"Io non faccio che mettere un po' di colla su degli oggetti; non mi permetto alcuna creatività"
Oggetti. Scatolette, barattoli, un cavaturaccioli in legno, confezioni di cibo aperte e consumate, delle pinze da elettricista, un apribottiglie, una bustina di minerva, resti, rimanenze, avanzi di azioni iniziate e mai finite. Tutto fissato su assi o tavole in legno e appeso alle pareti di centinaia di gallerie, di musei, di pinacoteche, di fondazioni e istituzioni in tutto il mondo. Daniel Spoerri, nato Daniel Feinstein, danzatore, pittore e coreografo rumeno naturalizzato svizzero, chiamava queste accumulazioni d'oggetti d'uso quotidiano ripescati tra i tanti ammassati nella sua stanza d'albergo a Parigi, Tableaux-Pièges o quadri trappola, dall'inganno ottico e/o sensoriale dovuto all'insolita posizione verticale della tavola rispetto all'occhio dell'osservatore uso a ben altre (e più confortanti) prospettive. Questo Tableau-Piège, donato dall'artista stesso alla GNAM (Galleria Nazionale d' Arte Moderna) di Roma nel 1973, era stato fatto a Stoccolma nel 1961, ed esposto alla galleria Apollinaire di Milano nello stesso anno. Il modo in cui questi assemblaggi venivano creati era molto semplice ed elementare: l'artista metteva in una stanza una tavola in legno di dimensioni variabili, e decideva in modo del tutto arbitrario il giorno in cui sarebbe venuto a riprendersela. Nel frattempo chiunque fosse passato per la stanza avrebbe potuto usare il ripiano, lasciando inevitabilmente i segni del suo uso. ("Le cose nascono dalla necessità e dal caso", avrebbe commentato un altro gigante dell'Arte Contemporanea, Alighiero Boetti). A un certo punto l'artista, portando via la tavola, metteva fine all'azione artistica e allo scopo originario dell'oggetto. Fissava con colla e poliestere tutto quanto vi si era accumulato sopra , senza nulla togliere, aggiungere o sistemare, e, ultima fase, appendeva la tavola al muro come fosse un quadro. L'opera deforma la percezione abituale che abbiamo degli oggetti, in questo caso invertendone la prospettiva ottica (e semantica). Secondo le leggi di gravità, dovrebbero cadere, o colare, o rompersi, invece sono bloccati come in una fotografia o come se la mise-en-scène intavolata fosse diventata eterna nell'istante voluto da Spoerri. Una natura morta non già ben organizzata dalla volontà e dal gusto dell'artista ma pensata dal caso e, inconsapevolmente, dagli spettatori. Questa non è solo la rilettura della realtà che il Nouveau Réalisme faceva riappropriandosi degli oggetti d'uso comune e scoprendo la loro espressività al di là della loro funzione o al di là del loro significato codificato, ma, per la presenza di materiali effimeri è un anticipo della poetica dell' Arte Povera, e trae le sue origini dall'objet-trouvè duchampiano e dall'estetica dadaista. Immagine tratta da www.art.moderne.com
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27/12/2016 Ai Weiwei libero: libertà di espressione, libertà di esposizione, libertà personaleRead Now
Difficile non imbattersi in Palazzo Strozzi se si è intenti a girovagare nel cuore rinascimentale della città di Firenze. Ancor più difficile, in questo periodo, è non rimanere scossi e turbati dinanzi alla vista delle sue due facciate di Piazza Strozzi e via Strozzi: ventidue gommoni di salvataggio ne circondano le cinquecentesche finestre bifore. L’installazione allude, con estrema chiarezza e in modo dirompente, all’emergenza umanitaria che da troppo tempo si consuma nei nostri mari e che spesso sprofonda nell’indifferenza generale.
Fino al 22 gennaio, il Palazzo ospiterà – per la prima volta in ambito italiano - questa e numerose altre opere dell’artista più influente del mondo secondo “Art Review”, di recente insignito dell’Art For Amnesty - Ambassador of Conscience Award: Ai Weiwei. Attraverso il Piano nobile e le sale della Strozzina, passando per il cortile, l’artista concettuale, performer, provocatore e dissidente dà vita ad un’esperienza culturale densa di messaggi attuali e stringenti che parlano alla coscienza di ognuno di noi, all’umanità. Arturo Galansino, curatore della mostra, da circa due anni vagheggiava l’idea di una grande retrospettiva dell’artista cinese. Finalmente, durante l’estate dello scorso anno, il governo di Pechino ha restituito ad Ai Weiwei il passaporto e con esso il suo diritto di essere libero di viaggiare, negatogli dal 2011, dopo la prigionia alla quale è stato costretto a causa dei suoi deliberati atti di denuncia nei confronti dell’agire dello Stato stesso, corrotto e incurante dei diritti umani. Una gigantesca ala metallica è saldamente ancorata al centro del cortile di Palazzo Strozzi: il simbolo per eccellenza della libertà viene così impossibilitato nello spiccare il volo. L’opera ben esemplifica la condizione alla quale è stato costretto l’artista per anni, ma nasconde ulteriori significati politicamente impegnati…
I pannelli esplicativi e la voce narrante dell’audioguida accompagnano il visitatore attraverso il ricco percorso espositivo, spesso di grande impatto scenografico, svelandone a poco a poco il senso e i messaggi sottesi all’interno di ogni “oggetto” costituente le opere. La visita al Piano nobile presenta alcuni dei princìpi che caratterizzano la produzione di Ai Weiwei, come il legame costante e profondo con l’identità culturale e le tradizioni del suo popolo, rinnegate dal governo cinese nel corso della storia e dall’artista rivisitate in chiave moderna, e la presa di coscienza, quindi la denuncia delle criticità del nostro tempo, dalla migrazione dei rifugiati di guerra all’intoccabile preponderanza dei poteri forti, dall’industrializzazione violenta all’inquinamento, dalle esecuzioni sommarie nei campi di lavoro al traffico di organi umani. Non mancano i riferimenti alla formazione dell’artista fin dalla prima sala, che si apre con una fitta selva di circa un migliaio di ruote di bicicletta, montate su parte del relativo telaio e letteralmente incastrate e impilate - come ricorda il titolo inglese dell’opera, Stacked - l’una sull’altra a costruire una sorta di monumentale arco trionfale di ingresso. Esplicito risulta il tributo al grande artista che Ai Weiwei, fin dagli esordi newyorkesi della sua carriera, ha posto come proprio maestro ideale: Marcel Duchamp, celebre ideatore di Ruota di bicicletta, ready-made del 1913.
Ai Weiwei ha conosciuto la New York “dopo Warhol” degli anni ’80. Pur non essendo mai riuscito ad incontrare di persona l’artista pop, ne ha compreso l’opera, considerandolo un mentore. In opere come Vases, Ai Weiwei è vicino all’arte pop, per la cromia scelta ma anche per l’ironica reiterazione di oggetti caratteristici della produzione di massa, ma preferisce puntare il dito contro la società dei consumi in modo a dir poco drastico e sconvolgente, sfruttando alcuni vasi neolitici orientali, privati del loro valore di beni culturali.
La vita bohémien trascorsa a New York dall’artista è felicemente ricordata con una selezione dal corpus di fotografie in bianco e nero, esposte tra le altre opere della Strozzina, che negli anni ne hanno documentato i momenti salienti con ritmo quasi quotidiano, come una sorta di blog ante litteram. Oggi, Ai Weiwei utilizza social media come Instagram e Twitter, sfidando la censura vigente nel suo paese, per esprimere il proprio dissenso, seguito da migliaia di follower. La mostra prosegue nella Galleria delle Statue e delle Pitture degli Uffizi e nella Piazza del mercato centrale, instaurando un dialogo possibile con l’arte occidentale del passato, in quanto, a detta dell’artista, “il mondo è una sfera, non ci sono Oriente od Occidente”.
Immagini tratte da:
www.palazzostrozzi.org
Nella seconda metà del ‘400 nacque colui che, di lì a poco, sarebbe diventato uno degli artisti più celebri e stimati del Rinascimento italiano: Michelangelo Buonarroti. Senza esitazione possiamo definirlo un artista “completo” in quanto, in un’unica persona, seppe abilmente incarnare ben quattro diverse professioni: quella di pittore, di scultore, di architetto e addirittura di poeta. Un artista, ma ancor prima un uomo geniale segnato da un temperamento irascibile e inquieto e terribilmente incline all’insoddisfazione personale e al tormento interiore. Un carattere incostante e instabile che emergerà vigorosamente anche in molti soggetti da lui scolpiti. Si tratta, infatti, di figure mascoline che spesso e volentieri Michelangelo lascia volutamente abbozzate o incompiute. Da questa “imperfezione” l’artista fu ideatore e promotore di una vera e propria tecnica: il “non finito”. Una tecnica che cela significati di ardua interpretazione suscitando nella critica e nello spettatore profonde suggestioni e riflessioni psicologiche.
In merito a questa tecnica michelangiolesca, nel 1853, il celebre pittore del Romanticismo francese, Eugène Delacroix, scriverà: “Una parte dell’effetto prodotto dalle statue di Michelangelo è dovuto a certe sproporzioni oppure alle parti incompiute, che accrescono l’importanza di quelle finite.” E aggiunge: “Mi sono detto spesso che, nonostante l’opinione che egli poteva avere di sé, Michelangelo è più pittore che scultore. Nella sua scultura egli non procede come gli antichi, cioè per masse; sembra sempre che abbia tracciato un profilo ideale, che ha in seguito riempito, come fa un pittore. Si direbbe che la sua figura o il suo gruppo gli si presenti solamente sotto una faccia: come a un pittore.” L’attitudine ad una brusca, ma al tempo stesso, affascinante incompiutezza dei marmi da parte di Michelangelo risulta emblematica soprattutto nell’osservazione di alcune opere. Eloquente, di fatto, è l’esempio delle quattro figure dei Prigioni (1513-1515) o Schiavi custodite presso la Galleria dell’Accademia a Firenze. ![]()
Michelangelo aggredisce violentemente il blocco di marmo dal quale emergono faticosamente le possenti figure degli schiavi. L’immenso peso della materia dalla quale, in vano, tentano di liberarsi sembra così schiacciarli e intrappolarli. I loro corpi si contorcono e si divincolano energicamente, ma il movimento resta in qualche modo contenuto poiché sopraffatto da forze maggiori e incontrollabili che impediscono agli uomini di sprigionare la loro forza, o per meglio dire, la loro volontà di fuoriuscire dal blocco e prendere finalmente vita. Pathos e un’estrema drammaticità avvolgono così i 4 schiavi imprigionati nel gelido e ruvido marmo.
Il “non finito” caratterizza anche altre opere molto note, come il San Matteo (1504-1506) e la più tarda Pietà Rondanini (1552-1564).
Nel San Matteo la figura abbozzata dell’apostolo compie una leggera torsione quasi come se stesse per emergere dal blocco marmoreo. Il movimento, tuttavia, seppur trattenuto risulta più composto, meno sofferto e tragico.
Nella Pietà Rondanini, realizzata quando Michelangelo aveva ormai 80 anni, l’artista alterna parti finite a parti lasciate volutamente incompiute, frutto dei suoi frequenti ripensamenti. Il volto e le braccia di Cristo sono soltanto abbozzati. Inoltre, Maria non sembra più sorreggere il corpo privo di vita del figlio, bensì sembra abbracciarlo teneramente seppur con evidente difficoltà data dal peso che fa scivolare il corpo di Cristo verso il basso.
La pietra bruta, non levigata diventa così per Michelangelo l’immagine più rappresentativa dei contrasti tra spirito-corpo, forma-materia e vita-morte. La ruvidezza della superficie marmorea, dunque, diviene un nuovo ed efficace stratagemma attraverso cui l’artista dà voce alla sua interiorità. Lo storico dell’arte tedesco Panofsky di fronte a capolavori tanto misteriosi quanto affascinanti sostenne che essi suscitavano l’idea di un conflitto interiore senza fine vissuto e, al tempo stesso, combattuto dall’artista. Tuttavia, fu proprio grazie a quest’anima indocile e straziata che il sommo Michelangelo riuscì a dare vita a sculture di immensa bellezza dal successo planetare e permanente.
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- Quattro Prigioni, altervista.org - Quattro Prigioni dettaglio,gonews.it - San Matteo, wikipedia, pubblico dominio, voce: San Matteo - San Matteo particolare, wikipedia, pubblico dominio, voce: San Matteo - Pietà Rondanini, francescomorante.it - Particolare Pietà Rondanini, www.cbccoop.it
“ […] Così succede per il Laocoonte che è nel palazzo di Tito, opera superiore a ogni altra, tanto di pittura che bronzea. Lo scolpirono, secondo un comune accordo, i sommi artisti Rodii Hagesandros, Polydoros, Athenodoros, ritraendo in un sol blocco Laocoonte stesso e i figli e le mirabili spire dei serpenti.”
È con queste parole che Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, descrive una delle statue antiche maggiormente conosciute: il Laocoonte. Questo unico blocco di marmo venne riportato alla luce il 14 gennaio 1506, a Roma, e venne immediatamente riconosciuto come il Laocoonte. Oggigiorno gli studiosi sono divisi in due scuole di pensiero: alcuni ritengono che la statua sia un’opera originale, creata a Rodi nel I sec.a.C.; altri credono che sia una copia di età romana eseguita da tre copisti Agesandro, Polidoro e Atenodoro di un originale in bronzo di epoca anteriore.
Il mito narra che il sacerdote Laocoonte si oppose all’entrata del cavallo nella città di Troia, ma proprio per questo motivo trovò la morte. Leggiamo le parole di Virgilio (Eneide, II) vv. 40-57:
“ Per primo accorre, davanti a tutti, dall’alto della rocca Laocoonte adirato, seguito da una grande turba; e di lungi: <<Sciagurati cittadini, quale così grande follia? Credete partiti i nemici? O stimate alcun dono dei Danai (Greci) privo di inganni? Così conoscete Ulisse? O chiusi in questo legno si tengono nascosti Achei, o questa macchina è fabbricata a danno delle nostra mura, per spiare le case e sorprendere dall’alto la città, o cela un’altra insidia: Troiani, non credete al cavallo. Di qualunque cosa si tratti, ho timore dei Danai anche se recano doni>> Disse, e avventò con vigore gagliardo la grande asta al fianco della fiera ed al ventre dalle curve giunture […] E se i fati degli dei, se la nostra mente non era funesta, egli ci aveva sospinti a violare il nascondiglio argolico con il ferro; oggi Toria si ergerebbe, e tu, alta rocca di Priamo, dureresti ancora”.
La statua rappresenta il momento della morte di Laocoonte e dei suoi due figli dai caratteri altamente drammatici.
A sinistra il figlio più piccolo è in una posa di totale abbandono con la testa reclinata all’indietro, ormai non ha più la forza per allontanare il mostro marino e di lì a poco morirà; l’altro figlio, sulla destra, è sul punto di liberarsi (infatti in una versione secondaria della guerra di Troia si narra che riuscirà a mettersi in salvo). Il suo dolore e la sua paura vengono manifestati dalla fronte corrugata e dalle sopracciglia abbassate. Laocoonte, ancora seduto sull’altare, viene avvolto da uno dei serpenti mandati da Poseidone, con la mano sinistra tenta di allontanare il serpente che lo sta mordendo all’altezza dell’anca. La testa è reclinata lateralmente, le sopracciglia sono contratte e abbassate, la fronte corrugata, e la bocca aperta per “emettere orrendi clamori alle stelle”. Gli occhi, inseriti in cavità orbitali profonde, sono rivolti in alto ed esprimono, insieme al resto, il dolore e la drammaticità del momento.
Anche questa scena è bellamente descritta nell’Eneide, II, vv. 199-223:
Qui un avvenimento, più grande È molto più orrendo, si offre agli sventurati, e turba i cuori sorpresi. Laocoonte, sacerdote tratto a sorte a Nettuno, immolava un grande toro presso le are solenni. Ma ecco da Tenedo, in coppia per le profonde acque tranquille - inorridisco a raccontarlo- due serpenti con immense volute incombono sul mare, e parimenti si dirigono alla riva; i petti erti tra i flutti e le creste sanguigne sovrastano le onde; tutta l’altra parte sfiora il mare da tergo e incurva in sprire gli enormi dorsi; scroscia il gorgo schiumante. E già approdavano, e iniettati di sangue e di fuoco gli occhi che ardevano, lambivano con lingue vibrate le bocche sibilanti. Fuggiamo esangui a quella vista. I serpenti con marcia Sicura si dirigono su Laocoonte; e prima l’uno e l’altro Serpente avvinghiano i piccoli corpi dei due figli E li serrano, e a morsi si pascono delle misera membra; poi afferrano e stringono in grandi spire lui che sopraggiunge in aiuto e brandisce le armi; avvintolo due volte alla vita, e attortisi al collo due volte con le terga squamose, sovrastano con il capo e con le alte cervici. Egli si sforza di svellere i nodi con la forza delle mani, cosparso le bende di sangue corrotto e di nero veleno, e leva orrendi clamori alle stelle […]
Come dice Salvatore Settis: “E’ una tensione che viene come dall’interno, che gonfia i muscoli o i nervi, come corde d’arco, quasi dovesse esplodere, con l’urlo inevitabile, nell’istante che verrà”
Bibliografia:
Settis S., Laocoonte: forma e stile, Roma, 1999
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wikipedia, LivioAndronico, CC-BY 4.0, voce: Laocoonte wikipedia, LivioAndronico, CC-BY 4.0, voce: Laocoonte wikipedia, LivioAndronico, CC-BY 4.0, voce: Laocoonte wikipedia, LivioAndronico, CC-BY 4.0, voce: Laocoonte Perseo con la testa di Medusa, una delle statue più belle e famose della Loggia dei Lanzi a Firenze, è l’opera in bronzo che tenne impegnato l’artista Benvenuto Cellini per ben 9 anni. Nel 1545 Cosimo I de’ Medici, dopo il suo insediamento come duca della Città, commissionò al Cellini una statua da esporre sotto l’arcata della Loggia. Cosa simboleggia la scultura? Cellini scelse di raffigurare il mito di Perseo e Medusa. Esso racconta come l’eroe greco, grazie allo scudo donatogli da Atena, riuscì a uccidere Medusa, l'unica mortale delle tre Gorgoni, esseri mostruosi con serpenti al posto dei capelli e lo sguardo pietrificante. Il mito nasconde un significato politico. Il trionfo di Perseo su Medusa è l’allegoria della vittoria di Cosimo I sull’ esperienza repubblicana, a cui pose fine nella sua Firenze. Dal corpo di Medusa escono infatti serpenti, allusione alle discordie che avevano da sempre compromesso una vera democrazia. Ma chi era Benvenuto Cellini? Di certo non era un angioletto. Egli venne bandito da Firenze a 16 anni per rissa. Nel 1527 partecipò alla difesa di Roma, per poi fuggire dalla stessa città a causa di un litigio con il figlio del Papa e dopo poco fu imprigionato a Castel Sant’Angelo, da dove poi evase e si rifugiò in Francia. Fu condannato per sodomia e scappò nuovamente verso Firenze. “La fatica la m’era insopportabile; e pure io mi sforzavo.” Queste sono le parole dello scultore, riportate nella sua autobiografia “La vita”, che testimoniano la grande difficoltà per la fusione del Perseo. Perché fu così faticoso? Si parla di “fusione straordinaria”. L’artista, scelse di utilizzare il procedimento a cera persa, tipico degli antichi greci, attraverso la fusione in un unico getto. La statua che vediamo è infatti costituita da soli tre pezzi: il corpo dell'eroe, il corpo di Medusa e la sua testa. Per la fusione a cera persa era necessario fare una statua di creta vuota all’interno, cuocerla e stendervi la cera per poi ricoprirla di altra creta. Una volta uniti i tre strati con i chiodi, si infornava. La cera si scioglieva e si versava il bronzo liquido. Si toglieva tutta la creta e i chiodi ed infine si rifiniva. Più grande era la statua, più difficile era l’impresa. Tale fusione mise a dura prova il Cellini e i suoi assistenti, tanto che l’artista racconta nella sua “Vita” di una fusione quasi epica. Vediamo perché. Pioveva, la fornace era talmente calda che si era incendiato il tetto. Cellini era distrutto, probabilmente a causa delle esalazioni dei metalli che sono in grado di provocare una febbre altissima. Nel momento cruciale della colata, fu costretto a mettersi a letto. Prima di andare, credendo di non arrivare al giorno dopo, spiegò ai suoi assistenti come fare. Venne poi richiamato perché si era spenta la fornace a causa dell’acqua. Più morto che vivo, ordinò di spegnere il fuoco sul tetto e di aggiustare la fornace, che però esplose. Il bronzo era poco fluido perché la lega si era consumata. Allora il Cellini buttò nella fornace semi-distrutta tutti i suoi piatti e scodelle di stagno, per un totale di 200 pezzi. Alla fine il metallo tornò liquido e la fusione riuscì. Nel 1554 fu finalmente mostrata in Piazza della Signoria. Siete curiosi di conoscere il volto dell’impavido Artista? Basta fermarsi alle spalle della statua e puntare lo sguardo verso l’alto sulla nuca del Perseo, ed ecco che comparirà il suo volto. Pare infatti che Benvenuto Cellini abbia voluto scolpire il suo autoritratto proprio sull’opera che glì costò così tanta fatica.
Articolo gentilmente concesso da Viaggiando in Toscana
La Chimera è sicuramente una delle creature mitologiche più affascinanti e famose di sempre. Nella mitologia greca si parla infatti della khimaira, un essere mostruoso nato dall’amore fra Tifone ed Echidna.
Il primo era un mostro con cento teste di drago, la seconda una donna bellissima il cui corpo era per metà quello di un serpente maculato. I fratelli di Chimera erano Cerbero, il cane a tre teste, Idra di Lerna, serpente marino con nove teste, nonché Ortro, un grosso cane a due teste con un serpente come coda.
Anche nell’Iliade si parla della terribile Chimera, descritta come un mostro con testa di leone, corpo di capra e coda di drago. Fu l’eroe Bellerofonte, con l’aiuto del cavallo alato Pegaso, a sconfiggere Chimera e a porre fine alle distruzioni compiute dal mostro sulle coste dell’attuale Turchia. Ma qual è il legame fra la mitologia e la celebre scultura di Arezzo?
In realtà, in un primo momento la Chimera non fu riconosciuta come tale. Il terribile mostro sputa fuoco che terrorizzava le popolazioni, secondo la mitologia, fu invece scambiato per un semplice leone, forse perché nel 1553 era mancante della coda. Nel 1718, la scultura fu spostata nella Galleria degli Uffizi, poi presso il Palazzo della Crocetta, attuale sede del Museo Archeologico di Firenze, dove potete ammirarla tuttora.
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- chimera, da Pinterest - cerbero, da Wikimedia Commons, By Giuseppe Arcimboldo - Web Gallery of Art: Image Info about artwork, Public Domain,file "Giuseppe Arcimboldo - Sketch for a Cerberus - WGA00875.jpg" - Cosimo I de' Medici, da Wikipedia Italia, Di Agnolo Bronzino - BgE-KxM-dl89lg at Google Cultural Institute maximum zoom level, Pubblico dominio, voce "Cosimo I de' Medici" - Chimera di Arezzo, da Wikipedia Italia, Di I, Sailko, CC BY-SA 3.0, voce "Chimera di Arezzo" 6/12/2016 Pillole di Arte Contemporanea: John Baldessari, "I Will Not Make Any More Boring Art" (1971)Read Now
" Non farò mai più arte noiosa. Non farò mai più arte noiosa. Non farò mai più arte noiosa..." scrive John Baldessarri riga dopo riga, come un allievo punito severamente dal maestro. A quale arte noiosa si riferisce? Attraverso le modalità tipiche dell'Arte Concettuale, John Baldessarri ci dice che l'arte noiosa è proprio quella concettuale. Con il suo stile e le regole di una delle tendenze egemoni del decennio, denunciando il potere che ha assunto nei musei e nelle altre gallerie e tra gli artisti e i critici.
In I will not make any more boring art, l'artista utilizza innanzitutto la parola scritta, imitando la linea linguistica dell'Arte Concettuale. Scrivendo e riscrivendo la frase, adotta una delle modalità più ricorrenti della tendenza: quella della ripetizione. Il "componimento" viene tradotto in litografia, stampato e trasformato in multiplo, secondo un'altra strategia caratteristica, quello cioè di privare l'opera di unicità, rendendola economicamente più accessibile e democratica. L'ironia e la parodia sono gli ingredienti di base delle opere di Baldassarri che, partito dalla pittura anche in questo caso per criticarla, se ne distacca definitivamente con un atto eclatante quanto irriverente. Nel 1970 con Cremation Poteject ha infatti dato alle fiamme i suoi dipinti, salvandone solo alcuni. Dietro un atteggiamento volutamente ludico e leggero, l'artista compie in realtà una critica feroce che lo porta per esempio, nel video del 1972 Baldassarri Sings LaWitt, a canticchiare i famosi Paragrafi sull'Arte Concettuale, pubblicati da Sol LeWitt nel 1967. Riduce così uno dei testi sacri della tendenza a un insieme di motivetti del tipo di quelli che si canticchiano soto la doccia. Docente al California Institute of Art , Baldassarri fu una delle personalità di riferimento della generazione successiva, formata da artisti che utilizzarono il Concettuale ma con una più marcata consapevolezza critica rispetto ai componenti della prima generazione. Immagine tratta da www.khanacademy.org
Il parigino Jean-Baptiste-Camille Corot fin da giovanissimo desiderava ardentemente dedicare la sua esistenza alla pittura. Inizialmente ostacolato dal padre, che lo avrebbe voluto commerciante nella redditizia attività familiare, Corot poté iniziare la propria formazione artistica nel 1822, all’età di ventisei anni. Si iscrisse alle lezioni di Achille-Etna Michallon e di Jean-Victor Bertin, allievi a loro volta del maestro paesaggista Valenciennes, inserendosi nel solco della tradizione della pittura di paesaggio, improntata sugli studi eseguiti all’aperto. I numerosi schizzi e disegni che Corot realizzò nel corso della sua vita suggeriscono che non abbandonò mai i modelli e le forme neoclassiche, ma contemporaneamente intese la pratica en plein air come il fulcro del suo apprendistato. In contrasto con alcuni passi del trattato di Valenciennes, Corot sosteneva che “si deve essere rigorosi di fronte alla natura e non accontentarsi di uno studio affrettato”. I suoi schizzi d’après nature si fecero sempre più minuziosi nella resa dei dettagli e la loro cromia assunse le caratteristiche definitive dell’opera compiuta. Il primo viaggio che il pittore intraprese in Italia, nel 1825, fu illuminante per la sua futura produzione. I caldi e soleggiati scorci della penisola, che già da tempo avevano rapito artisti provenienti da tutta l’Europa, divennero i soggetti di coppie o trittici di varianti della medesima veduta, dipinte seguendo il moto discendente del sole nell’arco della giornata.
Questi studi di frequente venivano rifiniti in atelier, conferendo loro la dignità di un quadro, mentre le opere destinate alle esposizioni ufficiali, si caratterizzarono per nuova freschezza e naturalismo.
Al rientro in Francia, Corot smise di considerare la pittura en plein air come mero esercizio dell’occhio e della mano, inaugurando una nuova tradizione per il paesaggio francese, condivisa da un nascente gruppo di giovani pittori, liberi per motivi anagrafici dai vincoli accademici del paesaggio storico e riuniti da grande amicizia e stima reciproca. Conosciuti con il nome di Scuola di Barbizon – anche se mai si diedero un’organizzazione ”scolastica” – dall’omonimo villaggio ai confini della pittoresca foresta di Fontainebleau, Théodore Rousseau, Charles-François Daubigny e molti altri riscoprirono la natura in modo autentico e indipendente da ogni convenzione. Ciascun artista barbizonniers “individuava nella natura solo le componenti che rispondevano al proprio temperamento e si accontentava di andare alla ricerca di una sola nota peculiare, la propria”, secondo le parole dello storico dell’arte John Rewald.
Nel corso dell’Ottocento la Rivoluzione industriale promosse notevoli sviluppi anche nel settore chimico. La scoperta di nuovi elementi rese possibile l’invenzione di numerosi pigmenti. Arancione di cromo, giallo di cadmio (detto giallo limone), blu cobalto, verde smeraldo, rosso magenta, violetto oltremare passarono ben presto, grazie alla loro stabilità e purezza, dall’impiego nell’industria tessile alle tavolozze dei pittori, ma in una veste innovativa. Per contenere i colori, già preparati e pronti all’uso, la ditta britannica Winsor & Newton mise a punto prima una sorta di siringa di vetro, quindi, nel 1841, il tubetto in stagno, flessibile e con l’ermetica chiusura a vite, così da poterli conservare permanentemente. Di conseguenza cambiarono le modalità di stesura dei colori stessi sulle tele, con l’introduzione dei pennelli con ghiera metallica e delle spatole. La pittura subì una radicale trasformazione: più tardi, Vincent Van Gogh finirà per spremere il tubetto direttamente sulla tela, “modellandovi” il colore con l’ausilio del pennello.
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Gennaio 2022
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