di essere considerata la prima importante pittrice italiana dell’Epoca Rinascimentale: Sofonisba Anguissola.
Il suo nome probabilmente è noto a pochi, ma la sua produzione artistica è degna di nota.
Sofonisba si formò presso la scuola di Bernardino Campi, un importante pittore del Manierismo italiano, ma non bisogna dimenticare che il ‘500 è un periodo ancora ingrato e ostile nel riconoscimento di abilità artistiche legate al sesso femminile, tant’è che alla stessa pittrice non fu concesso lo studio della prospettiva, della matematica e della tecnica dell’affresco. Si trattavano infatti, di capacità associate esclusivamente ad individui maschili. Questa proibizione porterà Sofonisba Anguissola a dedicare l’intera attività artistica ad un unico genere pittorico, quello della ritrattistica in cui sarà solita riprodurre se stessa, i familiari e gli illustri personaggi della corte spagnola. Il suo genio pittorico fu subito compreso da molti artisti e committenti tant’è che lo stesso Giorgio Vasari dopo aver visto parte dei suoi ritratti affermò: “Tanto ben fatti che pare che spirino e siano vivissimi”.
Al 1554 risale il celebre Autoritratto oggi custodito presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna.

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La donna è posta di tre quarti e i grandi occhi color del cielo osservano lo spettatore, ma non lasciano trasparire emozione alcuna. I capelli sono saldamente raccolti e in una mano reca un libricino, indice di una donna colta e dedita alla lettura.
L’anno successivo realizza un altro rilevante ritratto: Le sorelle della pittrice Lucia, Minerva e Europa Anguissola giocano a scacchi.

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Le protagoniste divengono così le sue amate sorelle colte in un momento della giornata dedicato al gioco degli scacchi. La scena è ambientata all’aperto e alle loro spalle si staglia un velato e offuscato paesaggio montuoso. Sofonisba insiste fortemente sulla resa della gestualità e delle diverse espressioni del volto mettendo in evidenza il loro tenero legame e la quotidianità della scena raffigurata.
Qualche anno dopo la pittrice si recherà in Spagna dove, una volta esser divenuta ritrattista ufficiale presso la corte del re Filippo II, realizzerà altri ragguardevoli e affascinanti ritratti tra cui il Ritratto di Filippo II (1565) ottenendo così prestigiosi elogi.

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Il re spagnolo dall’abito lussuoso e dalla tonalità scura, ha un incarnato estremamente pallido ed è anch’egli posto di tre quarti. Lo sguardo è volto nuovamente in direzione dello spettatore ed il regnante è presentato in una posa raffinata e autorevole. Meticolosa è l’attenzione rivolta alla resa dei tratti caratterizzanti del volto di Filippo II tanto da renderlo immediatamente riconoscibile.
Grazie alle sue indiscutibili doti artistiche Sofonisba Anguissola conquistò rapidamente una fama internazionale, ma con il passare del tempo la sua carriera artistica fu drasticamente compromessa da un terribile calo della vista. La sua morte sopraggiunse nel 1625 e venne sepolta a Palermo nella chiesa di San Giorgio dei Genovesi.
Dopo la sua scomparsa diverrà ritrattista ufficiale della corte di Spagna il celeberrimo Antoon Van Dyck, il quale dedicherà a Sofonisba un ritratto noto come il Ritratto di Sofonisba Anguissola, esplicitando in tal modo la profonda stima e ammirazione che nutriva nei confronti di quella che fu non solo un’eccellente ritrattista, bensì la prima illustre pittrice italiana di fama mondiale.

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Immagini tratte da:
- wikipedia, pubblico dominio, voce. Sofonisba Anguissola
- wikipedia, pubblico dominio, voce. Sofonisba Anguissola
- svirgolettate.it
- pinterest.com

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11/10/2016

L'Artemision di Efeso

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​di Andrea Samueli
Per il nostro viaggio alla scoperta dell’ultima delle sette meraviglie del mondo antico partiamo da Pella, capitale del regno macedone: è una notte di luglio del 356 a.C. e la regina Olimpias, moglie di Filippo II, sta mettendo alla luce colui che sarà ricordato come uno dei più grandi condottieri mai esistiti, Alessandro il Grande. Secondo la leggenda persino la dea Artemide, protettrice delle partorienti, sarebbe impegnata ad assisterla. Nello stesso momento, a centinaia di chilometri di distanza, un pastore di nome Herastratos, per il solo motivo di essere ricordato dalle generazioni future, appicca il fuoco ad uno dei santuari più venerati del mondo antico, l’Artemision di Efeso. 
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Le prime tracce di questo luogo di culto risalgono all’VIII secolo a.C. e sono rappresentate da due semplici piattaforme, una per la statua della dea ed una, più bassa, utilizzata probabilmente come altare. In una seconda fase le due strutture vengono unite all’interno di una prima semplice costruzione per poi trasformarsi, in una fase avanzata, in un tempio cosiddetto in antis, cioè con i muri della cella che, prolungandosi, vanno a creare uno spazio di rispetto davanti all’ingresso. Le dimensioni di questo primo tempio sono notevoli, 31x16 metri, con una fila di pilastri centrali per sorreggere il tetto in paglia a doppio spiovente e, forse, un colonnato esterno (peristasi).
Si giunge così al VI secolo a.C. quando Creso, re della Lidia, promuove la costruzione di un nuovo luogo di culto, dedicato alla dea Artemide, al posto del precedente tempio: il nuovo edificio si distingueva per le dimensioni monumentali, 115x55 metri, e per la grande maestria costruttiva. Il progetto fu affidato all’architetto Chersifrone di Cnosso, che si ispirò al gigantesco Heraion di Samo costruito da Theodorus. 
La pianta dell'Artemision
Il Tesoro degli Ateniesi a Delfi, esempio di edificio in antis
Questo tempio rimase intatto sino al 356 a.C., anno in cui, come si è detto, tale Herastratos ne provocò la distruzione. Alessandro stesso si propose di finanziare la ricostruzione ma giunto alla città, una volta sconfitto l’esercito persiano al Granico nel 334 a.C., constatò che le autorità cittadine avevano già avviato i lavori. Plinio il Vecchio ce ne parla, riferendo che i lavori per la costruzione del nuovo tempio durarono circa 120 anni e, poiché edificato in zona alluvionale, venne realizzato un ingegnoso sistema di fondamenta per evitare che le scosse sismiche potessero danneggiarlo: venne infatti fatta scavare una enorme fossa il cui fondo fu ricoperto di pezzi di carbone e vello di pecora, in modo tale che l’edificio, in caso di terremoto, slittasse su questa base. Tale idea è riconosciuta come la prima forma di architettura antisismica nella storia. Il nuovo tempio differiva dal precedente non solo per la decorazione in stile tardo classico (il precedente era in stile arcaico), ma anche per la presenza di dieci gradini di accesso che innalzavano la struttura di 3 metri rispetto al terreno circostante.
Le colonne, in stile ionico alte circa 18 metri, avevano basi riccamente decorate con figure a grandezza naturale: un esemplare è conservato al British Museum e riproduce Hermes psicopompo (accompagnatore delle anime) e un giovane con calzari alati e spada al fianco. Plinio ci dice che a tale opera partecipò persino il grande artista Skopas, lo stesso che abbiamo già incontrato nella realizzazione dei cicli figurativi del Mausoleo di Alicarnasso.
La dea venerata era appunto Artemide, sorella di Apollo e figlia di Zeus e Leto. Nota come dea vergine, signora degli animali, dea della caccia e della foresta, personificazione della Luna e protettrice delle partorienti, Artemide appare generalmente raffigurata come una giovane fanciulla dal corpo atletico e ben proporzionato, spesso dotata di arco e frecce. La statua di culto presente all’interno dell’Artemision proponeva invece un’iconografia differente: la dea, in posizione stante con le mani aperte in segno di accogliere i fedeli, indossava il tipico copricapo orientale (polos) ed aveva il corpo coperto da un lungo peplo riccamente decorato con protomi taurine; il petto era coperto da numerosi testicoli di tori, simbolo di fertilità. Probabilmente la statua di Efeso trae le sue origini da un antichissimo idolo origine asiatica, successivamente assimilato ad Artemide. 
L’Artemision di Efeso superò i secoli arrivando sino al 262 d.C. e alla prima distruzione ad opera degli Ostrogoti scesi in Asia Minore per saccheggiarne le ricche città costiere. Il colpo di grazia venne però inferto da Teodosio, quando il cristianesimo divenne religione di stato ed i culti pagani vennero vietati (318 d.C.) e da Teodosio II nel 435 d.C., il quale ordinò che tutti i templi pagani venissero distrutti.
Oggigiorno della selva di 110 fusti in marmo che circondavano il tempio resta solo una colonna, muta sentinella a guardia del luogo che un tempo accoglieva una delle sette meraviglie del mondo antico.
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Se vi siete persi gli altri articoli, ecco le altre meraviglie del mondo antico:
  • Il Faro di Alessandria
  • Il Colosso di Rodi
  • I Giardini Pensili di Babilonia
  • La grande piramide
  • Il Mausoleo di Alicarnasso
  • Zeus di Fidia ad Olimpia
Immagini tratte da: 
​
ricostruzione miniatura del tempio, da Wikipedia Italia, Di Zee Prime at cs.wikipedia, CC BY-SA 3.0, voce “Tempio di Artemide (Efeso)”
pianta del tempio, da Wikipedia Italia, Di John Turtle Wood - http://online.mq.edu.au/pub/ACANSCAE/chapters/chapter09.htm, Pubblico dominio, voce “Tempio di Artemide (Efeso)”
Tesoro degli Ateniesi, da ancient.eu, voce "Treasury of The Athenians, Delphi"
modellino frontale, da Wikipedia Italia, By © José Luiz Bernardes Ribeiro /, CC BY-SA 3.0, voce “Tempio di Artemide (Efeso)”
colonna, da Wikipedia Italia, Di Nordisk familjebok (1907), vol.6, p.1397 [1], Pubblico dominio, voce “Tempio di Artemide (Efeso)”
base della colonna, da Wikipedia Inglese, di Sconosciuto - Twospoonfuls (2008), GFDL, voce “Temple of Artemis”
statua della dea (disegno), da Wikipedia Inglese, CC BY-SA 3.0, voce “Temple of Artemis”
statua della dea, da Wikipedia Italia, Di Lutz Langer - Opera propria, CC BY-SA 3.0, voce “Artemide”
Artemide, da ancient.eu voce “Artemis”
resti attuali, da Wikipedia Inglese, By Adam Carr at the English language Wikipedia, CC BY-SA 3.0, voce “Temple of Artemis”

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10/10/2016

Quando un’opera d’arte diventa un’icona.

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di
Marianna Carotenuto
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Johannes Vermeer, Ragazza col Turbante,1665, olio su tela, 44,5×39 cm, L’Aia, Mauritshuis
Sfondo scuro, una fanciulla ritratta a mezzo busto che si gira verso lo spettatore, quasi come per rispondere ad un richiamo. Volto intensamente illuminato, occhi grigio-azzurri, labbra leggermente schiuse, turbante turchese e un grande orecchino di perla. Questi sono gli elementi chiave che contraddistinguono un capolavoro artistico, un vero e proprio fermo immagine, un momento arrestatosi nel tempo. Stiamo parlando de La ragazza col turbante, più nota come La ragazza con l’orecchino di perla, l’opera più conosciuta del pittore olandese Johannes Vermeer. Si tratta di una piccola tela, che incanta e attrae un pubblico internazionale. Oggi il dipinto ha un valore inestimabile, ma costò al suo ultimo acquirente incredibilmente solo 3 fiorini e 30 centesimi. Un buon affare, dunque, per Arnoldus Des Tombe che su consiglio dell’amico e storico d’arte Vicor de Stuers acquistò la tela messa all’asta nel 1881. Nel 1902, alla morte del proprietario, si scoprì che egli stesso aveva lasciato al museo Mauritshuis de L’Aia la Ragazza col turbante. Da allora il quadro è sempre rimasto in quelle sale, fatta eccezione per un tour internazionale che ha portato il capolavoro di Vermeer in giro per il mondo dal 2012 al 2014, periodo in cui il museo è stato chiuso per restauro. Unica tappa europea del dipinto: Bologna, Palazzo Fava. Le code infinite per ammirare il capolavoro-icona di Jan Vermeer, hanno portato la mostra bolognese ad essere quella più vista del 2014. (fonte www.TGcom24.mediaset.it).
Cosa rende così famosa questa ragazza?
Senza dubbio l’aura misteriosa che la avvolge. Non si sa tutt’ora chi sia la bella fanciulla che ammalia i visitatori con il suo sguardo magnetico.
Il primo studioso che si interrogò sulla sua identità  fu l’olandese Pieter Swillens che, nel 1950, pubblicò la prima monografia completa su Vermeer nella quale formulò la sua ipotesi. Innanzitutto smentì le supposizioni che vedevano la ragazza di Vermeer  come la raffigurazione di sua figlia.  Quarantuno anni dopo si trovò d’accordo anche Montias, il quale sosteneva che, se si fosse accettata come buona l’ipotesi della datazione del quadro nel 1665, in quell’anno la prima delle sue figlie avrebbe avuto appena 12 anni. Ritornando a Swillens, secondo la sua ipotesi, La ragazza col turbante sarebbe una rappresentazione fedele del soggetto da ritrarre. Il pittore raffigura un’espressione e un movimento naturale: girare la testa e portare lo sguardo vero il pittore, la bocca leggermente aperta, una postura iconicamente sensuale, che fa presupporre che il pittore conoscesse la ragazza.
Tracy Chevalier, scrittrice statunitense, coglie il suo valore iconico e nel 1999 scrive un romanzo dal titolo “Girl with a Pearl Earring” che diventa un caso editoriale. Da qui “La Ragazza col turbante” si trasforma ne ”La ragazza con l’orecchino di perla”. La popolarità del quadro raggiunge il suo apice nel 2003 con il  film del regista Peter Webber, ispirato all’omonimo romanzo, i cui protagonisti sono Scarlett Johansson e Colin  Firth.


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Tuttavia, gli studiosi sostengono con certezza che la Ragazza non sia la domestica della famiglia, come ipotizzato dal libro. Molto  probabilmente si tratta di un ritratto idealizzato: un tronie, genere pittorico appartenente al periodo della Golden Age Olandese che raffigura un volto con lo scopo di studiare espressioni, movimenti,sguardi e spesso commissionato per esplicitare un determinato status sociale.
Le prove dell’appartenenza a questa categoria sono diverse. Il turbante, del tutto inconsueto per l’epoca, che le conferisce un’aria esotica e la cromìa dello stesso, il blu oltremare, colore che al tempo di Vermeer si otteneva coi lapislazzuli, fanno pensare che fu commissionato da un cliente benestante. Lo stesso discorso vale per la perla, gioiello molto costoso. Quella raffigurata probabilmente è una perla di vetro soffiato, arrivata da Venezia. Essa è dipinta utilizzando poche pennellate a goccia, è l'occhio umano che ha l'illusione di vederla intera.

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La  ragazza di Vermeer, protagonista di romanzi e film, è diventata testimonial pubblicitario, oggetto di cartoni animati, fumetti e parodie pop.
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Perfino Banksy la raffigura su un muro di Bristol. Riuscite a capire cosa sia la perla?
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Beh, l’antifurto del palazzo. La Ragazza con l’orecchino di perla si posiziona tra i dipinti più conosciuti al mondo ed è talmente celebre da essere definita la Gioconda Olandese. La ragazza, che registra numeri simili alle Rock Star in concerto, è divenuta una vera e propria icona della storia dell’arte. Tutti pazzi per Vermeer, ed è subito Vermeermania.


Immagini tratte da :
www.mauritshuis.nl
archivio.panorama.it
http://www.holland.com
http://www.segafredo.it
www.foliamagazine.it
www.comingsoon.it
www.undrotto.it
www.dailymail.co.uk


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4/10/2016

Pilllole di arte Contemporanea: Pop Art ( I ) Eduardo Paolozzi

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di Alessandro Rugnone

Eduardo Paolozzi è a tutti gli effetti il progenitore della Pop Art. Il nuovo Adamo che campeggiava nel collage di Hamilton con il lecca-lecca in mano era stato infatti anticipato da lui nel 1947, in un collage fatto a ventitré anni dal titolo I Was a Rich Man's Plaything. Nato in scozia da genitori italiani soggiorna a Parigi, dove inizia a collezionare fumetti, rotocalchi e materiale pubblicitario, proveniente anche dagli Stati Uniti. Di tutto il materiale raccolto crea un album da cui attingere idee e da qui le radici dei suoi lavori.
Non frequenta la Royal Academy School come i compagni inglesi e si deve aspettare sino al 1962 perchè si distingua come artista pop, quando inizia a produrre imponenti figure meccaniche e serigrafie (tecnica del trasporto su tela) basate su collage.
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You Can't Beat the Real Thing viene pubblicato per la prima volta nel 1972, all'interno di una collezione di 46 serigrafie e litografie su carta intitolata Bunk! (abbreviazione inglese per la parola "sciocchezze"), che altro non erano che le copie fedeli dei collage realizzati fra il 1947 e 1952. Prima della pubblicazione stampe come questa erano state presentate tramite diapositive solo ai soci dell' Indipendent Group di Londra, di cui Paolozzi faceva parte.

In You Can't Beat the Real Thing le immagini mescolano in modo giocoso ed energico le scritte di una copertina, una ragazza immagine, e oggetti come il copertone, evidentemente tratto da una pubblicità. Il lavoro di Paolozzi indica in modo chiaro alcune differenze con la Pop Art delle origini, quella inglese, e la Pop Art americana che da essa avrebbe tratto le mosse. Gli oggetti, infatti, non sono ancora quelli promossi dai mass media, ma sono espressioni della cultura popolare; non sono accostati in modo asettico, ma quasi surreale, con una certa tendenza all'umorismo; l'ordine sparso in cui campeggiano nello spazio è in realtà una composizione pensata e rigorosa, e attraverso questo stile le immagini non vogliono essere impersonali, ma vogliono raccontare la loro storia. ​


Immagine tratta da :

www.tate.org.uk

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4/10/2016

La dimensione onirica in Füssli                                                                

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di Olga Caetani

“La regione più inesplorata dell’arte è il sogno, e nel sogno affiorano le regioni più inesplorate dell’animo”. Così scriveva Johann Heinrich Füssli, pittore che farà del sonno e del sogno, indagato in tutte le sue sublimi sfumature, i soggetti di gran parte della sua opera.
Füssli nasce a Zurigo nel 1741, ben sette anni prima dell’artista neoclassico per antonomasia, Jacques-Louis David. Muove i primi passi in un ambiente familiare impregnato di cultura e religiosità. Giovanissimo viene ordinato pastore della chiesa riformata zurighese, ma la sua non è una sincera e salda vocazione. Inizia a viaggiare, soggiornando a lungo e ripetutamente a Londra e in Italia, giungendo a contatto diretto con le culture che ispirarono la letteratura sulla quale aveva compiuto la sua ricca formazione: Shakespeare, Milton e Dante, oltre ai poemi germanici. Studioso della poesia omerica, proprio durante il gran tour italiano Füssli percepisce una grande distanza rispetto alla cultura classica, poi tradotta in un disegno significativo.

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L’artista commosso davanti alla grandezza delle rovine antiche, 1778-80, sanguigna e seppia su carta, Zurigo, Kunsthaus
L’artista commosso davanti alla grandezza delle rovine antiche testimonia lo sgomento per la monumentalità inimitabile dell’arte greco-romana, ma anche per un mondo lontano e ormai perduto. Sono le possenti e ridondanti forme michelangiolesche a sedurlo, come le positure serpentinate e il cangiantismo dei colori manieristi, tutti elementi rigettati dalla cultura ufficiale del Bello ideale, a lui coeva. Dal 1778 si stabilisce a Londra, ma è memore della lezione di Pontormo, Rosso Fiorentino e Parmigianino mentre dipinge su commissione un episodio della storia medievale elvetica, il Giuramento dei tre confederati sul Rütli.
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Giuramento dei tre confederati sul Rütli, 1780, olio su tela, Zurigo, Kunsthaus
Gli eroici corpi allungati sono vertiginosamente slanciati verso l’alto, e sembrano illuminati, con le loro tinte acide, quasi fosforescenti, da una luce interna al dipinto stesso. Il confronto con Il giuramento degli Orazi di David, di quattro anni più tardo, viene da sé. Nella celeberrima tela del Louvre, le figure assumono fattezze scultoree, espressione dell’adesione ai valori formali e al rigore del canone classico.
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Il giuramento degli Orazi, 1784-85, olio su tela, Parigi, Musée du Louvre
Neoclassicismo, Romanticismo, o meglio, in questo caso, Preromanticismo costituiscono delle “etichette” apposte a ragione dalla storiografia, anche per evidenti motivi pratici. Tuttavia esse non devono essere interpretante come categorie totalmente contrastanti e impenetrabili da influssi esterni. Neoclassicismo e Romanticismo del resto hanno molti punti di contatto. Entrambi mirano all’evasione da una realtà presente dominata dal razionalismo illuministico, in troppo rapida evoluzione e rivoluzione, il primo trovando rifugio nella confortante ed idealizzata antichità, l’altro nella Natura, al contempo affascinante e terrifica, sublime, ma anche nella dimensione più oscura e irrazionale dell’uomo: l’inconscio. Quasi anticipando le teorie freudiane, Füssli fa emergere dalle sue opere oniriche gli impulsi più intimi e segreti dell’animo. The nightmare, ossia l’incubo, è incarnato dal mostro accovacciato sul ventre della donna a rappresentare il senso di oppressione, di affanno al quale la fanciulla stessa è costretta dal suo sogno, forse dai risvolti sensuali, erotici, visti l’abbandono del corpo candido e gli zigomi lievemente arrossati, accaldati. Dal fondo tenebroso del dipinto, si materializza un’altra creatura mostruosa, dallo sguardo surreale, spaventoso. È la traduzione in immagine dell’etimologia del termine anglosassone “nightmare”, appunto “cavallo notturno”, a rendere bene l’idea di un tumultuoso incubo.
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The nightmare, 1781, olio su tela, Detroit, Institute of Arts
La liberazione del proprio “io” prosegue nella fase matura di Füssli, con Il sogno del pastore. Apparentemente immerso in un clima più disteso e rilassato, il pastore è posto in primissimo piano secondo un scorcio arduo e una posa sforzata, di gusto neomanierista. Attorno, figure dalle scale prospettiche inverosimili: sono le creature “sognate” dal pastore. Sopra di lui, alcune di esse si prendono per mano formando un sinuoso cerchio, tentando di afferrarlo, di corromperlo. Hanno il capo reclinato, come per nascondersi dagli occhi dello spettatore, all’interno di uno sfondo scuro che sfuma dal grigio al verdastro. Del resto, come sosterrà di lì a poco Francisco Goya, “il sonno della ragione genera mostri”.
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Il sogno del pastore, 1793, Londra, Tate Gallery
Immagini tratte da:

- pinterest.com

- pinterest.com
- artsblog.it
- khanacademy.org
- pinterest.com

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