Sul finire del Cinquecento, Michelangelo Merisi da Caravaggio (per un'accurata trattazione della poetica del pittore rimandiamo all’articolo Caravaggio: una realtà priva di illusioni di Ilaria Ceragioli) si sta affermando nell’ambito del collezionismo privato romano, sotto l’egida dei suoi devoti mecenati, tra i quali spicca il cardinale Francesco Maria Del Monte. Zingare, malfattori, e musici si alternano, nelle sue opere, a soggetti di rango più elevato, tratti dalla storia sacra. Non vi è stato ancora un vero e proprio esordio sulla scena pubblica, che non tarderà ad arrivare. Nel 1599, grazie all’intercessione di Del Monte, Caravaggio ottiene una commissione fondamentale, destinata a consacrarlo come “egregius in urbe pictor”: l’esecuzione di due tele per le pareti laterali della cappella Contarelli, nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma. Il cardinale Mathieu Cointrel (italianizzato in Matteo Contarelli) aveva acquistato la cappella molti anni prima, con l’intento di dedicarla al suo santo omonimo, attraverso un ciclo decorativo degno dell’evangelista. Caravaggio si attiene al programma iconografico prestabilito dal Contarelli nel suo testamento, iniziando a dipingere il Martirio di San Matteo, per poi passare, in corso d’opera, alla Vocazione.
L’episodio sacro si svolge all’interno di una disadorna taverna. Intorno al tavolo siedono avidi personaggi in costume secentesco, intenti a contare denaro. Nella scura parete di fondo si apre una finestra, dalla quale, tuttavia, non filtra il fascio di luce calda che irrompe diagonalmente nella stanza: esso proviene dall’angolo in alto a destra della tela, al di sopra di Cristo e San Pietro – gli unici panneggiati all’antica - , accompagnando il braccio disteso del Redentore nell’atto di chiamare a sé Matteo Levi, esattore e usuraio di Cafarnao, per farne un apostolo. Quest’ultimo, illuminato dalla luce divina, risponde con un gesto sospeso tra la sorpresa e la perplessità, nella quasi totale indifferenza generale.
Il Martirio è di nuovo risolto come una scena contemporanea, concitata ed estremamente drammatica, alla quale partecipa lo stesso Caravaggio, che si autoritrae sul fondo a sinistra nell’uomo barbuto e sgomento, tra le urla mute degli astanti. Il successo ottenuto con i due laterali è così grande che al pittore viene chiesto di dipingere anche la pala d’altare della cappella, che deve raffigurare San Matteo e l’angelo.
Allo scoprimento della tela, un coro di critiche si abbatte su Caravaggio. Dalle sembianze di un popolano, più che di un evangelista, Matteo poggia il libro sulle gambe accavallate, mostrando allo spettatore i piedi nudi e sporchi. La sua fronte corrugata tradisce un certo disagio nello scrivere, tanto che l’angelo, con la pazienza di un maestro, gli guida letteralmente la mano. Dopo il netto rifiuto dei committenti, Caravaggio realizza una seconda e definitiva versione dell’opera, questa volta rispettosa del decoro che si addice a un santo.
L’impeto dell’ispirazione divina è reso dallo sgabello in precario equilibrio sul piano d’appoggio, che dà vita a uno straordinario saggio dell’illusionismo caravaggesco. San Matteo si volge in torsione verso l’angelo che sta dettando, enumerandola con le dita, la genealogia di Cristo, con la quale ha inizio il suo Vangelo. Lo stile di Caravaggio si fa in questo momento maggiormente aulico, aprendogli la via per le commissioni successive, ma senza impedirgli di mostrare formidabili brani del suo spiccato realismo, anche all’interno di una chiesa.
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1 Commento
enzo mammato
11/5/2017 17:40:34
Un san Matteo magrissimo che è sorpreso e spaventato dalla presenza dell'angelo, tanto che si ritrova in un precario equilibrio dello sgabello rischiando di cadere. L'angelo, nell'enunciare l'albero genealogico di Gesù col quale ha inizio il vangelo del santo, si ritrova "hic et nunc" , considerando la posizione delle dita, alla parola Isacco del versetto 2° del cap.1°... Abramo generò Isacco!
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