di Ilaria Ceragioli Fabrizio Dusi nasce a Sondrio nel 1974, ma vive e lavora a Milano dove dal 2005 possiede un personale laboratorio artistico. Inizialmente comincia la sua attività nelle vesti di grafico per poi frequentare un corso di ceramica presso la scuola Cova di Milano. Sorprendente è la sua capacità di sperimentare e contaminare tecniche e materiali tra loro differenti quali la ceramica, la pittura, il legno, il plexiglas e il neon. Ne è un chiaro esempio la sua Basta blablabla, un’installazione elaborata nel 2012 attraverso l’utilizzo della ceramica smaltata e del legno. Fabrizio Dusi si definisce in primis un artigiano in quanto per la realizzazione delle sue opere è necessaria una certa abilità tecnica. Al contempo, però, incarna perfettamente anche la figura di artista poiché nei suoi lavori esprime con originalità e immediatezza contenuti molto profondi, idee e concezioni sull’uomo e sulla società attuale. Ciò si percepisce chiaramente dai soggetti delle sue creazioni: spesso il protagonista, una figura stilizzata priva di tratti distintivi, ma fortemente autobiografica e autoreferenziale (come ha più volte sottolineato lo stesso artista), è presentato da solo o in compagnia di una folla che non si cura di lui, bensì lo ignora completamente. I personaggi prodotti da Fabrizio Dusi hanno costantemente la bocca aperta dalla quale fuoriescono una miriade di bolle di sapone colorate, le parole. Su alcune di queste compare frequentemente la scritta “bla, bla, bla” alludendo per l’appunto all’atto di colloquiare, spesso a casaccio oppure inutilmente in quanto nessuno manifesta interesse nei confronti del messaggio che intende esprimere il parlante. Di conseguenza, i personaggi di Dusi manifestano un forte senso di solitudine, di fragilità e di inadeguatezza all’interno di una società troppo distratta e incapace di ascoltare. Di fatto, non è un caso che questi siano, talvolta, privi di orecchie. Dalla contemplazione dell’uomo e dei suoi comportamenti emerge così una grande difficoltà di instaurare solidi e sinceri rapporti con i propri simili. Il messaggio principale della produzione artistica di Fabrizio Dusi si concentra, dunque, sulla necessità di comunicare. Da qui, anche la trattazione di temi legati alla storia collettiva e all’attualità. Nel 2017 Fabrizio Dusi è stato protagonista della mostra “Don’t Kill” curata da Chiara Gatti e Sharon Hecker e allestita presso la Casa della Memoria, a Milano. Il tema dell’esposizione traeva ispirazione dalla Shoah, ma intendeva presentare anche un collegamento col presente, scaturendo una profonda riflessione a partire dall’insegnamento riportato nel quinto comandamento: “Non uccidere”. A questo monito si aggiungono scritte al neon ispirate a frasi di noti deportati come Primo Levi o Liliana Segre. Pertanto, citazioni luminose come “vogliamo vivere” e “l’odore della paura” andavano a ricordare le vittime di ogni forma di violenza e genocidio. Tra le mostre tenute da Fabrizio Dusi ricordo anche la più recente dal titolo “Insieme al mondo piangere, ridere, vivere” allestita dal 20 settembre al 15 novembre presso il Museo Civico delle Cappuccine a Bagnacavallo (Ravenna). Il percorso espositivo è stato curato da Chiara Gatti e Diego Galizzi e centrali sono i temi del distanziamento tra gli uomini e dell’esigenza di solidarietà tra quest’ultimi. La riflessione di Dusi su queste tematiche si fa adesso ancora più intensa dato il dilagante clima di sofferenza e di incertezza causato dalla drammatica emergenza sanitaria che il mondo intero sta tuttora affrontando. In questa occasione Fabrizio Dusi ha presentato, fra le altre, anche le inedite serie di regioni italiane riprodotte su coperte isotermiche dorate che prendono forma dall’accostamento ripetuto del volto iconico del personaggio ideato dall’artista. Mediante quest’operazione Dusi ha voluto così evidenziare concetti a lui molto cari, ma spesso trascurati, come quelli di sopravvivenza, di accoglienza e di fratellanza. Ad esempio, le singole regioni del nostro paese hanno affrontato la situazione presente in modi differenti, spesso in maniera autonoma anziché collaborando. La mostra si concludeva poi con un messaggio di speranza e di aiuto reciproco rimarcati anche dalla scritta al neon posta sulla facciata del museo: Insieme al mondo, piangere, ridere, vivere. L’arte di Fabrizio Dusi è quindi un prezioso invito a riflettere sul bisogno di comunicazione e di solidarietà tra gli uomini.
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di Ilaria Ceragioli Ciro Cerullo, noto a tutti come Jorit, è un giovane street artist italo-olandese autore di imponenti e significativi murales che hanno letteralmente conquistato la scena artistica italiana e internazionale. Testimonianze artistiche del suo passaggio si possono infatti rinvenire in Argentina, Bolivia, Cile, Cina, Palestina, ma anche in Russia e a San Francisco. Jorit nasce e cresce a Napoli e la sua produzione artistica deriva da una forte esigenza espressiva scaturita da contesti sociali particolarmente difficili e precari. Infatti, il suo spazio d’azione è la periferia, quel luogo in cui maggiormente dilagano incuria, abbandono e povertà. Jorit intende dare luce e voce a questi sobborghi e ai loro abitanti comunemente lasciati in balìa dell’indifferenza e della trascuratezza. L’arte assolve perciò un ruolo sociale e morale di notevole rilevanza: denunciare le ingiustizie e le disuguaglianze. Ciò trova concretezza nei suoi maxi murales. Il muro in quanto supporto soggetto a decorazione, non è più soltanto una superficie da abbellire, ma diviene motivo di riflessione e un manifesto capace di comunicare e di divulgare alla comunità messaggi di importanza capitale. Un’attitudine molto originale ed estremamente efficace che caratterizza la prima fase dell’attività artistica di Jorit è quella di anticipare i soggetti che andrà a riprodurre attraverso una serie di citazioni o pensieri personali. Il linguaggio verbale lascerà poi spazio al linguaggio figurativo espresso dai volti dei soggetti ritratti. La sua ricerca si concentra infatti sulla raffigurazione realistica di volti umani. Per l’artista napoletano il viso di un uomo è la parte del corpo che meglio ci identifica e in cui ognuno, inevitabilmente, è chiamato a rispecchiarsi. Il tratto distintivo dei volti immortalati da Jorit è la presenza di due segni di colore rosso incisi sulle guance dei suoi protagonisti. Lo street artist ha rivelato che questi “graffi” siano connessi al rito della scarnificazione. Si tratta di un rituale iniziatico magico/curativo praticato dalle varie tribù africane che sancisce il passaggio dall’infanzia all’età adulta e, quindi, l’ingresso dell’individuo all’interno di una determinata tribù. Jorit è entrato in contatto con tale cultura grazie a viaggi personali in Tanzania e Kenya ed ha deciso di estendere questo concetto all’intera comunità umana come segno di appartenenza ad essa. Da qui la sua “Human Tribe”. Così volti graffiati di dimensioni colossali vanno a decorare i muri di edifici malmessi e fatiscenti divenendo dei veri e propri simboli di lotta, di coraggio e, soprattutto, di speranza per le generazioni future. Infatti, non è un caso che i soggetti da lui riprodotti siano per la maggior parte personaggi noti, o forse sarebbe più doveroso definirli celebri “guerrieri” che hanno fatto la storia del nostro paese e del mondo intero. Ne è un chiaro esempio il volto di Martin Luther King sormontato dalla scritta “I have a dream: lavoro e dignità per Barra” che Jorit ha realizzato a Napoli su un edificio collocato dinanzi alla stazione della vesuviana di Barra. Il penetrante sguardo di Martin Luther King, leader del movimento per il riconoscimento dei diritti civili degli afroamericani, rivive così in un quartiere della periferia di Napoli non solo come emblema di lotta contro il razzismo ma, più in generale, come simbolo di ogni battaglia finalizzata alla tutela degli ultimi, ossia di coloro che vivono ai margini della società. Nel quartiere di Arenella (NA) l’artista partenopeo dedica invece un murales a Ilaria Cucchi, sorella di Stefano Cucchi che, come è noto, fu brutalmente torturato e ucciso dalle forze dell’ordine. L’opera si configura come un vero e proprio omaggio a una donna che con perseveranza, vigore e determinazione ha combattuto in nome della giustizia e che, come sottolinea la scritta che l’accompagna, è divenuta motivo di “orgoglio nazionale” e simbolo universale di resistenza e di giustizia. Ancora nel capoluogo campano, ma stavolta nel rione Ponticelli, fa la sua comparsa “Ael”, una bellissima bambina “immaginaria”, non riconducibile quindi a una specifica identità. I suoi tratti infatti possono ricordare quelli di una bambina rom o di una “scugnizza” napoletana, ma potrebbe incarnare anche una bambina adottata. La sua opera più recente, ultimata circa una settimana fa, si colloca a Firenze, in Via Canova, su un edificio di edilizia popolare. Qui, Jorit ha immortalato Antonio Gramsci, celeberrimo politico e intellettuale incarcerato dal regime fascista (1926-1937) e tra i fondatori del Partito Comunista. Il progetto presenta il titolo “Odio gli indifferenti” ed è stato estrapolato da uno scritto di Gramsci apparso nella rivista “La città futura” in cui quest’ultimo si scagliava contro l’indifferenza e il disimpegno.
Grazie all’impegno artistico, civile e morale di Jorit le periferie diventano musei a cielo aperto e luoghi dai quali ciascuno è chiamato ad intraprendere un nuovo cammino avente come meta il raggiungimento di una vita migliore, un’esistenza in cui ogni cittadino abbia dignità, possibilità di rivalsa e goda di pieni diritti. Immagini tratte da: www.qaeditoria.it www.tripadvisor.it www.rollingstone.it corrieredelmezzogiorno.corriere.it Facebook, https://www.facebook.com/joritgraffiti/photos/a.590731567739702/2384709481675226/ L’invito di Jago a guardare in basso, a quelli che sono incatenati nella loro posizione di Marianna Carotenuto Un bambino in marmo bianco disteso su un fianco, in posizione fetale, che al posto del cordone ombelicale ha una catena che lo tiene ancorato al pavimento: questa è la nuova scultura dell’artista Jacopo Cardillo, alias Jago, comparsa nella notte tra il 4 e il 5 Novembre a Napoli in Piazza del Plebiscito. Quest’opera, dal valore di un milione di euro, è intitolata Look-down, un gioco di parole sul lockdown con un collegamento diretto alle conseguenze socio-economiche della pandemia da Covid-19 con un “invito a guardare in basso, ai problemi che affliggono la società e alla paura di una situazione di povertà diffusa che si prospetta essere molto preoccupante, soprattutto per i più fragili”. Il bambino nudo con occhi stanchi adagiato sulla fredda pavimentazione della piazza, si fa portavoce anche di un altro gesto estremamente simbolico: abbandonare un’opera di così tanto valore in una piazza, esposta agli agenti atmosferici e a possibili atti vandalici, raffigura la vulnerabilità delle classi sociali che l’opera rappresenta. Questa installazione è stata resa possibile dalla Fondazione di Comunità San Gennaro di Napoli, una realtà particolarmente impegnata nel rilancio e nella valorizzazione del Rione Sanità di Napoli. Infatti, Jago, 33anni, originario di Frosinone, dopo aver vissuto a New York ha scelto Napoli come suo domicilio artistico. Il suo nome è ormai legato a quello del quartiere Sanità, proprio nella Chiesa di San Severo alla Sanità è esposta la sua l'opera "Figlio Velato" ispirata al Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino: un bambino disteso coperto da un velo. La scultura è stata realizzata nel 2019 a New York per essere poi trasferita definitivamente a Napoli. L’intensità della sua arte scuote e fa riflettere e pone l’attenzione sulle tantissime persone che stanno affrontando innumerevoli difficoltà, ritrovandosi incatenate e vulnerabili dinanzi alla pandemia. Video dell'opera, sulla pagina Instagram dell'artista Immagine tratta dal suo sito:
https://jago.art/it/ |
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Gennaio 2022
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