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30/10/2017

Dorothea Lange e la fotografia come icona della “Grande Depressione”

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Di Ilaria Ceragioli
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Era il 29 ottobre del 1929 quando una profonda crisi economica e finanziaria sconvolse l’economia americana e quella di tutto il mondo. Questo drammatico periodo, noto come “Grande Depressione” o “Crollo di Wall Street”, provocò una drastica diminuzione del commercio globale e, conseguentemente, comportò una terribile riduzione dei redditi dei lavoratori e dei profitti internazionali.
A immortalare i timori, le difficoltà e il peso che un evento simile portava con sé, vi fu un’eccellente fotografa documentaria statunitense: Dorothea Lange.
Dorothea Lange nacque nel 1895 e scoprì la passione per la fotografia a soli sette anni, quando una dolorosa poliomielite si impossessò del suo fragile corpo, procurandole irrimediabili ripercussioni alla gamba destra. Nonostante questo handicap Dorothea Lange non si perse d’animo e si recò a New York per studiare fotografia.
Nel 1935 il presidente americano Franklin D. Roosevelt promosse il Federal Art Project (F.A.P.), ossia un programma statale che conferiva agli artisti incarichi pubblici. In quanto forma artistica, la fotografia non ne fu esente. Fu così che la fotografa Dorothea Lange cominciò a immortalare le complesse problematiche legate alle difficili condizioni di vita degli abitanti delle zone rurali della California. Disoccupati e migranti divennero così i protagonisti dei suoi scatti fotografici. Molti scatti furono pubblicati in numerose riviste dell’epoca, basti pensare alla celebre Migrant Mother immortalata nel 1936
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La fotografia, scattata in un campo di piselli della California, ritrae la trentenne Florence Owens Thompson insieme a tre dei suoi sette figli. Tra le braccia ha il figlio di pochi mesi che si è addormentato, mentre gli altri due, affaticati e annoiati, poggiano il capo sulle spalle della madre. Anche la donna appare esausta e taciturna in quanto assorta nei suoi pensieri.
Altrettanto suggestivo e interessante risulta un altro scatto fotografico di Dorothea Lange, quello che porta il titolo di Migrant Children
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​I protagonisti sono due bambini, probabilmente due fratelli, che hanno trovato dimora in un campo profugo. Uno è posto di schiena, l’altro con la mano nasconde la parte superiore del volto dal bagliore del sole e guarda in lontananza.
Fino al 1939 Dorothea Lange realizza vari reportage con l’intento di mostrare la fatica e l’estenuante lavoro dei braccianti e degli operai. Ne è un chiaro esempio la fotografia che segue.
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​Viene illustrato il momento della raccolta dei cavoli in California. Vari uomini impegnati nel loro lavoro, infatti, estraggono le piante dal terreno e le posizionano su di un mezzo agricolo.
Negli ultimi anni della sua esistenza la talentuosa fotografa si ammalò gravemente tanto da indurla ad abbandonare definitivamente la sua passione. Nel 1965, all’età di settant’anni, venne comunicata la notizia della sua scomparsa a causa di un tumore all’esofago.
L’intensa attività di Dorothea Lange è oggi un’importante testimonianza storica che scuote le coscienze e invita a riflettere sulle condizioni di vita e sulle problematiche che molti abitanti del nostro pianeta si trovano ancora a dover affrontare. La fotografia, dunque, immortala stati d’animo, attimi di vita e dona preziosi insegnamenti ai suoi spettatori. La stessa Dorothea Lange attribuì a questo strumento una funzione miracolosa tant’è che scrisse: “La macchina fotografica insegna alla gente come vedere il mondo senza di essa”.
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​ Immagini tratte da:
www.biography.com
Wikipedia, pubblico dominio, voce: Dorothea Lange
www.historyplace.com
www.historyplace.com
Wikipedia, pubblico dominio, voce: Dorothea Lange

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25/10/2017

Robert Doisneau - A l'imparfait de l'objectif

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Dall'8 luglio fino al 12 novembre prossimo il Lu.C.C.A. (Lucca Center of Contemporary Art) ospita 80 scatti tra i più celebri a opera del fotografo parigino.
di Enrico Esposito

"É sempre all'imperfetto dell'obiettivo
che coniuga il verbo fotografare"

Jacques Prévert

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"Io fotografavo". Maurizio Vanni, curatore dell'esposizione che ancora per qualche settimana sarà in scena al Centro di Arte Contemporanea di Lucca, afferma che questa breve frase sia sufficiente a riassumere l'intera carriera di Robert Doisneau, il fotografo che più di tutti ha saputo raccontare la storia vera della Parigi del secondo dopoguerra, delle sue periferie, dei suoi personaggi più umili. Ma è stato in grado anche di cogliere l'eccezionalità dell'istante, di un gesto, di un'espressione come può essere un bacio per strada, un poeta immortalato mentre siede a un tavolino con lo sguardo nel vuoto, dei bambini che giocano spensierati.
Doisneau non proveniva da accademie né da università. Nato nel sobborgo di Gentilly nel 1912, aveva "sonnecchiato" per i primi quindici anni della sua vita tra i conformismi di una normale famiglia del ceto medio e l'école Estienne presso la quale aveva appreso l'arte della litografia. Dopo aver lavorato per qualche tempo alla creazione di etichette per le confezioni dei medicinali, nel 1931 divenne assistente fotografo nello studio di Andrè Vigneau, imboccando una strada maestra che gli avrebbe permesso di coniugare in maniera armonica ed esplosiva l'arte con il divertimento. E dopo i quattro anni nel settore pubblicitario della Renault (dalla quale fu licenziato per reiterati ritardi), e le angherie della Seconda Guerra Mondiale che lo spinsero a impegnasi nella Resistenza, Doisneau potè finalmente esprimere il suo stile specializzandosi come fotografo freelance.
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"Mi sono divertito per tutta la mia vita, costruendo il mio piccolo teatro" costituisce probabilmente l'aforisma di Doisneau che più di ogni altro lascia comprendere la naturalezza e la passione con cui l'artista svolgeva il proprio mestiere. Per Doisneau scattare un negativo corrispondeva a pura goduria, a divertimento quotidiano, alla ricerca di situazioni dinanzi alle quali i suoi colleghi avrebbero detto che non ci fosse nulla di speciale da evidenziare e dunque immortalare. Invece l'artista parigino, che alla sua morte nel 1994 ha lasciato oltre 450.000 negativi, aveva raggiunto la sua dimensione scegliendo come soggetti preferiti i sobborghi ai margini della città, dimenticati dagli altri, lontani dal turbinio del traffico e dalla maestosità dei monumenti. Come un Toulouse-Lautrec della camera, Doisneau incontrava il "marciume" della società, si sporcava con essa e lo donava all'immortalità dell'obiettivo. Ma Doisneau non era soltanto il fotografo delle banlieue, dei bimbetti sporchi, dei poveracci affamati e degli operai sdentati. Robert Doisneau amava sgattaiolare dappertutto, muoversi costantemente alla scoperta di tante soluzioni diverse, ma con pazienza, nell'atto di "pescare" l'attimo giusto da cristallizzare. Piuttosto che andare a caccia di scoop e di eventi unici e straordinari da catturare prima degli altri, Doisneau riusciva in piena libertà a impossessarsi del fortuito, del momentaneo e a valorizzarlo, a renderlo esclusivo. L'atipico, l'imperfetto possono celarsi dovunque, e tramutarsi in magnifico: all'interno di una boutique, lungo le rive della Senna, su un binario ferroviario abbandonato. Ancora Maurizio Vanni ci giunge in soccorso mettendo in risalto un concetto fondamentale per l'artista, la "Comédie humaine". La Parigi che Doisneau smaschera attraverso i suoi scatti vive delle espressioni facciali, delle reazioni fisiche, dei gesti volontari dei suoi abitanti, di esseri umani, senza distinzioni di classe, issati a protagonisti del medesimo spettacolo, quello della vita.
Al Lu.C.C.A. (Lucca Center of Contemporary Art) sarà possibile ammirare fino al 12 novembre prossimo gli 80 negativi che lungo i due piani di Palazzo Boccella compongono la mostra "Robert Doisneau - A l'imparfait de l'objectif", e contemporaneamente, a immergersi nel buddhismo tibetano dell'esposizione "Tulku. Le reincarnazioni mistiche del Tibet" (foto di Giampietro Mattolin e Vicky Sevegnani,testi di Pietro Verni), di cui vi racconteremo molto presto.


Per approfondimenti:

- www.luccamuseum.com
- www.robert-doisneau.com

Immagini tratte da:

- Immagine 1
da www.thingsiliketoday.com
- Immagine 2 e Galleria da foto dell'autore

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24/10/2017

Petra e il Tesoro del Faraone

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di Andrea Samueli
La città di Petra, in Giordania, è stata la capitale del regno dei Nabatei. Oltre ai numerosi edifici venuti alla luce nel corso di svariate campagne di scavo, ciò che più colpisce i visitatori sono le tombe, oltre 600, scavate nei fianchi delle vallate circostanti la città. 
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Posizione geografica di Petra
Le tipologie tombali sono varie e seguono, come prevedibile, una successione cronologica: le prime risalgono al II secolo a.C. e assomigliano a torri, con la sommità leggermente rastremata (più stretta) rispetto alla base; in facciata troviamo l’ingresso, molto semplice, e la decorazione consiste solo in una serie di merli come coronamento. Seguono poi le tombe con facciata a gradoni che compaiono dalla prima metà del I secolo a.C.: la facciata è caratterizzata dalla presenza di una cornice liscia con profilo ricurvo sulla quale sono scolpiti due merli a gradoni; la porta di acceso è in genere decorata con semipilastri sormontati da capitelli nabatei e frontoni di tipo ellenistico. Da queste la sperimentazione architettonica continua, passando per le tombe ad arco sino ad arrivare alle grandi tombe con le sembianze di templi greci. 
Tombe con facciata a gradoni
Colonne con capitelli nabatei
L’apice stilistico viene raggiunto con il cosiddetto “Tesoro del Faraone” (Khaznet el-Firaun), una delle tombe più belle e famose di Petra. Molti lettori l’hanno già vista nella pellicola Indiana Jones e l’ultima crociata: proprio all’interno, inoltrandosi nel cuore della montagna, il famoso archeologo trova il tanto agognato santo Graal, protetto da una serie di letali trabocchetti. Ma tutte le tombe di Petra presentano, oltre la facciata, solo poche camere rettangolari, per lo più prive di decorazione, con nicchie per urne o sarcofagi, e la tomba in questione non fa eccezione. Poteri del cinema! A fronte di questa semplicità interna, l’esterno presenta invece una ricchezza decorativa incredibile.
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Il Tesoro del Faraone
La facciata, alta 40 metri e larga 28 metri, è articolata su due livelli. L’ingresso principale e i due laterali, finemente decorati e sormontati da aperture circolari, sono preceduti da un ampio vestibolo: di fronte ad esso si trovano sei colonne corinzie che sorreggono un architrave liscio ed un fregio vegetale interrotto da calici e grifoni affrontati; due leoni alati sono posti alle estremità del frontone. La decorazione del primo livello è completata dalla testa di Medusa che, seppur fortemente danneggiata, spicca al centro del timpano e dalle due raffigurazioni dei Dioscuri tra le colonne laterali. 
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Il frontone del primo livello
Il secondo ordine è caratterizzato dalla presenza di una tholos (un tempietto circolare) con il tetto conico sopra al quale si trova un capitello che sorregge una grande urna: i numerosi fori che si possono notare su di essa sono dovuti ai colpi sparati in passato nel tentativo di romperla per recuperare il tesoro, secondo una leggenda nascosto all’interno, che ha dato il nome al monumento. 
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Parte superiore del monumento
Sulla sommità dei frontoni, in funzione di acroteri (decorazioni sommitali), sono scolpite due aquile. Un fregio continuo, con ghirlande e maschere, funge da elemento di raccordo tra le varie parti della struttura, inquadrate nuovamente da colonne corinzie. Nelle nicchie dei corpi laterali e sui lati della tholos trovano posto le raffigurazioni di sei amazzoni armate di ascia; gli intercolumni posti sulla facciata, quelli più rientranti, sono invece decorati con Vittorie alate mentre sulla fronte della tholos trova posto una figura femminile fortemente erosa, probabilmente da interpretare come Iside, dea molto venerata a Petra. A conferma di ciò rimanda l’acroterio sottostante, con le corna ricurve associabili alla dea Hathor-Iside.
Due delle sei amazzoni e l’acroterio a forma di aquila
La dea Iside, con le due vittorie ai lati e l’urna sopra la tholos
La ricchezza della decorazione, affidata a maestranze alessandrine, fa pensare alla tomba di un sovrano nabateo, forse Atrebate III (I secolo a.C.) o il successore Atrebate IV (I secolo d.C.).
 
Immagini tratte da:
Carta, da Wikipedia Italia, Di I, Sting, CC BY-SA 3.0, voce “Petra”
Tombe a gradoni, da Wikimedia, By Bernard Gagnon - Own work, CC BY-SA 3.0, file “Silk Tomb, Petra 01.jpg”
Capitello nabateo, da Wikimedia, By Bernard Gagnon - Own work, CC BY-SA 3.0, file “Blue Chapel, Petra 03.jpg”
Fronte, da Wikimedia, Khazneh el-Firaun, By Bernard Gagnon - Own work, CC BY-SA 3.0, file “Al Khazneh.jpg”
Frontone, da Wikimedia, By Daniel Case - Own work, CC BY-SA 3.0, file “Al-Khazneh pediment.jpg”
Parte superiore, da Wikimedia, By Jean Housen - Own work, CC BY-SA 3.0, file “20100925 petra104.JPG”
Amazzoni, da Wikimedia, By Bernard Gagnon - Own work, CC BY-SA 3.0, file “Al Khazneh right distyle.jpg”
Iside, da Wikimedia, By Jerzy Strzelecki - Own work, CC BY-SA 3.0, file “Treasury03(js).jpg”

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24/10/2017

Il Duomo e il Battistero di Firenze in mattoncini Lego: il progetto del 17 enne pugliese.

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di Marianna Carotenuto
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Firenze, 21 ottobre 2017. Un sabato davvero speciale all'ombra del Duomo. Giacinto Consiglio, il giovane pugliese appassionato di architettura e mattoncini Lego, ha realizzato una ricostruzione della Cupola di Brunelleschi con oltre 20mila mattoncini. Pezzo dopo pezzo, il modellino (di un metro e mezzo di lunghezza, 60cm di larghezza e 65cm di altezza) è stato realizzato nel Museo dell’Opera del Duomo sotto gli occhi increduli del pubblico che seguiva attentamente le fasi del montaggio. Si parla di ventimila mattoncini Lego di 400 forme differenti in oltre 10 colori, recuperati in vari Paesi del mondo da appassionati e collezionisti.  
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Il giovane ideatore, dopo aver visitato per la seconda volta Firenze nel 2016, ha progettato al computer la riproduzione del complesso monumentale. Una volta fatto il modellino virtuale si è costituito un gruppo di lavoro: da giugno 2017 il progetto è stato rivisto così da consolidare alcune parti della struttura, ottimizzando l’utilizzo di pezzi anche sulla base della disponibilità sul mercato. Per completare il modello è stato necessario ordinare pezzi in circa nove Paesi differenti, facendoli arrivare anche dagli Stati Uniti. Il diciassettenne non era solo: è stato supportato e aiutato da i membri del gruppo Adult fan of Lego e dall’associazione Italian Lego Users Group, le due storiche comunità per gli appassionati dei mattoncini. Il progetto di Consiglio è la dimostrazione della realizzazione di un’opera d’arte divertendosi. “Guardare alla nostra cattedrale attraverso i mattoncini Lego - spiega Luca Bagnoli, presidente dell’Opera di Santa Maria del Fiore - rappresenta un’esperienza unica, la realizzazione di un’opera attraverso un gioco”. 
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L’opera sarà visibile gratuitamente presso il Museo dell’Opera del Duomo fino al 9 novembre; successivamente sarà esposta al “Bricks in Florence Festival” organizzato all’Obihall i giorni 11 e 12 novembre. L'evento prevede una grande esposizione, tante attività creative, un imperdibile contest e il gioco libero.

Info: https://itlug.org/   ---  https://www.obihall.it/

Immagini tratte da:
http://www.tgcom24.mediaset.it

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17/10/2017

“Vissi d’arte, vissi d’amore”: intervista al pittore Francesco Raffa (Rafrart)

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di Olga Caetani
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Pisano d’adozione, ma siciliano di nascita, Francesco Raffa ci accoglie nella sua casa-studio, a due passi dalla centralissima via Borgo Stretto, con l’ospitalità e il calore che soltanto chi viene dal Sud è capace di regalare. Fin dall’ingresso, le pareti mostrano alcune delle numerose opere dell’artista: una natura morta con peonia, il ritratto della moglie Giulia, una delle tele appartenenti alla serie “La danza dell’Universo”. Mentre aspettiamo che sia pronto il caffè, Francesco ci conduce nel suo studio, ordinato e ben organizzato, dove ha appena interrotto un nuovo lavoro per riceverci. La nostra intervista ha inizio qui, nel luogo di concezione e gestazione delle opere, sotto forma di una chiacchierata informale, tra amici che condividono la medesima passione per l’arte e per il suo mondo. A tal proposito, scopriamo subito quanto quest’ultimo oggi, in Italia, possa essere ostile nei confronti di un giovane artista: “vorrei che qui ci fosse la stessa gioia per l’arte che c’è all’estero!”, ci rivela Francesco, con scarsa sorpresa da parte nostra, purtroppo. “Ho esposto in alcune gallerie di Londra e Southampton, inizialmente presentando le mie opere con i titoli tradotti in inglese. I galleristi mi chiedevano invece di lasciarli in italiano, come se per il pubblico estero essere italiano significhi avere una qualifica in più nel campo dell’arte, quasi a priori”. Immaginavamo che ci fossero delle differenze tra il pubblico straniero e quello italiano, per quanto riguarda la ricezione di un’opera d’arte… “Sì, e grandi differenze vi sono anche nella gestione delle gallerie, che danno la possibilità di esporre gratuitamente, tornando a essere il braccio destro dell’artista. In questo modo, se da un lato vi è molta selezione, dall’altro si ottengono qualità e predisposizione alla vendita. Attualmente espongo nella galleria online Saatchi Art, ma mi piacerebbe che a Pisa ci fossero più luoghi d’incontro e scambio di idee – sinonimo di crescita personale - tra amanti dell’arte, della musica, del teatro, del cinema…”. Ecco, tornando un passo indietro, quando è nata la tua passione per l’arte? “Disegno fin da quando ero bambino. Ho iniziato ricopiando le immagini dei fumetti di Tex Willer e Dylan Dog, che agli inizi mi sembravano irraggiungibili! La scelta di frequentare la scuola d’arte di Messina, quindi, è venuta da sé, e poi l’Accademia. Tuttavia, i loro metodi di insegnamento molto limitanti della creatività personale, hanno fatto sì che terminassi gli studi come tecnico audiovisivo. È proprio il lavoro di operatore, e poi di regista che mi ha fatto approdare a Pisa. Lavorare per la TV mi piaceva molto, ma presto ho capito che la mia strada era un’altra: avevo la sensazione che qualunque cosa facessi sentivo il bisogno di dare qualcosa agli altri. Sentivo una voglia di creare che non riuscivo a fermare. Già da piccoli, secondo me, si ha un impatto con quello che si farà nella vita. La pittura è sempre stata una passione, mi è sempre riuscita automaticamente. Se non faccio qualcosa che non riguarda questo ambito, muoio! Certo, all’inizio è stata dura, lasciare il lavoro e tutto il resto, ma grazie alla comprensione e al supporto che ho sempre avuto da parte di mia moglie, oggi sono in grado di dire che si può vivere di arte, lavorando e impegnandosi molto”. Questa tua irrefrenabile passione diventa tangibile osservando ciò che dipingi. Agli inizi del tuo percorso artistico, ti sei avvicinato a qualcuno dei grandi maestri del passato? “Ho compiuto un percorso classico, cercando fin da subito di trovare una mia identità. Ci vuole lo studio del passato, ma occorre andare oltre, altrimenti si esce dall’Accademia ritrovandosi spiazzati e disorientati. Inizialmente, puntavo tutto sul curare la tecnica. Ho iniziato a dipingere guardando al realismo e all’iperrealismo, creando figure che fossero esattamente delle fotografie, ma al contempo amavo tantissimo i Surrealisti, di cui ho cercato di capire quale fosse la loro forma d’arte e il perché soprattutto. Vorrei che le persone si chiedessero il perché delle mie opere, andando oltre l’immagine per coglierne il pensiero retrostante”. 
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Peonie bianche e rosse
Si nota una reminiscenza di Salvador Dalí nelle tue tele, soprattutto nella scelta dei colori e negli sfondi della serie “La danza dell’Universo”, di recente elaborazione. Come è nata e che cosa vuole comunicare allo spettatore? “La danza dell’Universo nasce più dalla parte spirituale dell’uomo, che da quella materiale, tra l’altro in questo periodo mi sto dedicando alla lettura di Castaneda e Sibaldi, che sono proprio su questa linea. Ho cercato di dare un’immagine figurativa e non astratta - non sono un grande amante dell’astrattismo puro - di dare un senso alle forze che ci circondano, all’Universo. Tuttavia, sto già passando ad altro, attraverso numerose prove ad acrilico su cartoncino - secondo il mio consueto modo di procedere - una sorta di unione tra astratto e figurativo, in cui la figura è presente, appunto, ma è quasi impercettibile, accompagnata da un’astrazione, quindi da una parte molto moderna, che potrebbe essere un richiamo all’anima, allo spirito delle persone. I colori sono fondamentalmente primari, costituendo la parte principale dell’immagine, mentre lo sfondo è ipotetico… ancora non so dove mi porterà tutto questo! Spesso ho abbracciato un progetto per poi abbandonarlo in itinere. La maggior parte delle idee su cui mi fermo sono proprio quelle che inizialmente non riesco a capire, ma cerco di portarle avanti, in quella che secondo me è la parte più bella della realizzazione di un lavoro, più creativa, quella che i greci chiamavano dáimon. Molte idee, poi, mi vengono la notte quando dormo, e al risveglio certo di rammentarle e fissarle su carta, come un sogno che sbiadisce al mattino, ma che cerchi di afferrare e trattenere”. 
C’è grande eterogeneità nella tua scelta dei soggetti, come in quella della tecnica da impiegare, dalla lavorazione ad aerografo alla pittura a olio. Costante è, tuttavia, la ricerca della resa del movimento. “Sì, mi piace molto dare un senso di moto, che spesso si ottiene con il suo contrario, cioè attraverso la staticità dell’immagine. L’immagine statica rappresenta il momento in cui il pensiero si ferma su un oggetto, come se lo sfondo fosse la mente, e l’oggetto – liberamente interpretabile – il pensiero che si è appena formato. In questo sono stato influenzato dai miei studi e dal mio lavoro nell’ambito della televisione”.​
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Prosa
Come vorresti che il pubblico reagisse, dinanzi a un tuo dipinto? “Mi aspetto sempre che le mie opere siano capaci di dare un’emozione, poco importa se positiva o negativa. Se un lavoro non dà emozioni, è un lavoro morto e fine a se stesso”. Una grande passione che senti di dover trasmettere. Quali sono, quindi, i tuoi progetti per il futuro? “A breve mi trasferirò in un nuovo studio, con lo scopo di aprirlo a tutti coloro che non hanno la possibilità di iscriversi in una scuola d’arte. Vorrei dare vita a una sorta di scuola, ma senza necessariamente un riscontro economico, in cui poter promuovere la creatività personale, prima di tutto, sarebbe il mio sogno! E se si ha un sogno, lo si deve portare avanti”. 
Francesco Raffa è costantemente attivo nel promuovere la sua arte, anche attraverso il suo blog e i social network:
  • https://rafrart.wordpress.com/
  • https://www.facebook.com/ArtistRafrart/  
 
Immagini gentilmente concesse dall’artista
Foto di Eva Dei 

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10/10/2017

Christopher Dresser: il primo industrial designer

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di Ilaria Ceragioli
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Fin dalle sue origini, l’arte si contraddistinse per la sua peculiarità di configurarsi come un linguaggio capace di suscitare emozioni e trasmettere messaggi. In quanto tale, l’arte si inserì all’interno di numerosi ambiti, tra cui quello industriale
. È a partire dall’Ottocento, infatti, che si iniziò a parlare di industrial design, ossia un disegno, un progetto finalizzato alla produzione industriale.
Nonostante il suo nome comparve tardivamente in molti testi inerenti alla storia del design, Christopher Dresser può essere considerato il primo disegnatore industriale. Dresser fu inizialmente un insegnante di botanica, mentre in seguito divenne un teorico e critico delle arti decorative che seppe contraddistinguersi per la sua creatività e per le sue abilità sorprendentemente innovative.
Dresser nacque a Glasgow e a soli dodici anni si trasferì a Londra. Qui fu influenzato dalle idee del gruppo di Henry Cole (funzionario del governo inglese e personalità di spicco all’interno della storia del design), che negli anni ‘30 dell’800 promosse un movimento di riforma delle arti decorative al fine di coniugare scienza e arte e giungere a una produzione artigianale di ottima qualità, distaccandosi dalla modalità di produzione in serie.
Christopher Dresser fu uno dei primi designer ad adoperare la tecnica dell’elettro-placcatura o placcatura per elettrolisi per sostituire l’argento: l’uso di un materiale più economico, infatti, consentiva di attrarre un pubblico e una clientela sempre maggiori. Un esempio è dato dalla zuccheriera a cono rovesciato in metallo elettro-placcato del 1864 in riferimento alla quale scrisse: “[…] Per esistere un contenitore deve essere costruito, ma una volta datogli forma, non è obbligatorio che venga decorato…La zuccheriera non starebbe in piedi senza gambe e i manici non devono essere necessariamente associati; io propongo tre piedi fatti in modo da servire anche come manici essendo la loro parte superiore adatta alla presa.”

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Nel 1879 il designer scozzese fondò a Londra la “Dresser & Holme” che importava oggetti per la casa dal Giappone e che gli consentì di diventare uno dei principali rappresentanti dell’introduzione della cultura giapponese in Occidente. Da qui la realizzazione di una teiera romboidale in argento con manico d’ebano (1880) e un bollitore da tè a forma di parallelepipedo in silver plate con manico d’ebano (1880) e altre creazioni.

Verso la fine degli anni ’80, invece, cominciò a creare oggetti fortemente suggestivi utilizzando un vetro particolare, il Clutha Glass. Si tratta di un vetro opalescente con bolle e venature di colore che ricorda le striature variopinte delle murrine e avventurine romane e veneziane (vasi e ciotole in vetro mosaico). Ne sono un chiaro esempio il vaso e le bottiglie che seguono.
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Christopher Dresser fu così uno dei maggiori interpreti del movimento delle “Arts and Crafts” (Arti e Mestieri) e il primo industrial designer che con sapienza e originalità elaborò prodotti di stampo industriale che arricchirono l’ambiente domestico di metà Ottocento.


Immagini tratte da:

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3/10/2017

La Casa Batlló

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Di Marianna Carotenuto
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La Casa Batlló è uno dei capolavori più apprezzati dello stravagante architetto Antoni Gaudì, capofila innegabile del modernismo catalano.
In piena rivoluzione industriale, Barcellona si trasforma radicalmente. Gli imprenditori si arricchiscono e si fanno concorrenza commissionando ai più grandi architetti del tempo la realizzazione di edifici grandiosi con lo scopo di lasciare un segno indelebile nella città.
Josep Batlló i Casanovas nel 1903 acquistò il vecchio edificio nel quartiere dell’Eixample. Per la sua ristrutturazione Battlò si rivolse a Gaudì, già famoso in quel periodo per i suoi meravigliosi progetti quali: La Sagrada Familia, il Parc Guell, Casa Milà. Tra il 1904 e il 1906 Gaudí dotò Casa Batlló di una facciata originale, sostituì quella precedente con un nuovo insieme costituito da pietra e cristallo. Fece scolpire nuovamente le pareti esterne per dotarle di una forma ondulata e le fece intonacare con calcina; le fece quindi rivestire con il tipico mosaico catalano, il trencadís, costituito da tessere in vetro colorato e dischi di ceramica. I balconi ai piani inferiori sono simili a pilastri fatti i ossa, quelli al piano superiore invece, ricordano pezzi di teschi. Tanto che le persone locali la chiamano Casa dels ossos, (Casa delle ossa).
Il tetto è decorato con ceramiche dai colori iridescenti formando una scala cromatica che ricorda la pelle di un rettile, un drago. Il grande dorso del drago, che svolge un’importante ruolo di equilibrio estetico della facciata, cede parte del suo protagonismo ai quattro gruppi di sinuosi camini. Accanto all’effetto estetico, subentra sempre la funzionalità. Il vento non potrà mai ostruire l’uscita del fumo grazie a dei fumaioli situati nella parte superiore dei camini, rivestiti con le stesse tessere di mosaico che rivestono la facciata. Gaudí fece ricoprire le superfici ricurve con piastrelle spezzettate secondo un uso bizantino. La piccola torre che si vede invece simboleggia la spada di San Giorgio.
A livello di pianterreno, piano nobile e primo piano, la facciata è dotata di colonne affusolate in pietra del Montjuïc che fanno da cornice a forme ossee decorate con elementi floreali tipicamente modernisti.
Sul piano nobile, residenza della famiglia Batlló, Gaudí creò una nuova distribuzione degli ambienti con pannelli dalle forme ondulate e arredò le stanze in modo da ottenere una luce molto naturale. Anche il cortile privato è coperto di ceramica blu, progressivamente illuminata per garantire la stessa luce sulla parte superiore ed inferiore.
 Una grande scala di legno si inoltra nella casa. Una spina dorsale di un enorme animale, intagliata in legno nobile funge da corrimano dotando tutta la casa di un’atmosfera tipica del fondale marino, resa ancora più plausibile dall’uso dei colori che fanno riferimento al mare, alla sabbia e alle insenature marine. Gli interni sono dotati di elementi decorativi carichi di dettagli, che manifestano la passione di Gaudì per i particolari.
La Casa Batlló può essere considerata un capolavoro grazie anche all’artigianato. Gaudí lavorò con i migliori artigiani di tutti i settori e il risultato furono una lavorazione del ferro forgiato, in cui la curvatura non solo è retorica ed estetica, ma anche un rinforzo strutturale; sinuosi lavori in legno che diedero vita a porte tridimensionali; cristalli piombati con colori che filtrano la luce naturale; piastrelle in ceramica con rilievi, elementi ornamentali in gres del Montjuic, tutti elementi affidati alla maestria degli artigiani dell’epoca.
Grazie ad Antoni Gaudì Casa Batlló risulta essere un capolavoro di forma, luce e colore.
​
Immagini tratte da:
www.casabatllo.es
www.barcellonaturismo.com
bcnshop.barcelonaturisme.com

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3/10/2017

Chichén Itzá

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di Andrea Samueli
È la giungla ad avere la meglio nella penisola dello Yucatan, in Messico: alberi a perdita d’occhio che inglobano tutto ciò che trovano sul loro cammino, dai piccoli e moderni villaggi lungo le strade agli imponenti edifici in pietra, testimonianza dei popoli che abitavano queste terre prima dell’arrivo degli Europei. Il territorio è costellato di numerosi siti archeologici, alcuni invasi dai turisti, altri ancora immersi nella quiete della vegetazione. Tra i primi, purtroppo, si trovano i resti della città di Chichén Itzá.
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Nonostante la presenza di una ricca vegetazione, il rifornimento d’acqua è sempre stato un problema per i popoli che hanno abitato queste terre e la presenza dei cenotes, cioè grandi cavità con acqua dolce, ha spesso determinato la localizzazione dei siti umani. Il nome stesso di Chichén Itzá, “Alla bocca (chi) del pozzo (ch’en) degli Itza (un gruppo etnico legato ai Maya)”, deriva dalla presenza di un cenote sacro poco lontano dall’area cerimoniale; un altro cenote si trova nel centro della città. 

L’insediamento comincia a ricoprire un ruolo importante a livello regionale solo a partire dal 600 d.C. e in breve diventa uno dei siti principali del mondo Maya. Intorno al IX secolo subisce una prima battuta di arresto, per motivi tuttora sconosciuti, ma risorge al termine del X secolo (987 d.C. circa) in seguito all’invasione da parte dei Toltechi, provenienti dalle zone a nord dell’odierna Città del Messico. Il declino della città nel corso del XIII secolo (per altri studiosi XI secolo) è forse da legare alla crescita, come capitale politica, della vicina città di Mayapan.
Al centro dell’area sacra-cerimoniale svetta la piramide a gradoni definita dai conquistadores El Castillo, un tempio dedicato a Quetzalcoatl (Kukulcán per i Maya), il dio a forma di serpente piumato introdotto dai Toltechi. La struttura, alta ben 24 metri ai quali si sommano 6 metri di tempio,  riproduce su pietra il calendario Maya: ogni scalinata centrale, una per lato, divide in due settori i nove gradini più grandi, formando così 18 terrazze equivalenti ai mesi dell’anno Maya; il numero dei gradini delle quattro scalinate (91 gradini ogni scala) e la piattaforma superiore equivalgono poi ai 365 giorni dell’anno. La decorazione consiste in una serie di guerrieri toltechi nella zona del tempietto e serpenti piumati lungo le scalinate: quest’ultimi sembrano prendere vita e scendere dalla sommità della piramide durante l’alba ed il tramonto degli equinozi di autunno e primavera, in un complicato gioco di luci e ombre. El Castillo ospita all’interno una piramide precedente, alta 20 metri, edificata intorno all’800 d.C., nel cui tempietto gli archeologi trovarono un trono rosso a forma di giaguaro, con macchie e occhi in giada, ed una statua cerimoniale chac mool, raffigurante un uomo reclinato con un contenitore per le offerte.
La piramide
Il gioco di ombre durante l’equinozio di autunno
La cultura sanguinaria dei sacrifici umani, divenuta predominante con la conquista tolteca, trova la sua massima espressione nelle due piattaforme vicino alla piramide: la Piattaforma dei teschi deriva il suo nome dalla macabra decorazione con teschi impilati e aquile che mangiano cuori umani ed era destinata all’esposizione dei teschi delle vittime sacrificali; giaguari e aquile che tengono tra le zampe i cuori delle vittime si ritrovano anche nell’eponima Piattaforma delle aquile e dei giaguari. 
La Piattaforma dei Teschi
La Piattaforma delle aquile e dei giaguari
FotoIl campo per il gioco della palla
Alle spalle di queste piattaforme si trova il più grande campo per il gioco della palla di tutta l’America centrale: il campo, lungo 166 metri e largo 68 metri, è racchiuso da pareti alte 12 metri sulle quali sono posizionati due anelli di pietra. Due squadre prendevano parte al gioco, di natura rituale, con lo scopo di far passare una palla di gomma all’interno degli anelli, senza l’utilizzo di mani o piedi, ma ricorrendo a ginocchia, anche e gomiti; talora era concesso l’uso di bastoni, come mostrato in alcune incisioni. Presso i Maya e i Toltechi questo gioco era legato alla pratica di sacrifici, ma non è chiaro se venisse ucciso il capitano (o l’intera squadra) perdente o quello vincente.

Data l’elevata conoscenza della volta celeste raggiunta dai popoli precolombiani, non deve meravigliare la presenza nel sito di un osservatorio astronomico, un grande edificio circolare su una piattaforma quadrata: la presenza di una scala a spirale al suo interno spinse gli Spagnoli a chiamare la struttura El Caracol, cioè “La chiocciola”. I portali di accesso, sui quali spicca la maschera del dio Chac, divinità della pioggia, sono rivolti verso i quattro punti cardinali mentre le finestre, che si aprono nella cupola, sono allineate con alcune stelle. 
​A breve distanza si erge infine il palazzo reale: l’edificio, lungo 60 metri, largo 30 metri e alto 20 metri, colpisce senza dubbio per la sua mole e per l’elevato numero di stanze, motivo per cui venne assimilato dai conquistadores ai conventi europei e denominato Las Monjas (Le monache).
L’osservatorio astronomico
Il palazzo reale
Ciò che abbiamo visto è solo una piccola parte di Chichén Itzá. Prima di andarcene proviamo però a fare uno sforzo di immaginazione e, guardando i limiti della foresta, ecco comparire davanti a noi il resto della città: un dedalo di stradine si apre in una fitta distesa di strutture in legno e terra, con gli abitanti intenti nelle faccende quotidiane. Purtroppo dobbiamo limitarci a immaginare poiché di tutto questo non c’è più traccia, ma i grandi edifici in pietra rimangono muti testimoni del glorioso passato di questa città. 

​Immagini tratte da:
Gran Cenote, da Wikipedia Inglese, By Ekehnel (Emil Kehnel) - Own work, CC BY 3.0, voce “Chichén Itzá”
El castillo, da Wikpedia Italia, Di Fcb981 - Opera propria, CC BY-SA 3.0, voce “Chichén Itzá”
Ombra del serpente, da Wikipedia Inglese, By ATSZ56 - Own work, Public Domain, voce “Chichén Itzá”
Piattaforma dei teschi, da Wikimedia, By Judson McCranie, CC BY-SA 3.0, file “Chichén Itzá, Mexico (54).jpg”
Piattaforma dei giaguari e delle aquile, da Wikimedia, By Judson McCranie, CC BY-SA 3.0, file “Chichén Itzá, Mexico (50).jpg”
El Caracol, da Wikipedia Italia, Di Fcb981 - Opera propria, CC BY-SA 3.0, voce “Chichén Itzá”
Las Monjas, da www.tripadvisor.com 

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