di Olga Caetani Bestie da soma è un’opera che fin dal suo stesso titolo non riserva alcuna pietà alle figure ritratte all’interno dell’ampio scorcio di vita e di mondo, che si dipana a grandezza pressoché naturale davanti agli occhi di chi guarda, profondamente scosso da tanto crudo realismo. Sull’esempio di Courbet, Daumier e Millet, di Fattori e dei Macchiaioli fiorentini e non senza lo studio delle grandi tele romane di Caravaggio e dei suoi seguaci, la pittura di Teofilo Patini è zelante e meticolosa, fin quasi a sfiorare la perfezione del reale, anche nella sua più impietosa declinazione. Con Bestie da soma, che costituisce l’acme di una trilogia ideale, realizzata entro la prima metà degli anni ’80 dell’Ottocento e che comprende L’Erede e Vanga e latte, il progressivo processo di avvicinamento del pittore al realismo sociale è compiuto. Alle critiche accademiche rispondeva: “ho coscienza che l’impressione da me voluta è spiacevole e fatta proprio per urtare i nervi delicati di chi porta guanti e calze di seta”, ritenendo che il lavoro, la fatica e la miseria contenessero in loro “il germe delle grandi riforme sociali”. Patini dipinge la “semplice e pura manifestazione” del vero che lo circonda e, da ex garibaldino impegnato nelle insurrezioni del Gran Sasso e della Marsica, apre uno spaccato sulle precarie e desolanti condizioni di vita in Abruzzo all’indomani dell’Unità d’Italia, ben sintetizzate dall’indigenza che traspare osservando la serie di piccole vedute paesaggistiche di Castel di Sangro, suo paese natale. Se lo sconfinato e arioso orizzonte montano di Vanga e latte lasciava intravedere una futura speranza, incarnata dal neonato nutrito dalla donna, in Bestie da soma non ci sono possibilità di riscatto, come non ci sono né aria né cielo, e, in assenza dell’orizzonte, solo brulle rocce, aspre e inospitali. Tra massi, pietre e aguzzi cardi secchi, tre donne, schiacciate dal peso della fatica e dalla prospettiva, riprendono fiato sotto il sole bruciante, le labbra sono dischiuse e riarse, le vesti sdrucite e logore. Sullo sfondo, in lontananza, se ne contano almeno altre cinque, rese con rapidi tocchi di colore degni del tratteggio impressionista. Rincasano, ognuna con il proprio pesante carico di legna, e c’è chi porta anche il fardello del ventre rigonfio, di un nascituro destinato alla medesima e inesorabile sorte della madre. Ma le donne di Patini, qui variate nelle tre stagioni della vita, non piangono mai. Seppur stremate, alludono all’organizzazione segretamente matriarcale della famiglia abruzzese, offrendo un focus sulla socialità della donna italiana. Sempre dipinte nel vivo di un’attività, sono donne concrete, forti e orgogliose, senza vanità. Un dettaglio non passa inosservato: sotto la luce zenitale che modula il chiaroscuro della tela, un luccichio d’oro incornicia i volti disfatti dalla durezza del lavoro. Sono i preziosi orecchini ricevuti in dono al momento del fidanzamento o delle nozze e passati di madre in figlia. Lunghi e pendenti, ad ogni passo riproducono il gesto apotropaico di allontanamento delle influenze maligne. Femminilità, dignità e superstizione si fondono nel costume tradizionale, simbolo irrinunciabile di appartenenza e resistenza culturale. Miracolosamente sopravvissuta al devastante terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009, l’opera, facente parte della collezione del Palazzo del Governo del capoluogo abruzzese, è oggi esposta, assieme a tanti altri importanti dipinti del maestro, nella Pinacoteca Patiniana di Castel di Sangro, situata nei suggestivi ambienti del trecentesco Palazzo De Petra, cuore del centro storico della città, pulsante di iniziative, laboratori, mostre temporanee ed eventi culturali. Immagini tratte da:
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Gennaio 2022
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