L’invito di Jago a guardare in basso, a quelli che sono incatenati nella loro posizione di Marianna Carotenuto Un bambino in marmo bianco disteso su un fianco, in posizione fetale, che al posto del cordone ombelicale ha una catena che lo tiene ancorato al pavimento: questa è la nuova scultura dell’artista Jacopo Cardillo, alias Jago, comparsa nella notte tra il 4 e il 5 Novembre a Napoli in Piazza del Plebiscito. Quest’opera, dal valore di un milione di euro, è intitolata Look-down, un gioco di parole sul lockdown con un collegamento diretto alle conseguenze socio-economiche della pandemia da Covid-19 con un “invito a guardare in basso, ai problemi che affliggono la società e alla paura di una situazione di povertà diffusa che si prospetta essere molto preoccupante, soprattutto per i più fragili”. Il bambino nudo con occhi stanchi adagiato sulla fredda pavimentazione della piazza, si fa portavoce anche di un altro gesto estremamente simbolico: abbandonare un’opera di così tanto valore in una piazza, esposta agli agenti atmosferici e a possibili atti vandalici, raffigura la vulnerabilità delle classi sociali che l’opera rappresenta. Questa installazione è stata resa possibile dalla Fondazione di Comunità San Gennaro di Napoli, una realtà particolarmente impegnata nel rilancio e nella valorizzazione del Rione Sanità di Napoli. Infatti, Jago, 33anni, originario di Frosinone, dopo aver vissuto a New York ha scelto Napoli come suo domicilio artistico. Il suo nome è ormai legato a quello del quartiere Sanità, proprio nella Chiesa di San Severo alla Sanità è esposta la sua l'opera "Figlio Velato" ispirata al Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino: un bambino disteso coperto da un velo. La scultura è stata realizzata nel 2019 a New York per essere poi trasferita definitivamente a Napoli. L’intensità della sua arte scuote e fa riflettere e pone l’attenzione sulle tantissime persone che stanno affrontando innumerevoli difficoltà, ritrovandosi incatenate e vulnerabili dinanzi alla pandemia. Video dell'opera, sulla pagina Instagram dell'artista Immagine tratta dal suo sito:
https://jago.art/it/
0 Commenti
di Olga Caetani La Lezione di anatomia del dottor Tulp è l’opera che consacra la fama del giovane Rembrandt van Rijn appena trasferitosi ad Amsterdam da Leida, città ricca e fiorente sulle sponde del Vecchio Reno, ove era nato e aveva appreso i primi rudimenti di pittura, ma ormai troppo piccola e poco stimolante dal punto di vista artistico per attendere alle numerose commissioni che gli giungevano dalla capitale. Raccapricciante nella puntualità dei dettagli anatomici del cadavere, sezionato sotto gli occhi dello spettatore, il ritratto di gruppo dei chirurghi di Amsterdam, si trasforma in una drammatizzazione scenica delle loro reazioni, sospese tra interesse e stupore. Complice, senza dubbio, è la luce, proiettata come un faretto teatrale sui volti degli astanti contro lo sfondo scuro. La stesura pittorica accurata e serica lascerà il posto a un tratto più rapido, vibrante e chiaroscurato nelle opere della maturità, come in Ronda di notte, capolavoro di Rembrandt. Il titolo, quanto mai fortunato, è in realtà frutto di un errore settecentesco: la scena si svolge in pieno giorno, all’interno della Sala della Guardia del Municipio di Amsterdam, quando il capitano Frans Banning Cocq, in abito scuro e con la fascia rossa del comando, ordina di mettere in marcia la sua compagnia. La scelta del momento rappresentato è rivoluzionaria e trascende i canoni del ritratto di gruppo. Rembrandt inserisce infatti alcuni elementi allegorici, come il tamburino delle cerimonie festive che corre tra gli archibugieri, e la massiccia arcata sullo sfondo, simbolo della difesa della città. Il risultato è una complessa messinscena barocca di grande impatto per lo spettatore, tanto che “non ci si sottrae all’impressione vivissima di udire i colpi degli spari e il battere del tamburo di questo rumoroso corpo di guardia”, come scrive Tomaso Montanari. Osservando l’Aristotele che contempla il busto di Omero sembra quasi di trovarsi di fronte a uno shakespeariano Amleto. L’illuminazione del proscenio, l’attualizzazione del personaggio storico e il congelamento dell’azione ricordano la matrice caravaggesca dell’arte di Rembrandt, mediata dai pittori olandesi suoi connazionali, come Gerard van Honthorst, che, viaggiando in Italia, ne avevano avuto conoscenza diretta. Aristotele non veste propriamente abiti contemporanei, bensì un sontuoso costume di scena, e dalla catena d’oro pende un medaglione con il ritratto del suo discepolo Alessandro Magno. L’identificazione del personaggio è chiara, ma l’atmosfera ricorda quella del celebre soliloquio. Uno spirito teatrale infonde tutta l’opera di Rembrandt, per il quale l’artista diventa anche attore, ovvero “interprete convincente e credibile di un’espressione, di un volto, di una psicologia”, da saper riprodurre abilmente sulla tela. La lunga serie di autoritratti del pittore, copiati dai suoi allievi “per imparare ad appropriarsi degli affetti, degli stati d’animo, dei gesti di un’altra persona”, testimonia questa originale concezione dell’arte e del teatro. Galleria di autoritratti di Rembrandt Senza questa profonda indagine di sé, priva di vanità e abbellimenti, Rembrandt non avrebbe saputo restituirci mirabili ritratti, come quello dell’amico e protettore Jan Six. L’acquaforte che lo ritrae immerso nella lettura, in una posa spontanea e totalmente incurante dell’osservatore, fa pensare a un’istantanea tant’è la sua modernità, mentre, la versione a olio, apparentemente più tradizionale, è un “non finito” estremamente vivido e naturale, che con le sue grosse e materiche pennellate sciolte ci dà un precocissimo assaggio di quella che sarà la tecnica impressionista del colore. Fonti bibliografiche:
Immagini tratte da:
Potrebbero interessarti anche: COMUNICATO STAMPA Dal 7 novembre 2020 al 9 maggio 2021, a Palazzo Blu di Pisa, la mostra “De Chirico e la Metafisica” racconterà l’opera del Pictor Optimus in un lungo viaggio attraverso immagini e parole, una navigazione fatta di partenze e ritorni lungo l’arco del Novecento lasciando tracce profonde ancora recepibili. La mostra permette di conoscere de Chirico grazie a una serie di chiavi di lettura che possono aprire il sipario sui suoi enigmi e permettere di percorrere il suo magnifico labirinto, oltre la scoperta della collezione personale dell’Artista ovvero i “de Chirico di de Chirico”, fulcro di questa mostra. Grazie al supporto delle più prestigiose istituzioni nazionali, come la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, la Pinacoteca di Brera, il Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto e non solo, e con la collaborazione della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, il progetto presenterà a Palazzo Blu una serie di assoluti capolavori, capaci di testimoniare l’evoluzione della ricerca di Giorgio de Chirico e di mostrare l’evoluzione della breve ma straordinaria stagione metafisica tramite i suoi esponenti più illustri.
di Ilaria Ceragioli
Li Hongbo nasce nel 1974 in Cina e attualmente è uno degli artisti viventi più originali e sorprendenti del panorama artistico mondiale.
Le opere di Li Hongbo godono oggi di una sempre più crescente e rilevante ammirazione da parte del pubblico e sono state esposte per la prima volta in Italia nel 2019 presso la Galleria Flora Bigai Arte Contemporanea a Pietrasanta in occasione della mostra A Tribute to the Classics, a lui dedicata. Nello stesso anno e fino a febbraio del 2020, Hongbo è stato anche uno dei maggiori rappresentanti del dialogo tra Occidente e Oriente, tema della mostra Il contemporaneo per l’archeologia: artisti cinesi al Mann, allestita per l’appunto all’interno del Museo archeologico nazionale di Napoli. Per comprendere l’abilità e la genialità di questo artista, però, non basterà una prima e superficiale contemplazione delle sue creazioni. Infatti, a primo impatto le sue opere potrebbero sembrare delle riproduzioni in marmo di statue classiche e rinascimentali o di elementi provenienti dalla natura (p. es. tronchi d’albero e sassi). L’espediente che permette di superare questo “inganno” visivo è quindi quello di avvicinarsi alle sue sculture, osservarle attentamente e attendere che esse, attraverso l’intervento dell’uomo, svelino il segreto della loro particolarità. Lo spettatore è così chiamato ad interagire con esse, deformandole. A quel punto, l’osservatore rimarrà profondamente e piacevolmente esterrefatto.
Li Hongbo realizza le sue sculture utilizzando migliaia di strati di carta (anche 26.000!); taglia e incolla ciascun segmento, poi li assembla e, successivamente, leviga il tutto in modo da ricavarne la forma che intende ottenere.
Questi strati di carta in base al loro spessore e alla loro duttilità permettono ai soggetti riprodotti di divenire flessibili e, dunque, di piegarsi curvandosi verso qualsiasi direzione vogliamo. Questo paziente e minuzioso lavoro consente così di giungere a una morbidezza e a un’animazione pressoché estranea alla scultura tradizionale, per sua natura rigida e statica. Ne è un chiaro esempio il Busto di David (2015), nonché una delle sculture più apprezzate dal pubblico.
Una scultura cartacea altrettanto suggestiva è anche Busto di Laocoonte (2015).
L’effetto di elasticità e di deformazione dei soggetti di carta è il tratto peculiare della ricercata e meticolosa attività scultorea di Li Hongbo e come già espresso, non caratterizza soltanto i corpi e i volti di celebri icone. Di fatto, questo risultato lo si osserva anche in Molo in legno, opera dall’esito fortemente realistico e nella serie di rocce e ciottoli di varie dimensioni e forme.
L’originalità e la maestria di Li Hongbo supera l’immaginazione e rende verosimile ciò che potrebbe sembrare impossibile da attuare attraverso un lavoro unicamente artigianale. Infatti, l’artista sfrutta il potere illusionistico delle sue creazioni senza servirsi di alcun strumento software di manipolazione dell’immagine, ma utilizzando con astuzia e destrezza le sue mani.
Attraverso la sua produzione artistica, Li Hongbo induce lo spettatore a interrogarsi sull’uomo; infatti, assistendo alla sua metamorfosi abbandoniamo l’idea di fissità normalmente associata alla forma umana. Ancora una volta l’arte contemporanea ci insegna che niente è ciò che sembra. A dimostrazione di questo, forte è il mio invito a lasciarvi ulteriormente stupire dall’arte di Li Hongbo anche attraverso la visione del video che segue. Di Marianna Carotenuto Decretata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, Ravello custodisce un posto incantato, sospeso tra mare e cielo, in cui storia, arte e natura si combinano creando un equilibrio perfetto. Parliamo di Villa Rufolo, un prestigioso edificio di età medievale, residenza dalla famiglia Rufolo che per oltre due secoli fu il simbolo della potenza economica e politica della città. Per esprimere la loro supremazia nella Ravello del XIII secolo, essi fecero costruire una maestosa villa caratterizzata dalla fusione di tipologie architettoniche e decorative arabe e bizantine con elementi della cultura locale. Ospite della villa fu Giovanni Boccaccio, che alla famiglia dedicò la famosa novella del Decameron con protagonista Landolfo Rufolo. Inoltre è probabile che “il palagio con bello e gran cortile nel mezzo e con logge e sale e con giardini meravigliosi” sia proprio quello della Villa. L’incantevole giardino, le splendide terrazze sul golfo donano alla villa un’aura magica e romantica nella quale il visitatore è immerso non appena varcata la sua soglia. ll giardino di Villa Rufolo, conosciuto anche come “ Giardino dell’Anima”, si sviluppa su due livelli. Le antiche mura incorniciate da cipressi e tigli, conducono fino al Chiostro Moresco e da lì, proseguendo su una piccola scala immersa nei fiori, si arriva al primo livello del giardino. Passeggiando lungo un bellissimo colonnato, si raggiunge la terrazza più celebre della villa, da cui è possibile godere di una vista mozzafiato. Grazie ai suoi magnifici giardini, all’architettura Moresca e alle vedute sbalorditive , Villa Rufolo é spesso paragonata alla famosa Alhambra spagnola. Inoltre c’è da dire che il chiostro della villa, insieme al panorama con le due cupole ed il pino sono i posti più fotografati della Villa: una vera e propria cartolina. La bellezza del giardino e la cura dei particolari si devono al Lord scozzese, Sir Francis Nevile Reid, che innamorato delle due Torri Moresche e delle ampie vedute, decise di acquistare la villa benché in rovina. Egli si occupò del restauro dell’edificio e risistemò le terrazze a giardino, realizzando un capolavoro,tanto che Wagner esclamò: “Il magico giardino di Klingsor è trovato”. Wagner aveva 67 anni quando visitò la villa e ne rimase così affascinato che decise di restare a Ravello abbastanza da poter comporre il secondo atto del’ Parsifal, un’opera su cui aveva lavorato da più di 10 anni. Il celebre compositore immaginò l’altissima torre medievale sprofondare nel nulla e diventare un giardino incantato, e poi le piante tropicali assumere le sembianze di splendide fanciulle, e infine il giardino stesso trasformarsi in un deserto nell’attimo in cui Parsifal uccide il negromante Klingsor. Ancora oggi lo spirito di Wagner continua a vivere in questo posto, tanto che Ravello è nota come “Città della musica” ed è il palco dell’omonimo Festival musicale in onore del compositore. Un iconico palcoscenico verso l’infinito, posto a circa 340 metri sul livello del mare, su uno strapiombo di ben 15 metri, è costruito con oltre 400 quintali di materiale completamente fuori dal parapetto dei giardini della Villa. La platea così, riesce ad accogliere circa 700 spettatori. Visitare Villa Rufolo è come fare un tuffo nel passato e ritrovarsi in un fantastico angolo di paradiso, dove le mura intrise di storia e di cultura conducono il visitatore ad un panorama mozzafiato sul golfo di Amalfi, una cornice meravigliosa per celebrare la bellezza.
Per scoprire altri dettagli e informazioni vai su https://villarufolo.com/ Foto dell’autore di Olga Caetani La possente mano destra che emerge dal blocco di marmo sottostante, sommariamente sbozzato dagli energici solchi della subbia, non lascia adito a dubbi circa la sua interpretazione. In dinamica torsione, rivela un inedito contenuto: il corpo nudo di una donna in primo piano, e quello retrostante di un uomo, in parte celato, perché ancora avvinghiato al capo di lei. Il Creatore sta raccogliendo il limo uterino dal quale Eva e Adamo si preparano alla vita. Rodin sembra ribaltare l'atto della creazione rispetto al testo biblico (Genesi 2, 20-23). Si direbbe che Adamo, così in prossimità del ventre di Eva, sia stato generato da lei stessa, o comunque da una sua costola. Questa sorta di riabilitazione o riscatto della figura della Donna alle origini può forse alludere a quel Rodin scultore pittorialista che ama troppo le donne, frequenti soggetti dei suoi marmi di piccole e medie dimensioni, traboccanti di eros. Il tema della creazione è comunque molto caro a Rodin, fin dal momento in cui per la prima volta rivolse gli occhi palpitanti alla Cappella Sistina, durante uno dei suoi giovanili viaggi italiani. Ponendo Michelangelo come suo maestro ideale, lo scultore si avvia, con l'opera in questione, verso la sempre più preponderante riflessione artistica sul ruolo plastico ed estetico del non finito, giungendo ad affermare che "quando Dio creò il mondo, è alla modellazione che deve aver pensato per prima cosa"1. La mano di Dio è in sostanza quella dello scultore, che crea il proprio universo e domina la materia. Costantemente vagheggiato nella carriera rodiniana è proprio il tema della mano, una parte del corpo ritenuta dall'artista fondamentale, capace di esprimere pienamente, anche isolata, i sentimenti e le passioni umane. Mani che si sfiorano appena l'una con l'altra, giunte, intrecciate sono le uniche protagoniste di opere tarde come Mani di amanti, risalente al 1904, o Il segreto, 1909, entrambe al Musée Rodin. L'idea e il soggetto de La creazione dovettero nascere molto prima, nel 1884, al tempo in cui lo scultore lavorava ai vari bozzetti dei Borghesi di Calais, monumento bronzeo situato nell'omonima città. La mano di Dio è infatti l'esatta trasposizione marmorea, in scala monumentale, della mano di uno dei Borghesi ritratti: Pierre de Wissant. Antitetico è il rapporto tra il blocco di marmo lasciato pressoché grezzo e la levigatura quasi specchiante della divina mano, un rapporto che si ripete analogo tra il limo e i serici corpi dei primi uomini. Tale virtuosismo tecnico va attribuito a Séraphin Soudbinine, amico di Rodin e scultore anch'egli, facente parte dei circa 150 sbozzatori e addetti alla messa ai punti impegnati nell'atelier del maestro, anche in seguito alla sua morte. Questo esemplare dell'opera fu iniziato nel 1916 e terminato un paio di anni dopo. La prima versione del soggetto fu acquistata nel 1906 da Albert Kahn, un collezionista statunitense. Ne esistono altri due esemplari, rispettivamente del 1906 e del 1916-17, conservati al Metropolitan Museum of Art di New York e alla Rhode Island School of Design di Providence. Entrambi sono attribuiti alla mano di Louis Mathet. Nota 1Affermazione trascritta nel 1908 da Judith Cladel, autrice della biografia Auguste Rodin. L'Oeuvre et l'homme, durante un'intervista rilasciata dallo scultore. Fonti bibliografiche Rodin. Il marmo, la vita, catalogo della mostra, a cura di A. Magnien, Milano, Electa, 2013 F. Fergonzi, Auguste Rodin, Roma, Gruppo Editoriale l'Espresso, 2005 D. Jarrassé, Rodin. Forma e movimento, Genova, Artemisia editore, 2002 Immagini tratte da: 1-4. Foto dell’autore 5. wikipedia.org Potrebbero interessarti anche: di Antonio Monticolo Una delle anfore a figure nere più famose è certamente quella che rappresenta Achille e Aiace intenti al gioco dei dadi o degli astragali. È opera del ceramografo Exekias e datata intorno al 530 a.C. I due sono rappresentati seduti di fronte e completamenti assorti nel gioco. Le lance di Aiace sono poste davanti al tavolino, mentre quelle di Achille cadono dietro conferendo profondità all’intera composizione. La scena offre allo spettatore una sensazione di caducità. Se da un lato l’attimo di riposo è sottolineato dagli scudi riposti alle loro spalle e dagli elmi (quello di Aiace è posto al di sopra dello scudo e quello di Achille è appoggiato sulla testa) dall’altro, proprio le armi e, in particolar modo le lance, sottolineano tutta la gravità della situazione. Sempre intorno al 530 a.C. si data un’altra anfora a figure nere di Exekias che rappresenta il suicidio di Aiace. Aiace ha perso la contesa con Odisseo per il possesso delle armi di Achille e colto da pazzia stermina un gregge di pecore scambiandole per nemici. Di fronte a tale infamia, Aiace decide di suicidarsi gettandosi sulla spada. Exekias rappresenta l’attimo prima del suicidio dell’eroe greco. La drammaticità della scena è data dalla solitudine dell’eroe ormai deciso a togliersi la vita. Aiace è inginocchiato, intento a posizionare la spada nel terreno. Alle sue spalle è raffigurata una palma, mentre le lance, lo scudo e l’elmo sono posti lontano perché ormai hanno perso la loro funzione. Immagini tratte da: - Immagine 1 - wikipedia: Exekias Pubblico dominio - Immagine 2 - wikipedia: Exekias CC BY-SA 3.0 di Olga Caetani Giovanni Francesco Barbieri, meglio noto con il soprannome di Guercino, a causa di uno strabismo all’occhio destro, trascorse a Roma un periodo brevissimo rispetto agli altri pittori provenienti dalla scuola bolognese dei Carracci, ma non per questo meno ricco di capolavori, capaci di lasciare il segno nello sviluppo del Barocco romano. Più giovane di tutti i suoi conterranei, fu senza dubbio il più moderno, in termini di stile e di scelte iconografiche. Ludovico Carracci lo presentava come “gran disegnatore, e felicissimo coloritore […] mostro di natura, e miracolo da far stupir chi vede le sue opere”, tanto che, ben presto, ottenne la protezione del cardinale Alessandro Ludovisi. Non appena costui ascese al soglio pontificio, con il nome di Gregorio XV, lo invitò a raggiungerlo a Roma. Nella Città Eterna, Guercino poté conoscere, oltre all’antico, l’opera di Michelangelo, Raffaello e Annibale Carracci, con l’esempio dei quali il suo stile dal tratto rapido e volutamente tremolante acquistò maggiore eloquenza e monumentalità. Ma, al contempo, Guercino fu immediatamente attratto dalle straordinarie novità introdotte da Caravaggio, riprendendone il tenebrismo e l’attenzione al dettaglio naturalistico. Del Merisi, Guercino ebbe modo di osservare da vicino un’opera che costituisce un unicum all’interno della vasta produzione del genio lombardo: l’olio su muro – Caravaggio infatti dipinse sempre su tela e mai ad affresco – per il soffitto del camerino alchemico del cardinale Francesco Maria Del Monte, al piano nobile del “casino” della sua villa suburbana presso Porta Pinciana, all’epoca aperta campagna. Giove, Nettuno e Plutone, personificazioni dell’aria, dell’acqua e della terra, nonché dei tre stati della materia, si stagliano, seminudi e possenti nel modellato, su un cielo temporalesco, con al centro la sfera luminosa dei segni zodiacali. La visione dei nudi virili dal sotto in su certamente eludeva ogni forma di decorum seicentesco, ma si trattava pur sempre di un ambiente privato, dedito alla pratica empirica dell’alchimia. Nel 1621, il “casino” di Del Monte fu acquistato dal cardinal nipote Ludovico Ludovisi, che affidò a Guercino la decorazione della sala contigua al camerino alchemico e di quella sottostante, situata al piano terreno. Qui, sul soffitto a volta illusionisticamente “sfondato”, oltre la finta architettura realizzata ad affresco da Agostino Tassi, Guercino dipinse il carro dell’Aurora, il cui “passaggio” è reso possibile dall’architrave parzialmente diruto che costituisce l’antro, rischiarato soltanto dal lume di una lucerna, ove si è appisolata la Notte, con un libro aperto sulle gambe e i due figli dormienti, allegoria del Sonno e della Morte. Altri simboli sinistri della donna sono la civetta e il pipistrello volteggiante nel cielo scuro. Nella lunetta opposta, invece, appare il Giorno, un giovane alato, portatore di luce, preceduto dal carro dell’Aurora, che campeggia al centro della volta, trainato da due possenti cavalli pezzati. La soluzione adottata da Guercino per la raffigurazione dell’Aurora, che segue i dettami dell’Iconologia di Cesare Ripa (1593), si discosta completamente da quella proposta da Guido Reni qualche anno prima nel soffitto del Casino dell’Aurora di Palazzo Pallavicini-Rospigliosi, allora proprietà di Scipione Borghese: una composizione maggiormente statica, che ricorda un fregio classico, certamente preziosa, raffinata ed elegante, ma forse priva di quella potenza suggestiva che Guercino è stato capace di infondere col calore della tempera. Una scala a chiocciola conduce dalla Sala dell’Aurora alla Sala della Fama, incarnata da una florida figura femminile che spicca il volo trionfante al suono della tromba, con al seguito l’Onore e la Virtù. Nel rosso cremisi e nel giallo-oro delle loro vesti sono ravvisabili i colori del simbolo araldico della famiglia Ludovisi, la cui fama, in seguito al pontificato di Gregorio XV, sarà consacrata in eterno. Guercino si muove verso una direzione molto più movimentata e complessa - in una parola “moderna” - anticipando alcune conquiste spaziale e compositive degli anni avvenire. Alle finte colonne tortili che reggono la trabeazione della Sala della Fama, infatti, dovette guardare anche Bernini, circa un decennio più tardi, per il Baldacchino di San Pietro, una delle opere fondanti lo stile barocco. Immagini tratte da:
Potrebbero interessarti anche: di Ilaria Ceragioli Nell’immaginario comune la parola “scarabocchio” ha da sempre avuto un’accezione piuttosto negativa in quanto normalmente utilizzata come sinonimo di “pasticcio”, di “sgorbio”. Colui che scardinò, o per meglio dire, superò questa concezione dispregiativa attribuita a questo “segnaccio” apparentemente privo di significato e di valore, fu indubbiamente il celeberrimo artista americano Cy Twombly. Nel 1951 Twombly realizza la sua prima mostra presso la Kootz Gallery di New York, mentre l’anno successivo compie il suo primo viaggio in Italia, paese in cui si stabilì in via definitiva qualche anno dopo (morirà infatti a Roma nel 2011, all’età di 83 anni). Qui, più precisamente a Roma, Gaeta e Napoli, acuisce il suo già forte interesse per la storia e per l’antichità. Ciò emerge, ad esempio, nella sua Leda and the Swan (Leda e il cigno) del 1962. Un energico ingarbugliarsi di linee e di segni di matita, pastello e colori a olio rende qui omaggio all’amore di Twombly per la classicità e per la mitologia. Infatti, il mito narra che Giove si tramutò in un cigno per unirsi a Leda, l’affascinante regina di Sparta. Nonostante le svariate e prepotenti sovrapposizioni dei tratti, nell’opera sono facilmente riconoscibili un fallo e dei cuori che, senza troppa esitazione, emergono da questo caos materico. Al 1970 risale invece Untitled, tela appartenente alla Collezione Menil e conservata presso la Cy Twombly Gallery di Houston. Si tratta di una composizione che rientra all’interno di una serie di opere che visivamente ricordano lo stesso effetto generato dalla scrittura in gesso su una lavagna. Su uno sfondo grigio scuro emergono così innumerevoli linee tendenzialmente circolari e di colore bianco. Twombly ci invita a rifiutare lo stereotipo estetico servendosi di un segno piuttosto goffo e “infantile” che riproduce, talvolta, una calligrafia calcata e modellata che trova la sua esistenza ed essenza nel gesto. Tale gesto non ha origine da un momento di tedio, ma nasce dall’esigenza di azione che, inevitabilmente, produce effetti sulla percezione visiva e mentale dello spettatore. Il gesto dà vita a pulsioni discontinue ed evoca un’idea libera dalla repressiva razionalità permettendoci così di godere pienamente della spontaneità dell’andamento indomabile di un tratto o di una pennellata, ormai privi di regole e di limiti. Più recente (2001) è Lepanto, un ciclo pittorico composto da 12 tele create dall’artista statunitense per la Biennale di Venezia e attualmente esposto al Museum Brandhorst di Monaco di Baviera. Si osservano composizioni cromatiche costituite da sfumature di giallo, rosso, turchese e azzurro che riescono a trasmettere il dramma generato dalla celebre Battaglia di Lepanto (1571), conflitto navale in cui la Lega Santa (coalizione di truppe spagnole, veneziane e papali) sconfisse l’imponente flotta ottomana segnando così la fine del dominio nel Mediterraneo (di seguito Lepanto III e Lepanto XII). L’eccellenza creativa e stilistica dell’attività artistica di Cy Twombly, racchiusa nella denominazione di “Simbolismo romantico”, è oggi maggiormente testimoniata dal valore economico attribuitole dal mercato mondiale: ad esempio, nel 2017 il dipinto Leda and the swan (soggetto mitologico che compare per almeno 6 volte nella sua produzione artistica) fu venduto dalla Christie’s, celebre casa d’aste di New York, per ben 52, 9 milioni di dollari.
Immagini tratte da: www.wikiart.org www.fxreflects.blogspot.com www.flickr.com it.wahooart.com www.wikiart.org di Ilaria Ceragioli Le mani sono da sempre un efficace ed immediato strumento di comunicazione, tanto che potremmo definirle dei veri e propri messaggeri che “toccano” l’anima e la sensibilità di chi le ammira e apprende dalla loro gestualità. Ne è fortemente consapevole lo scultore Lorenzo Quinn, classe 1966 e figlio del noto attore americano Anthony Quinn. Traendo ispirazione dall’autorevole attività scultorea dei celeberrimi Michelangelo, Bernini e Rodin, Lorenzo Quinn è infatti capace di creare gigantesche mani in grado di suggerire e diffondere dei messaggi molto chiari e profondi. Lui stesso dichiarò: Volevo scolpire la parte del corpo umano che viene considerata la più difficile ed impegnativa da un punto di vista tecnico. La mano ha molto potere, quella di amare, odiare, creare, distruggere. In merito a questa affermazione viene spontaneo citare la monumentale installazione presentata alla Biennale di Venezia nel 2011: This is not a Game, una gigantesca opera che galleggia sulle acque della laguna veneziana dall’intenso impatto sociale in cui si osserva un carro armato sovietico sorretto da un’enorme mano attorniato da soldati a grandezza naturale. Quinn intende scagliarsi contro qualsiasi azione bellica praticata dai più temibili e perversi potenti del pianeta quasi come se fosse un gioco innocuo. Alla Biennale di Venezia del 2017 presenta invece Support, installazione temporaneamente collocata davanti all’Hotel Ca’ Sagredo. Due possenti mani di 8 e 9 metri emergono dall’acqua e sorreggono idealmente l’hotel. L’invito di Lorenzo Quinn è, qui, quello di meditare sui cambiamenti climatici generati dal nocivo ed invasivo impatto dell’uomo sulla natura e sul territorio le cui conseguenze incidono, talvolta, sulla stessa fragilità e instabilità della città di Venezia. Infatti, oggigiorno l’eccessivo innalzamento del livello del mare rende particolarmente difficoltosa la conservazione di un patrimonio artistico e architettonico unico al mondo che, pertanto, rischia di scomparire per sempre. Due anni dopo (2019) e ancora in occasione della Biennale di Venezia, Lorenzo Quinn svela un altro suo capolavoro: Building Bridges. Sei paia di mani dalle imponenti dimensioni (alte 15 metri e larghe ben 20 metri!) si congiungono formando una sorta di ponte. In questo caso l’intento di Quinn è quello di ribadire l’importanza e la necessità di “costruire ponti”, nonché solidi e sinceri rapporti umani fondati su sei valori umani universali: l’amicizia, la saggezza, l’aiuto reciproco, la fede, la speranza e l’amore. Le mani diventano così mezzi che veicolano un messaggio di fratellanza e di collaborazione tra i popoli, un’esigenza essenziale in tempi particolarmente aspri e difficili. Dunque, lo scultore Lorenzo Quinn si serve del potere comunicativo dell’arte e delle “sue” mastodontiche mani per esprimere e divulgare ideali e valori troppo spesso trascurati o addirittura ignorati. Le sue meravigliose creazioni intendono incuriosire, affascinare e, soprattutto, sensibilizzare ciascun individuo su temi ambientali e civili invitandoci fortemente a lavorare per il benessere dell’umanità intera. Un’ imperdibile occasione per ammirare da vicino le “sue” mani si offre sino al 4 settembre di questo anno presso lo splendido Giardino di Boboli a Firenze dove è custodita Give, opera che verrà poi definitivamente collocata nel Parco Internazionale della Scultura Contemporanea di Pietrasanta (LU). L’installazione si compone di due enormi mani (quella di una donna e quella di un uomo) realizzate in resina e materiale riciclato che reggono un bellissimo ulivo, albero che immediatamente allude al concetto di pace e che Lorenzo Quinn utilizza qui per simboleggiare il senso del donare senza ricevere. In effetti, la natura ha sempre donato all’uomo, ma non ha mai preteso nulla in cambio.
Ancora una volta la sensibilità e la genialità dello scultore Lorenzo Quinn ci educano e ci conquistano. Immagini tratte da: www.italiaatavola.net www.lorenzoquinn.com www.lifegate.it www.artspecialday.com www.guidedtoursinvenice.com www.arte.it di Ilaria Ceragioli Tra il 1495 e il 1500 si data una delle raffigurazioni più celebri legate al mito di Cefalo e Procri: si tratta della Morte di Procri o Satiro in lutto su una ninfa di Piero di Cosimo, oggigiorno conservata presso la National Gallery di Londra. In primo piano si osservano i tre protagonisti: a sinistra un fauno, al centro una figura femminile (Procri?) e a destra un cane che partecipa emotivamente alla scena. Il fauno è inginocchiato accanto al corpo inerme della fanciulla e la osserva con contenuta, ma sentita compassione. Procri (?) è distesa su un manto erboso e ha gli occhi chiusi e la bocca serrata, dettagli che assieme alle ferite riportate sul suo braccio sinistro e alla gola, ci fanno prendere coscienza che non stia dormendo, bensì che sia priva di vita. Sullo sfondo si intravedono altri animali: tre segugi, degli aironi (uccelli che secondo il pensiero di Plinio il Vecchio piangevano di dolore come gli esseri umani) e un pellicano (simbolo di sacrificio). Più in lontananza si scorgono anche uno specchio d’acqua e delle lingue di terra di colore bluastro. Il soggetto dell’opera, però, è tuttora piuttosto controverso in quanto la soluzione adottata da Piero di Cosimo differisce notevolmente dalla tradizione iconografica precedente. Vari sono gli elementi in disaccordo con la versione del mito di Cefalo e Procri narrata nelle Metamorfosi di Ovidio. In primis, il tragico epilogo del racconto vede qui un cambio di protagonisti; la figura di Cefalo viene sostituita da quella del fauno (personaggio presente, ad esempio, nella Fabula de Cefalo di Niccolò da Correggio in cui la storia di Cefalo e Procri viene narrata sottoforma di dramma pastorale suddiviso in cinque atti, ma anche in questa variante è Cefalo che compiange la moglie morente e non il satiro!). Inoltre, la ferita di Procri (?) non è nel petto come riporta la fonte ovidiana, ma alla gola. Le testimonianze artistiche medievali attualmente note permettono di constatare che, in realtà, il ferimento di Procri alla gola compariva già in due illustrazioni, in una miniatura del XV secolo conservata presso la Bibliothèque Nationale di Parigi e in una xilografia acquerellata del 1473 posta all’interno di una traduzione tedesca del De mulieribus claris di Bocacccio. Manca però l’arma con il quale Cefalo ha ucciso accidentalmente la moglie, la lancia o la freccia e la scena non è ambientata in un bosco, ma sulla riva di un lago/mare. Inoltre, il cane (Lelape?) non dovrebbe partecipare al compianto della morte di Procri perché prima della tragica conclusione del mito, Ovidio narra che Lelape venne trasformato in pietra durante la caccia alla volpe Teumessia. Dunque, la manifestazione di elementi soltanto parzialmente congrui alle fonti letterarie di riferimento ha portato la critica a ipotizzare che l’opera di Piero di Cosimo potrebbe non raffigurare la morte di Procri, ma la morte di una generica ninfa. Pertanto, alla National Gallery di Londra il presente olio su tavola è attualmente accompagnato dal titolo Satiro in lutto su una ninfa. Ma a sostegno della sua interpretazione come Morte di Procri, Lavin ha ricordato il forte interesse di Piero di Cosimo per la pittura nordica sostenendo che il pittore possa aver ripreso la posa della fanciulla da una miniatura del 1460 custodita a Erlangen, raffigurante la morte di Procri. Data l’incertezza interpretativa dell’opera, però, sono stati condotti studi più approfonditi attraverso la tecnica riflettografica a infrarossi che ha così rivelato svariati ripensamenti dell’artista durante la fase di esecuzione della tavola. La differenza più significativa riguarda l’originaria presenza di una faretra accompagnata da una freccia accanto al capo della protagonista. È possibile così ipotizzare che Piero di Cosimo possa aver tratto ispirazione dall’opera di Niccolò da Correggio (testo in cui, contrariamente ad Ovidio, l’autore parla di dardo e non di giavellotto) e che abbia poi dato vita a un’originale rielaborazione dell’infausta conclusione del mito.
Dato il formato, probabilmente il presente pannello faceva parte della decorazione di un cassone nuziale: in effetti, la morale insita nella fabula di Cefalo e Procri che va a condannare l’infedeltà coniugale, ben si adattava a fungere da monito per novelli sposi. Tuttavia, la tavola oltre a destare ancor oggi notevoli difficoltà interpretative manca di documenti riguardanti l’originario proprietario che avrebbero sicuramente chiarito non solo l’identificazione del soggetto, ma anche la sua destinazione d’uso. Immagini tratte da: www.abellarte.com Wikipedia, pubblico dominio, voce: Morte di Procri Wikipedia, pubblico dominio, voce: Morte di Procri www.warburg.sas.ac.uk www.iconos.it www.iconos.it di Marianna Carotenuto Claude Monet trascorse l’estate del 1867 nella località turistica di Sainte-Adresse, una cittadina di mare sul Canale della Manica, dove la sua famiglia aveva una proprietà. Durante il suo soggiorno si dedicò alla realizzazione di un buon numero di quadri in cui l’artista volle trasmettere l'atmosfera spensierata e frizzante della Francia della Terza Repubblica.
Tra questi dipinti ritroviamo la “Terrazza a Sainte-Adresse”. Un’elegante terrazza sul mare in un tranquillo pomeriggio primaverile. Il sole oramai basso sull’orizzonte proietta lunghe ombre sulla pavimentazione grigia. Il vento muove le due bandiere poste alle estremità della terrazza, che simboleggiano la presenza della clientela francese e inglese particolarmente benestante che poteva godere di quel luogo di villeggiatura. Dalla terrazza i villeggianti possono ammirare l’azzurro canale della Manica, solcato dalle numerose imbarcazioni che si muovono tra le onde. Il movimento dell’acqua e dell’aria (percepibile anche dal fumo delle barche a motore), insieme alla luce risultano essere i veri soggetti della tela. Quanto ai villeggianti, tra il verde di un giardino rigoglioso in cui spiccano fiori gialli e rossi che sembrano quasi riproporre i colori della Normandia, luogo d’infanzia di Monet, troviamo quattro personaggi, vestiti elegantemente. Una donna e un uomo discorrono in privato, osservati da una coppia di anziani in primo piano, seduti sulle sedie predisposte per i frequentatori della terrazza. Tali soggetti sono gli stessi parenti di Monet: sullo sfondo vi sono Adolphe Monet e Jeanne Marguérite Lecadre, rispettivamente padre e zia dell'artista, mentre in primo piano troviamo Adolphe Lecadre e sua figlia. Questo dipinto è particolarmente interessante anche per la tecnica. L’artista produce effetti di grande luminosità cromatica, rendendo appieno l’impressione di un’assolata giornata primaverile. E’ in questo periodo che Monet comincia a sperimentare rari accostamenti cromatici (rosso e verde) nonché a superare l’influenza di Courbet, utilizzando macchie di colore puro insieme a una stesura vibrante, anche se non ancora completamente affidata a brevi tocchi di pennello. A tal proposito Monet ricorre a una tavolozza composta esclusivamente da colori puri e li dispone in modo tale che questi, interagendo tra di loro, possano esaltarsi o deprimersi a vicenda secondo le sue necessità. Così l’artista elimina completamente le variazioni tonali accostando colori scuri con colori nitidi, pur salvaguardando la luminosità del dipinto. Interessante, è anche il diverso approccio alle pennellate, quelle che tratteggiano il parasole della signora in primo piano sono uniformi e regolari; invece le pennellate che delineano l’abito della stessa signora, appaiono più segmentate, disunite, per via di un processo di frantumazione della materia pittorica che appare intensificato nell'abito della ragazza sullo sfondo e nel mare, dove le leggere increspature delle onde vengono create con rapidi tocchi virgolati, e infine nei fiori, per i quali Monet deposita il colore sulla tela con la punta del pennello attraverso puntini di piccolissime dimensioni. Pur essendoci differenziazione del trattamento cromatico, l'opera preserva un senso di stabilità e armonia grazie a una sapiente composizione geometrica, basti notare che trova la l'intreccio delle linee orizzontali della balaustra e verticali dell'asta delle bandiere. Infine c’è da ricordare che il quadro sembrerebbe risentire della forte influenza dell’arte giapponese su Monet e lo si può notare grazie ad alcuni dettagli che sono stati trovati tra le sue lettere con altri artisti: pare infatti che il pittore si riferisse a questo quadro dandogli il titolo “La pittura cinese in cui ci sono le bandiere”. Fonti e immagini: Wikipedia Il Termopolio vi racconta la visita guidata all'Area Archeologica dei Musei di Fiesole di Enrico Esposito Una pioggia fresca d’estate avvolge l’aria mentre ci avviciniamo. Fiesole ci aspetta lì, dall’alto della sua storia antichissima e camaleontica, ma intatta nelle plurali suggestioni che hanno indistintamente sedotto artisti, scrittori, nobiluomini. Giovanni Boccaccio, Poliziano, Arnold Böcklin, Edward Morgan Forster, Gabriele D’Annunzio, Giosuè Carducci celebrarono il fascino panoramico e ameno che ha da sempre accompagnato la piccola cittadina collinare, importantissimo snodo commerciale tra l’Etruria padana a Nord e l’Etruria centro - meridionale a Sud, avamposto strategico che scrutava dall’alto Firenze, il Mugello e la vicina area del Casentino. Gli Etruschi l’avevano fondata e affermata in età ellenistica (fine IV - inizio III sec. a.C.), innalzando una lunga cinta muraria (2500 metri) tra i colli di S. Francesco a Ovest e di S. Apollinare a Est. Alleata di Roma durante le Guerre Puniche, fu distrutta da Marco Porcio Catone e successivamente colonizzata dai veterani di Silla con il nome di Faesule. Dopo le invasioni barbariche, sopraggiunse una fase di dominazione longobarda che segnò la progressiva caduta di prestigio del centro culminante nell’assoggettamento e terribile distruzione ad opera dei fiorentini nel corso del XII secolo. Da allora prese inizio una nuova vita per Fiesole, che tuttavia non smise mai di brillare e all’inizio del secolo scorso con la fondazione del Museo archeologico vide tornare alla giusta ribalta le rovine di diversa derivazione e tipologia che oggi costituiscono la sua Area Archeologica. Un cuore pulsante tra passato e presente. L'entrata per l'Area Archeologica è situata in Via Portigiani, strada che si estende come un braccio teso a partire dal ventre della cittadina, Piazza Mino da Fiesole, sulla quale si affacciano il Comune, il Palazzo Vescovile, il Palazzo Pretorio, il Duomo, nonché i ristoranti e locali maggiori. I Musei di Fiesole sono raccolti in un complesso a pochi passi, che raccoglie sotto tale nomenclatura la suddetta, il Museo Civico Archeologico e il Museo Bandini. Storie ed epoche diverse vengono testimoniate dalle collezioni visitabili lungo le stanze dei musei, e interrogano l'interesse degli "spettatori" che rivolgono il loro sguardo alla magnifica visione del Parco Archeologico. Guidati dalla cortese attenzione dello staff, lasciamo da parte per un momento le ansie tecnologie e virali per conoscere i motivi che rendono il luogo ancora oggi fulcro dell'identità di Fiesole. Comincia un viaggio determinato da scoperte che vengono a luce di volta in volta sulle orme dei passi e delle parole della nostra guida. L'Area Archeologica non è solo romana, malgrado al suo centro campeggi il Teatro Romano, protagonista delle serate fiorentine di cultura e spettacolo con l'Estate Fiesolana. L'Area Archeologica di Fiesole è anche etrusca e longobarda, seppur in misura di gran lunga inferiore. L'Area Archeologica di Fiesole racchiude dentro di sé un millennio di vicende e tradizioni stratificate, libere di nascere, evolversi e terminare all'interno di un tappeto verde incontaminato. Il Teatro dicevamo. Posto al centro dell'Area, fu eretto tra il I secolo a. C. e il I secolo d.C. e rimase a lungo in uso, come testimoniano le modifiche e i restauri ricevuti. Tra il 1870 e il 1900 furono perfezionati gli scavi che portarono alla luce alcune componenti della sua struttura. In primis l'ampia cavea, che in un semicerchio racchiudeva le gradinate divise in quattro settori, mentre in posizione avanzata rispetto al palcoscenico (proscenium) sorgeva la galleria (crypta) riservata al pubblico più illustre e a cui si accedeva per mezzo di quattro vomitoria. Il proscenium era preceduto dal settore che ospitava l'orchestra, ed era delimitato dal pulpitum, un muro con nicchia centrale, le cui spalle erano "coperte" dal fondale del palco, la scaena frons, di cui oggi sono conservate le sole fondamenta e decorazioni marmoree ospitate all'interno del Museo Archeologico. Al netto dell'agire del tempo e della ferocia dell'uomo, i lavori di recupero hanno restituito al panorama artistico italiano e mondiale uno straordinario gioiello dal respiro imponente ed epico, che si presta senza contrasti a rappresentazioni sceniche, concerti acustici, lezioni di storia. In un silenzio invidiabile la visita procede in direzione della significativa ala "sacra" e poliedrica dell'Area. A sinistra del Teatro infatti si ergono le rovine del tempio romano rinvenute nel 1923, al di sotto del quale scavi ulteriori risalenti agli anni Cinquanta e Sessanta condussero alla scoperta di un precedente tempio etrusco. Come in una rappresentazione metaforica della conquista ai danni dei rivali, i Romani avevano concepito l'edificazione di un luogo sacro che sovrastasse il precedente, poggiandosi in realtà al di sopra delle sue stesse basi ed emulandone sostanzialmente la conformazione. Il tempio etrusco aveva visto la luce in età ellenistica (IV secolo a.C.) su un terreno che reca le tracce, principalmente relative al tetto e oggi collocate all'interno del Museo, di un suo predecessore attribuito a due secoli anteriori. Perfettamente riconoscibile oggi è l'alzato, ossia la struttura portante dell'edificio ellenistico, contraddistinto dalla caratteristica scalinata che l'aruspice percorreva per giungere ad un portico colonnato e alla stanza riservata a lui soltanto, dedicata al culto della divinità. Minerva secondo alcuni, in virtù del ritrovamento di un piccolo bronzetto (esposto nel Museo) di civetta, animale sacro alla figlia di Giove. Tuttavia si tratta appena di un'ipotesi. All'altare etrusco posto davanti alla grandinata i Romani ne avevano affiancato un altro antistante la gradinata più grande, alla pari di un secondo pronao che ospitava i fedeli. A pochi passi dei templi fanno la loro comparsa anche resti archeologici germanici, corrispondenti a una Necropoli longobardi. Agli inizi del secolo scorso furono scoperte tombe maschili e femminili arricchite da corredi funerari di vario materiale. Dopo esserci dedicato all'intrattenimento e alla preghiera, l'ultima tappa del viaggio all'interno dell'Area è indirizzata al relax e al benessere. Sul lato orientale le Terme romane emergono in tutta la loro ampiezza. I cittadini potevano accedere all'ingresso dei bagni termali mediante una scalinata oggi riconoscibile che arrivava a confluire all'interno di un porticato. Lì erano collocati i tre tipici ambienti, Frigidarium, Tepidarium e Calidarium. Di particolare interesse sono i resti appartenenti all'ultima stanza, dal momento che è possibile osservare il laconicum, vasca caldissima situata in prossimità dei forni che permettevano il riscaldamento dell'acqua, e il labrum, vasca da bagno in cui i clienti si immergevano al termine del loro trattamento. Il Libro Fiesolano, volume risalente al 1380 circa, parla di "bagno reale di Catilina" denotando la rilevanza di Fiesole come rilevante avamposto scelto dall'uomo politico romano nell'ambito del suo tentativo di rovesciamento della Repubblica. Le Terme hanno conosciuto ricostruzioni nel III secolo d. C e riproduzioni odierne nei loro elementi che permettono di cogliere in maniera più agevole la maestosità dell'opera architettonica e civile compiuta. L'Area archeologica era stata concepita come fondamentale punto di riferimento della vita pubblica, nelle sue molteplici ramificazioni, habitat prediletto a contatto con una natura mozzafiato e distante dal caos metropolitano. Scendere i gradini che aprono la porta a un catartico flash-back nel passato sortisce l'effetto, ancor più nella difficoltà del momento attuale, di desiderare di approfondire le eredità e i misteri custoditi. Per tale ragione vi invitiamo a visitare l'Area archeologica di Fiesole, aperta dalle ore 09 alle ore 18 (biglietto intero 7 euro, ridotto 5 euro) e in particolare a prendere parte agli itinerari gratuiti guidati che fino al termine di questa settimana focalizzeranno la loro attenzione su temi e narrazioni diverse. Lunedì 27 dalle ore 18:00 alle 21:00 ritornerà inoltre l'appuntamento con "La Notte dell'Archeologia", che alla visita degli spazi di Area e Museo alternerà la lettura di autori classici su L'uomo e gli Dei nel mondo etrusco e romano. Il primo report sulle bellezze archeologiche di Fiesole si conclude qui, ma sarà presto seguito da una seconda parte, incentrata sul Museo Civico. Per maggiori informazioni consultate il sito ufficiale dei Musei di Fiesole all'indirizzo: https://www.museidifiesole.it/index.php Immagini gentilmente fornite dallo staff dei Musei di Fiesole di Antonio Monticolo Il complesso della Villa Borbone delle Pianore a Capezzano (Camaiore, LU) è formato da edifici di diverse epoche: il corpo centrale costruito alla fine del XVIII secolo e la parte sud nel XIX secolo. Il corpo centrale, dove si trovano gli appartamenti al primo piano, è nota come villa Maria Teresa di Savoia che l’acquistò nel 1826 dalla famiglia Orsucci. Il corpo posto a Sud, invece, è la villa che il Duca Roberto di Borbone fece costruire nel 1888. È costituita da tre piani con un atrio di accesso ricco di marmi policromi. Al piano terra ci sono le stanze per gli ospiti, la biblioteca e sale di rappresentanza note come Sala Verde, perché tappezzata di damasco verde, e la Sala Bianca con stucchi dorati. Uno scalone permette l’accesso al primo piano con lo studio del Duca e le camere da letto dei principi. Al secondo piano invece, le camere dei bambini e una stanza per la servitù. Le pareti di questa villa erano abbellite da numerosissimi quadri, tra cui si annoverano anche diverse opere del pittore Canaletto. Con il passare del tempo, la villa era passata al Principe Felice di Borbone di Parma, che la dovette abbandonare durante la seconda guerra mondiale quando divenne fortino nazista. Nel 1944, quando le sorti della guerra erano mutate e i tedeschi lentamente iniziarono la ritirata, la villa venne derubata di tutti i suoi quadri. Questi furono portati al castello di Dornsberg nei pressi di Merano (BZ), residenza del general Wolff, capo delle SS in Italia, da dove poi sarebbero stati spediti in Germania. Diverse opere furono poi ritrovate dai Monuments Men e nel 1949 ritornarono nelle mani del legittimo proprietario, ma dei Canaletti ancora adesso non si ha più notizia. Attualmente la villa appartiene all’ordine religioso Cavanis. Immagini tratte da:
www.comune.camaiore.lu.it di Andrea Samueli Pronti per un nuovo tuffo nel passato? Siamo nel 146 d.C., sotto l'imperatore Antonino Pio. Oggi assisteremo ad uno degli eventi sportivi più amati al tempo dell'antica Roma: la corsa con i carri. È mattino presto e ci avviciniamo alla struttura dove si disputerà la corsa: nel nostro caso niente meno che il grande Circo Massimo, ai piedi del Palatino, a Roma. Ci sono già altre persone che entrano: hanno avuto la nostra stessa idea e vogliono accaparrarsi i posti migliori. La prima cosa che ci stupisce, oltre alla grande quantità di banchetti che stanno aprendo, ricchi di ogni tipo di merce e souvenir, è la mancanza di un biglietto: l'ingresso è gratuito. Appena all'interno però rimaniamo a bocca aperta dalle dimensioni del Circo: è lungo 600 metri e largo 140 metri. È stato calcolato che potesse ospitare oltre 200mila spettatori (per fare un paragone sportivo, il Camp Nou a Barcellona ne contiene poco più di 99mila). Al centro del percorso, di forma ovale, si trova un divisorio, chiamato spina, ornato con templi, statue e persino due obelischi presi direttamente dall'Egitto ![]() Prendiamo posto e proviamo a passare il tempo chiacchierando con i vicini: da sempre nella loro famiglia tifano per gli aurighi, i “piloti”, della squadra Azzurra. Ma quante squadre ci sono? In totale quattro, ognuna identificata con un colore: gli Azzurri, i Rossi , i Verdi e i Bianchi. Qui molti scommettono sui risultati della corsa, persino l'imperatore, che si gode lo spettacolo dalla sua tribuna riservata, detta pulvinar, posta al centro di uno dei lati lunghi. Si avvicina l'ora della partenza: gli aurighi portano le quadrighe, i carri trainati da quattro cavalli, alla linea di partenza, posizionata in corrispondenza di uno dei lati corti, dove vediamo una serie di sbarre abbassate. Ogni squadra può schierare fino a tre carri e la gara si considera conclusa solo dopo sette giri di pista in senso antiorario. Dal pulvinar viene fatto cadere un fazzoletto bianco (mappa), le sbarre si alzano con uno scatto e le quadrighe partono. Alla prima curva la folla esplode in un boato: uno dei carri dei Verdi si è rovesciato, spinto da un carro avversario. Un'irregolarità? No, chiudere la strada, spingere e danneggiare i carri avversari è concesso. È proprio in prossimità delle curve, rappresentate da due colonne (metae) alle estremità della spina, che avvengono gli incidenti più pericolosi, detti per l'appunto naufragia. L'auriga che abbiamo visto è stato sbalzato fuori dal carro e viene trascinato dai suoi cavalli: le redini infatti passano intorno alla vita del guidatore che, in caso di incidente, deve riuscire a tagliarle con il pugnale in dotazione. Indossa, per proteggersi, anche un corpetto in cuoio, un caschetto e delle protezioni per le gambe. Miracolosamente riesce a mettersi in salvo, stavolta ha avuto fortuna. La gara prosegue e arrivati alla fine del primo giro viene abbassato un delfino dorato (in totale sette, uno per ogni giro). Ai bordi della pista sono presenti anche dei giovani con dei contenitori ricolmi d'acqua: li rovesciano, un po' come gavettoni, in direzione delle ruote dei carri per evitare che si surriscaldino troppo. Il settimo delfino è stato abbassato, siamo ormai giunti alla fine: manca un solo giro, altri carri si sono rovesciati ed un auriga è persino morto, travolto da un avversario. La vita di questi atleti è infatti mediamente breve: pochi raggiungono la “pensione”, ma sappiamo che ci sono stati aurighi estremamente famosi che hanno messo da parte vere e proprie fortune. Qualche tifoso accanto a noi ci ha parlato di un certo Lamecus, eroe del Circo. Il suo vero nome è Gaius Appuleius Diocles e si è ritirato appena un anno fa, nel 145 d.C., dopo aver disputato oltre 4200 gare e averne vinte più di 1400. Ma che estrazione sociale hanno? La maggior parte sono schiavi, alcuni sono benestanti e, anche se molto raramente, è stato possibile vedere in pista anche personaggi estremamente noti, come l'imperatore Nerone. La vittoria stavolta è arrisa alla squadra dei Bianchi: la folla inneggia, l'auriga vincitore viene premiato con una corona d'alloro e una somma di denaro. Beh, direi che per oggi abbiamo visto abbastanza! La prossima volta invece proveremo ad assistere ai giochi gladiatori. Buon rientro! Immagini tratte da:
- modello Circo, da Wikipedia Francia, By Pascal Radigue - Own work, CC BY-SA 4.0, voce "Plan de Rome (Bigot)" - mosaico aurighi, da Wikimedia Commons, By Carole Raddato from FRANKFURT, Germany - Mosaic depicting a charioteer and horse from each of the four factions (Red, White, Blue, and Green), 3rd century AD, Palazzo Massimo all Terme, Rome, CC BY-SA 2.0 - dipinto, da Wikipedia Francia, Par Poniol — Travail personnel, CC BY-SA 3.0, voce "Circus Maximus" - disegno, da romanoimpero.com, voce "Circo Massimo" Comunicato stampa Il nuovo progetto del Lu.C.C.A., in collaborazione con Lucca Info&Guide, per coinvolgere il pubblico degli adolescenti Il museo ha bisogno di cambiare linguaggio e di avvicinarsi sempre di più al pubblico dei giovani. In quest'ottica, il Lu.C.C.A. - Lucca Center of Contemporary Art lancia “Teen4Teens”, un nuovo progetto realizzato in collaborazione con l'associazione Lucca Info&Guide che vede gli adolescenti protagonisti. “La museologia sta cambiando a livello mondiale – spiega il direttore del Lu.C.C.A. Maurizio Vanni –. Probabilmente il Covid-19 ha velocizzato un meccanismo che aveva già iniziato un'evoluzione e che vede il museo sempre più inclusivo e presente nella vita delle persone. Pensare a chi è in difficoltà o in stato di fragilità, alla terza età, ai bambini e alle famiglie con offerte personalizzate legate a laboratori e visite guidate speciali è un dovere. Non bisogna dimenticare, in particolare, anche gli adolescenti che vivono un'età di naturale ribellione. Per loro abbiamo pensato a 'Teen4Teens': chi meglio di un loro coetaneo conosce il linguaggio, i pensieri, gli stati d'animo, le problematicità di quell'età?”. Sono stati selezionati quattro giovani – Alice Cambria, Federico Cetrulo, Beatrice Giampaoli, Iacopo Muchetti – che saranno formati per diventare “narratori museali”: dopo il primo periodo di training, i ragazzi saranno chiamati a ideare delle visite guidate di taglio interdisciplinare che per due volte al mese proporranno gratuitamente ai loro coetanei. Il corso preparatorio sarà condotto da Maurizio Vanni, docente di Museologia e Marketing museale, e li vedrà impegnati in un modulo di 25 ore su “Public speaking: l'importanza della comunicazione non verbale”, “Storytelling: la narrazione diventa condivisa”, “Dall'idea al progetto: come trasformare un pensiero in azione”, “Workshop: la visita guidata interdisciplinare”. “Ripartire dal futuro? Si può – conclude Vanni –, cercando di trasformare il museo in un punto di riferimento trasversale. La responsabilità sociale del museo impone un'attenzione a tutti i segmenti del pubblico generico: per realizzarla è indispensabile proporre offerte su misura”. COMUNICATO STAMPA Sui lungarni pisani, una tra le maggiori esposizioni al mondo dedicate alla navigazione antica Museo delle Navi di Pisa, riapertura in tutta sicurezza La proposta: sale degli Arsenali come aule scolastiche a settembre È tra i primi musei in Italia a offrire i propri spazi per la ripresa della didattica post-Covid Tutte le novità della ripartenza: nuovi orari, campi solari per bambini e concerti serali estivi Pisa, 18 giugno 2020 – Un museo “a prova di contagio” su oltre 5000 metri quadrati che racchiudono una tra le più vaste esposizioni dedicate alla navigazione antica al mondo, con più di 800 reperti, 47 sezioni, 8 aree tematiche e 7 imbarcazioni di epoca romana. A un anno esatto dalla sua inaugurazione e dopo la chiusura imposta dall’emergenza sanitaria, venerdì 19 giugno riapre al pubblico il Museo delle Navi Antiche di Pisa con nuovi orari, tante attività in programma e una proposta originale: il museo è, infatti, tra i primi in Italia a mettere a disposizione le proprie sale per le attività didattiche in occasione della riapertura delle scuole, in programma a settembre. Inoltre, gli ampi spazi degli Arsenali Medicei sui lungarni pisani ospiteranno i campi solari estivi per bambini dai 6 agli 11 anni, in collaborazione con il Comune di Pisa. Tra le novità, anche il programma di concerti serali a cura dell’Orchestra Giovanile Toscana. Il museo è gestito dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Provincie di Pisa e Livorno, diretta da Andrea Muzzi, che ne ha affidato la gestione a Cooperativa Archeologia. La cooperativa negli ultimi anni ha seguito gran parte dello scavo archeologico e ha collaborato al restauro delle navi e dei reperti, sotto la direzione scientifica di Andrea Camilli, direttore del museo e responsabile del progetto (l’area espositiva si trova in Lungarno Simonelli 16; orari di apertura al pubblico: venerdì dalle 15.30 alle 20.30; sabato e domenica dalle 10.30 alle 20.30. Informazioni su www.navidipisa.it o al numero 050 8057880). RIPARTENZA IN SICUREZZA Prenotazioni telefoniche e via WhatsApp per non creare file; percorsi rimodulati e marcatori a terra per il distanziamento sociale; accessi contingentati ad un massimo di 100 visitatori e previa misurazione della temperatura corporea; prolungamento degli orari di apertura fino a sera; aumento del numero delle visite guidate: sono solo alcune delle strategie messe in campo per garantire l’adeguamento ai protocolli di sicurezza, ministeriali e regionali, previsti per gli istituti e i luoghi della cultura in materia di prevenzione del contagio da Covid-19. “Le grandi e nobili navate degli Arsenali Medicei – sostiene il soprintendente Andrea Muzzi – oltre ad essere il luogo più affascinante per narrare oggi il legame fra marineria e Pisa, saranno in questo momento la prova di come un allestimento museale possa diventare, grazie alla sua particolarissima impostazione, un laboratorio della ripresa e del rilancio in tutta sicurezza per le persone e gli oggetti esposti: un modello di godibilità che si era già affermato in modo lusinghiero nei primi sei mesi di apertura. Abbiamo lavorato per riconsegnare a tutti i visitatori un punto di riferimento per una visita completa di Pisa”. “La riapertura del Museo – dichiara il direttore Andrea Camilli – è stata una delle nostre priorità, ma non è stata una delle principali attività alla quale ci siamo dedicati durante la crisi sanitaria. La Soprintendenza ha infatti acquisito parte del complesso di San Vito, adiacente al museo: oltre alla progettazione della riapertura, alle necessarie manutenzioni, al perfezionamento e alla integrazione della esposizione, un folto numero di professionisti, interni ed esterni alla Amministrazione, ha quindi lavorato alla progettazione dei restauri degli edifici e del parco e alla progettazione del trasferimento nella palazzina retrostante gli arsenali del Centro di restauro del legno bagnato, ancora ospitato in modo provvisorio presso i capannoni a San Rossore, che nei nostri progetti aggiungerà a breve un altro polo di alta formazione alla città. Ma la riapertura del museo è il motore che dà forza ed energia a tutto il sistema: ci auguriamo che, oltre alla ripresa del turismo, gli stessi cittadini di Pisa, che già hanno tanto sostenuto ed apprezzato i risultati dei nostri sforzi, sostengano il loro museo visitandolo e pubblicizzandolo”. LA PROPOSTA PER LE SCUOLE Spazio ai bambini e alle scuole: solo nei primi mesi del 2020 erano più di 220 le classi, dalla materna alle superiori, che avevano in programma appuntamenti al museo, tra gli oltre trenta laboratori e percorsi didattici proposti, annullati a causa della sospensione delle attività scolastiche per la pandemia. In quest’ottica, nei mesi estivi e in previsione della riapertura delle scuole di settembre, con le numerose incertezze legate all’organizzazione della didattica per il contenimento del contagio da coronavirus, il museo offre una valida e originale alternativa alla tradizionale aula ed è tra le prime istituzioni museali in Italia a proporre l’utilizzo delle proprie sale e del cortile esterno come spazi per la didattica e per campi solari, iniziativa, quest’ultima, realizzata in collaborazione con il Comune di Pisa. “L’idea è ospitare già da questa estate negli spazi del museo alcune delle attività dei centri estivi – dichiara Sandra Munno, assessore alle Politiche socioeducative del Comune di Pisa – . Come si può capire gli Arsenali medicei sono spazi adatti, accessibili e fruibili per accogliere attività didattiche con bambini e ragazzi che, in questo momento particolare, hanno tanto bisogno di tornare a incontrarsi e socializzare. Ci saranno senz’altro momenti di lettura e altre attività e la presenza al museo dovrà essere un’esperienza sperimentale per reinventare anche nuovi percorsi educativi. Come Amministrazione, infatti, vogliamo che i centri estivi da quest’anno non abbiano soltanto una finalità ricreativa e ludica ma anche educativa anche per riavvicinare i ragazzi alla scuola che, mi auguro, possa riprendere a settembre”. “In accordo con le osservazioni del Consiglio superiore beni culturali e paesaggistici – aggiungono gli operatori di Cooperativa Archeologia – , riteniamo indispensabile rafforzare il rapporto tra il museo e le giovani generazioni, soprattutto per far capire ai cittadini di domani l’importanza del museo come istituzione civile, come luogo di formazione collettiva, come straordinario spazio pubblico. Rendere un museo uno spazio vivo, in cui si può passare del tempo a imparare divertendosi, può inoltre creare i presupposti per l’esercizio del diritto all’eredità culturale e per la promozione della protezione di questa eredità, come previsto dalla Convenzione di Faro. Il Museo delle Navi sarà un luogo adatto per accogliere i piccoli visitatori, futuri cittadini di domani, con un’esperienza educativa a 360°e in totale sicurezza, dal momento che la maggior parte delle attività potranno svolgersi all’aperto, negli spazi del portico adiacente alle sale I-IV oppure nel cortile”. TURISMO POST-COVID E DATI DEI FLUSSI AL MUSEO Sarà una ripartenza sperimentale: i prossimi mesi saranno infatti l’occasione per monitorare e ripensare flussi e spazi nel post-Covid, fuori dagli asset turistici di massa. L’obiettivo è quello di privilegiare un rapporto più autentico tra museo e visitatore, improntato ad un maggiore coinvolgimento, a percorsi più lenti e approfonditi, favorendo il rapporto diretto con i reperti, grazie ad un allestimento che riduce al minimo l’interposizione di barriere tra il visitatore, le navi e i reperti, e grazie alla ricollocazione degli stessi reperti in ambientazioni in scala 1:1. Fattori che, oltre alla ricchezza della collezione, rappresentano i punti di forza dell’esposizione pisana. È per questi motivi che, durante i mesi di lockdown, il museo ha deciso di non attivare tour online, applicazioni web e visite virtuali, ma di pubblicare sui propri social contenuti di approfondimento sull’esposizione e giochi a quiz e di enigmistica per coinvolgere il pubblico da casa. Questa strategia nasce dal credere nel reale più che nel virtuale e nell’emozione che la vicinanza ai documenti della storia e la passione del personale specializzato riesce a stimolare. Aspetti che nei soli primi sei mesi, nonostante l’orario di apertura ridotto, hanno permesso di registrare più di 21.000 visitatori, con medie che oltrepassano i 400 accessi durante i weekend; oltre 2.500 tra studenti, insegnanti e under-18; più di 1.600 residenti a Pisa e 1.400 stranieri di cui quasi la metà provenienti da Francia, Germania, Spagna e Olanda, un quinto dal Regno Unito e un quinto da Stati Uniti, Russia e Australia. “A distanza di un anno dalla sua inaugurazione, in seguito alla chiusura forzata, dovuta all’emergenza sanitaria – osserva Paolo Pesciatini, assessore al turismo Comune di Pisa – l’annuncio della riapertura del Museo delle Antiche navi di Pisa è come un nuovo inizio per questa meraviglia della città che è in grado di rispettare tutte le norme di sicurezza. Una riapertura che era particolarmente attesa dai pisani. Posso testimoniare che sono stati numerosi i cittadini, gli operatori turistici e commerciali che mi hanno chiesto informazioni sulla sua riapertura. Questo rappresenta la piena consapevolezza della sua capacità attrattiva sia sotto il profilo culturale che turistico, nonché la cura e l’amore che tutti noi abbiamo con questa realtà: un museo vivo che abbiamo visto nascere e, in poco tempo affermarsi, e che sa esprimere pienamente il forte legame della città con le sue acque”. “Ribadisco che il valore di questo museo – chiude Pesciatini – è dato anche dal fatto che qui si incrociano le rotte del nostro passato, del presente e del nostro futuro se consideriamo quanto i saperi umanistici e l’avanguardia delle tecnologie trovino in questo luogo una perfetta sintesi al servizio della conoscenza e della interdisciplinarietà”. INFORMAZIONI UTILI E ATTIVITÀ IN PROGRAMMA
Riapertura e dispostivi di sicurezza: Il museo riaprirà in assoluta sicurezza. Gli spazi saranno regolarmente sanificati, provvisti di dispositivi di sicurezza come dispenser di gel igienizzante e termometri per il rilevamento della temperatura corporea all’ingresso. Gli accessi saranno contingentati ad un massimo di 100 visitatori, con obbligo di utilizzo della mascherina. Il percorso espositivo è stato rimodulato e segnalato con marcatori a terra, per il rispetto del distanziamento sociale, garantito anche durante le visite guidate che saranno concentrate nelle sale più grandi. Orari, prenotazioni e biglietti: Gli orari di apertura sono stati prolungati dal venerdì dalle 15.30 alle 20.30; sabato e domenica dalle 10.30 alle 20.30, mentre, per limitare la coda in biglietteria, è prevista la possibilità di pianificare gli accessi attraverso la vendita online (www.navidipisa.it). Sarà possibile acquistare un numero massimo di biglietti per fascia oraria (30 persone ogni 2 ore). Sarà inoltre possibile l’acquisto dei biglietti anche in loco, senza che venga meno il rispetto del numero massimo di ingressi contingentati previsti. Si prevede inoltre un servizio di prenotazione telefonica dell’ingresso, facoltativa, attraverso il numero del museo 050 8057880, o via WhatsApp, per garantire l’accesso nel caso si dovessero verificare flussi particolarmente importanti. Visite guidate: Tra le attività di punta del museo, che si sono fortemente volute mantenere, ci saranno le visite guidate, condotte da archeologi, rivolte ad un massimo di 10 persone, in modo da garantire il rispetto del distanziamento sociale previsto. Avranno, inoltre, la durata massima di un’ora e saranno programmate a orari fissi (venerdì alle 17 e alle 19, sabato e domenica alle 11, alle 17 e alle 19). La prenotazione è obbligatoria e potrà essere effettuata al numero residente del museo 050 8057880, sia telefonando nei giorni di apertura, sia inviando un messaggio WhatsApp negli altri giorni. Le visite per gruppi con guida propria verranno consentite solo su prenotazione e con il rispetto delle modalità previste per le visite interne. L’itinerario toccherà la parte centrale dell’esposizione con la seguente articolazione: -Cortile Esterno: accoglienza, storia degli Arsenali Medicei di Pisa; -Sala III: cenni sulla geografia antica della piana pisana, le alluvioni, lo scheletro del marinaio; -Sala IV: storia degli scavi di Pisa S. Rossore, tecniche di costruzione navale; -Sala V: le navi e la navigazione dal mare aperto al fiume; -Sala VI: le rotte commerciali e il carico delle navi; -Sala VII: le ancore, gli strumenti di bordo, le antiche tecniche di navigazione. Campi solari: Il Museo delle Navi Antiche di Pisa offre i propri spazi per accogliere campi solari per i bambini delle scuole primarie, dai 6 agli 11 anni, in collaborazione con il Comune di Pisa, dal lunedì al venerdì dalle 8 alle 13. L’offerta educativa del campus sarà organizzata in macro-temi, potrà essere differenziata per fasce d’età ed è pensata per avvicinare i più piccoli alla dimensione della scoperta, dell'ascolto e dell'osservazione, oltre a soddisfare le esigenze storico-pedagogiche degli argomenti trattati. Guidati da operatori archeologi, i bambini e i ragazzi impareranno a confrontarsi con il contesto delle Navi Antiche di Pisa attraverso un dialogo aperto e un'esperienza unica, stimolante e coinvolgente. La ricca e complessa pluralità dell’esposizione, che attraverso le sue sezioni tematiche offre numerosi spunti di approfondimento, consente di offrire una vasta gamma di proposte, da quelle generiche a quelle più specifiche e contestualizzate. Grande spazio verrà dato ai laboratori manuali e creativi, che permetteranno di mettere in pratica le conoscenze acquisite, rendendo i bambini protagonisti del proprio apprendimento grazie all’unione sinergica fra teoria, pratica e manualità. Concerti serali dell’Orchestra Giovanile della Toscana: In collaborazione con l’Orchestra Giovanile Toscana, è stato definito un programma di concerti serali (ingresso su prenotazione e a pagamento). Martedì 30 giugno, giovedì 2 luglio, martedì 14 luglio, giovedì 16 luglio, martedì 30 agosto e giovedì 1° settembre, nel cortile interno degli Arsenali risuoneranno Serenate per archi su musiche di Mozart, Elgar e Tchaikovsky. Si tratterà di vere e proprie serate evento, in cui prima del concerto ci sarà la possibilità di visitare il museo e successivamente di assistere all’esecuzione dei brani in programma. Ufficio Stampa per Cooperativa Archeologia – Ps Comunicazione info@pscomunicazione.it Ingresso libero per tutto il mese di giugno. Museo aperto dalle 10 alle 20 per San Ranieri
Ripartiamo. Sabato 13 giugno alle ore 10 Palazzo Blu a Pisa riapre al pubblico la sua esposizione permanente, con il ritratto di Artemisia Gentileschi ad opera di Simon Vouet allestito nella sala dedicata ai Lomi – Gentileschi e la mostra fotografica “Pisa Anni ’60, il boom e il rock”. L’ingresso è gratuito per tutto il mese di giugno, grazie all’intervento di Fondazione Pisa. Aspettiamo i visitatori che accogliamo con il consueto atteggiamento “visitor friendly”, offrendo, nel rispetto di tutte le misure di sicurezza richieste nelle circostanze, una visita piacevole e stimolante. Il Palazzo sarà sempre aperto, dal martedì alla domenica, con orario 10 – 19 nei giorni feriali e 10 – 20 il sabato, la domenica e nei festivi compreso mercoledì 17 giugno, festa del patrono San Ranieri. L’incertezza ancora grande del momento rende difficile prevedere la durata e l’entità delle misure sanitarie e delle loro conseguenze, anche economiche, che condizioneranno pesantemente nel prossimo futuro, le attività culturali e di tempo libero, così importanti per il turismo, il settore certamente più colpito dalla crisi Covid- 19. Se vogliamo però ripartire e recuperare nel tempo le posizioni perdute, pur nella situazione d’incertezza appena accennata, occorrerà con cautela e razionalità, ritrovare la voglia di entrare in un museo. A tal riguardo Palazzo Blu, che ha rappresentato negli ultimi anni un nuovo motivo per visitare la nostra città e vuol continuare ad esserlo, conta di riprendere, nei modi e nei tempi che saranno possibili, i programmi di esposizioni temporanee, invernali e primaverili, alle quali ha continuato a lavorare durante le ultime settimane. Nei tre mesi di chiusura, l’impegno è stato rivolto a mantenere vivo il rapporto con il pubblico. Con la collaborazione di Kinzica e dello staff interno, sono stati realizzati e pubblicati sul sito di Palazzo Blu e sui social tanti contenuti digitali. Dalla visita virtuale del palazzo e dei suoi tesori ad oltre 40 brevi approfondimenti sulle mostre degli anni passati e le opere principali del Museo, senza dimenticare 9 laboratori virtuali per i più piccoli. Il filo, bruscamente interrotto degli incontri e concerti dell’auditorium, è stato riannodato con le lezioni-concerto di Francesco Martinelli di Pisa Jazz la domenica mattina, il piano classico del pomeriggio con Giuseppe Bruno e Sandro Bartoli e la video conferenza con Arnaldo Testi per la rassegna “Confini e frontiere”. L’eccellente risultato di pubblico raggiunto da queste iniziative, con il numero dei visitatori del sito più che triplicato e le numerose interazioni social, induce Palazzo Blu a continuare su questa strada, in maniera più organica, anche adesso che siamo in una nuova fase. di Ilaria Ceragioli Il 30 ottobre del 1741 nacque a Coira, in Svizzera, la straordinaria Angelika Kauffmann. Angelika Kauffmann fu una pittrice svizzera nota soprattutto per le sue eccellenti doti nella ritrattistica. Fu il padre Joseph Johann Kauffmann, anch’egli pittore, a trasmetterle la vocazione per l’arte, in particolar modo per il disegno. Nel 1766 la pittrice giunse a Londra dove ebbe modo di fare la conoscenza di Joshua Reynolds, illustre pittore inglese, tra i fondatori della Royal Academy of Arts. Grazie a Reynolds, la Kauffmann dipinse anche tele a soggetto storico. Ma fondamentale per la sua formazione e attività artistica fu il suo secondo viaggio in Italia (il primo era avvenuto nel 1754), paese in cui avverrà anche la sua morte, sopraggiunta il 5 novembre del 1807 all’età di sessantasei anni. Qui, ebbe modo di studiare dal vivo i capolavori di Correggio, di Guido Reni, dei fratelli Carracci e di Guercino. Soggiornò a Firenze, Roma e Napoli, dove la regina Maria Carolina d’Asburgo-Lorena la invita a diventare pittrice di corte, ma la Kauffmann declinò la proposta. Nella città eterna, invece, la pittrice ebbe modo di conoscere autorevoli artisti italiani, tra cui l’incisore e architetto Giambattista Piranesi e Pompeo Girolamo Batoni, figlio di un orafo di Lucca. A Roma, Angelika Kauffmann strinse una forte amicizia con Johann Wolfgang von Goethe, tant’è che la pittrice cadde in depressione quando il celebre scrittore e poeta tedesco lasciò la città. Tra i primi dipinti dell’artista si colloca l’Autoritratto con stilo realizzato intorno al 1768, oggi appartenente a una collezione privata. Angelika Kauffmann si presenta allo spettatore con i capelli raccolti e con un pennino e un libricino nella mano destra. Ragguardevole risulta la cura dell’artista nella resa attenta e minuziosa dei dettagli. Nel 1781 realizzò un bellissimo ritratto del pittore veneziano Antonio Zucchi, suo secondo marito di una quindicina di anni più grande. La brillante dote ritrattistica della pittrice emerge nella capacità di esprime la naturalezza della gestualità del marito, improvvisamente voltatosi a guardarla forse perché interrotto dalla moglie. A un paio di anni dopo (1782-1783), risale invece uno dei suoi più celebri capolavori: il Ritratto della famiglia di Ferdinando IV, attualmente conservato presso il Museo di Capodimonte di Napoli. Qui, la pittrice immortala i reali di Napoli, Ferdinando IV di Borbone e la già citata Maria Carolina, assieme ad alcuni dei loro figli. A sinistra sono raffigurati Maria Teresa che sorregge un’arpa e Francesco intento ad accarezzare un segugio. Vicino alla regina si osserva Maria Cristina, mentre a destra siede su una culla da passeggio Maria Luisa con in braccio Maria Amalia. Ai piedi della sorella, invece, compare Gennaro Giuseppe. Il dipinto fu particolarmente apprezzato da Ippolito Pindemonte. Infine, di grande raffinatezza e delicatezza è Ritratto di Domenica Volpato (figlia dell’incisore Giovanni Volpato), un olio su tela eseguito dalla Kauffmann intorno al 1791 e conservato oggigiorno presso il Museo Francesco Borgogna di Vercelli. L’opera ritrae l’amica della pittrice che viene qui raffigurata in abiti molto semplici. Balza però all’occhio l’elegantissimo fisciù ornato da perle dal quale emergono splendidi riccioli che incorniciano il volto della donna.
La produzione artistica di Angelika Kauffmann affascinò molteplici sovrani, letterati e artisti del suo tempo, tra i quali si ricordano Anton Raphael Mengs e Antonio Canova. Pertanto, il suo atelier in Via Sistina 72 a Roma divenne ben presto uno dei salotti culturali più stimati e frequentati della città. A conclusione dell’articolo riporto le brevi, ma emblematiche parole dedicatale affettuosamente dal celeberrimo Goethe: Guardar quadri con lei è assai piacevole; tanto educato è il suo occhio ed estese le sue cognizioni di tecnica pittorica. Immagini tratte da: www.swissinfo.ch Wikipedia, pubblico dominio, voce: Angelica Kaffmann www.culturaitalia.it Wikipedia, pubblico dominio, voce: Angelica Kaffmann
di Andrea Samueli
La prima guerra punica fu una lunga guerra combattuta tra il 264 e il 241 a.C. che vide scontrarsi Roma e Cartagine.
Il pretesto per lo scoppio del conflitto va ricercato in Sicilia, dove i Mamertini (i figli di Marte), mercenari campani al soldo del tiranno Agatocle di Siracusa, alla morte di questi nel 288 a.C., occuparono la città di Messana, odierna Messina. Le loro incursioni giunsero ad intaccare gli interessi del nuovo tiranno di Siracusa, Gerone II, il quale li vinse in una serie di scontri. I Mamertini, nel 265 a.C., chiesero quindi aiuto dapprima a Cartagine, poi anche a Roma, promettendo ad entrambi il controllo della città. A Roma il Senato fu inizialmente incerto se intervenire o meno per un precedente accordo che lasciava campo libero in Sicilia ai Cartaginesi. Venne però convinto della necessità di impedire ai Punici di occupare l’intera isola ed espandersi troppo.
Così nel 264 a.C. una spedizione romana giunse in Sicilia, prese il controllo della città di Messana, cacciando la guarnigione senza neppure combattere, e sconfisse Punici e Siracusani, alleati per l’occasione.
L’esercito romano fu quindi indirizzato verso Siracusa: Gerone II, vedendo la situazione volgere al peggio, cambiò fazione stringendo patti di alleanza con i Romani. Nel frattempo Cartagine aveva rafforzato le proprie truppe reclutando nuovi mercenari e preparandosi allo scontro. Con Siracusa come alleata, nel 262 a.C. Roma impegnò le sue legioni nell’assedio di Agrigento, città fortificata Cartaginese, che capitolò dopo sette mesi di assedio. La superiorità romana nelle battaglie terrestri era indiscussa, ma Cartagine poteva contare su una potente flotta, in grado di portare rifornimenti e rinforzi alle città siceliote e di isolare le truppe romane.
Per questo motivo nel 261 a.C. Roma decretò la costruzione di una flotta composta da triremi e quinqueremi su modello di quelle catturate al nemico, dotate però di una novità: i corvi. Questi altro non erano che ponti mobili con un gancio metallico all’estremità. Grazie a questa innovazione i soldati romani potevano applicare le tecniche del combattimento a terra in campo marino, abbordando le navi avversarie. La battaglia navale combattuta a Mylae (Milazzo) nel 260 a.C. volse a favore della flotta romana. Roma puntò allora a condurre una duplice campagna: continuò le operazioni in Sicilia ma si preparò anche a portare la guerra direttamente in Africa. Nel 256 a.C. avvenne una delle più grandi battaglie navali dell’epoca antica: 360 navi romane contro 350 navi cartaginesi, nelle acque antistanti Capo Ecnomo. Nonostante le prime fasi dello scontro favorevoli ai Punici, la battaglia vide la vittoria romana e la possibilità per quest’ultimi di far sbarcare le proprie truppe in Africa. Sconfitta nella battaglia di Adys, Cartagine fu sull’orlo della fine con le truppe romane accampate a pochi km dalla città. ![]()
La salvezza fu portata da un mercenario greco, lo spartano Xantippo, il quale riformò l’esercito cartaginese e inflisse una pesante sconfitta alle truppe guidate dal console Marco Attilio Regolo nella battaglia di Tunisi del 255 a.C. La flotta giunta in soccorso ai Romani venne distrutta da una tempesta e la guerra fu nuovamente riportata in Sicilia.
Gli anni successivi videro la fortuna arridere a fasi alterne ai due contendenti: una nuova flotta romana vinse a Panormo (Palermo) e occupò la città, ma la battaglia navale di Drepano fu vinta da Cartagine, la quale inviò in Sicilia il generale Amilcare Barca. Privo però di veri rinforzi dalla madrepatria, egli dovette impegnare i Romani soprattutto con incursioni e operazioni di guerriglia. Con un enorme sforzo economico Roma riuscì nel 241 a.C. ad allestire una nuova flotta e il 10 marzo dello stesso anno le navi guidate dal console Gaio Lutazio Catulo si scontrarono con quelle cartaginesi di Annone nelle acque delle Isole Egadi. La vittoria romana costrinse Cartagine alla resa e ad accettare le dure condizioni di pace imposte da Roma: rinunciare alla Sicilia, la prima provincia romana, restituire i prigionieri di guerra senza chiedere riscatto e pagare una salatissima indennità di guerra. Era la fine della prima guerra punica.
Immagini tratte da:
- carta del Mediterraneo, 264 a.C. da Wikipedia Italia, Di First_Punic_War_264_BC.png: Jon Platekderivative work: EH101 - Questo file deriva da: First Punic War 264 BC.png:, CC BY-SA 3.0, voce "Prima guerra punica" - corvo, da Wikipedia Inglese, By Chewie - based on Model of the "corvus" by Martin Lokaj, CC BY-SA 2.5, voce "First punica war" - legionario romano, da Wikipedia Francese, Par Antoine Glédel — Travail personnel, CC BY-SA 3.0, voce "Légion romaine" di Ilaria Ceragioli Io penso che il colore, aiutato dalla luce, entri in relazione con l’anima e comporti conseguenze emotive inattese. Partendo da questa consapevolezza, il pittore Markus Rothkowitz, meglio noto come Mark Rothko, riuscì a riprodurre su tela il complesso universo emotivo dell’essere umano. Si chiama Color Field Painting il movimento pittorico a cui Rothko apparteneva e consisteva nell’utilizzo di tele di grandi dimensioni interamente ricoperte da campiture di colore. Attraverso quest’azione pittorica, costituita solitamente da due o tre fasce di colore, Rothko seppe esprimere la tragicità dell’esistenza umana, il disadattamento socioculturale, i timori e il senso d’angoscia racchiusi nella quotidianità del vivere. Mark Rothko è stato uno dei più ragguardevoli esponenti dell’Espressionismo Astratto, una corrente artistica statunitense successiva alla Seconda Guerra Mondiale. Il linguaggio figurativo messo a punto dall’artista utilizza come mezzo di espressione il colore, la cui intensità entra immediatamente in relazione con la sensibilità dell’osservatore. Lo spettatore si mette, per così dire, “a nudo” dinanzi alle opere di Rothko compiendo un viaggio spirituale guidato dall’idea che lo stesso artista manifesta sulle varie fasi che caratterizzano l’esistenza umana: nascere, vivere e morire. Alla Modern Tate Gallery di Londra è conservato Nero su Marrone, uno dei dipinti eseguiti intorno al 1958 per l’esclusivo ristorante “Four Seasons” nel Seagram Building di New York. Rothko affermò la volontà di ricreare un ambiente avvolgente come quello del vestibolo di Michelangelo nella Biblioteca Laurenziana a Firenze che visitò personalmente nel 1950 e nel 1959. Pertanto, su un gigantesco sfondo di colore marrone si staglia un rettangolo di colore nero dai contorni sfumati, al cui interno sono presenti altri due rettangoli marroni, quasi a formare una sorta di finestra. Tuttavia, la commissione dell’opera venne ritirata dallo stesso Rothko poiché si rese conto dell’inadeguatezza della tela all’interno di un simile contesto. Allo stesso anno risale No. 13 o Bianco, Rosso su Giallo, opera dai toni luminosi e accesi realizzata in olio e acrilico con pigmenti polverizzati. Rothko era solito variare lo spessore degli strati pittorici per rendere le sue opere più intime e umane e, talvolta, modificava anche l’orientamento degli stessi dipinti. Infatti, questo capolavoro registra alcuni sgocciolamenti di colore che testimoniano che il pittore abbia addirittura lavorato per un certo tempo con la tela capovolta. Toni decisamente più cupi e un’atmosfera piuttosto arcana ed enigmatica caratterizzano le 14 tele, tre trittici e 5 pannelli rettangolari, della Rothko Chapel, una cappella aconfessionale progettata da Philip Johnson, Howard Barnstone ed Eugene Aubry e collocata a Houston, nel Texas. L’edificio a pianta ottagonale presenta al suo interno pareti ricoperte da uno stucco grigio chiaro ed è privo di finestre; l’unica fonte luminosa è esercitata dalla luce naturale che passa attraverso un lucernario. La luce penetra così dall’alto rischiarando il nero delle tele, creando ininterrottamente nuove e suggestive sfumature. Dunque, la Rothko Chapel è un monumento sacro in cui l’osservatore è invitato dallo stesso artista ad interrogarsi sul mistero della Fede. Disarmato e silenziosamente coinvolto da questa atmosfera funerea ed enigmatica, lo spettatore si abbandona spesso a un’intima, ma sentita commozione. Lo stesso Rothko affermò: Sono interessato solo a esprimere emozioni umane fondamentali – la tragedia, l’estasi, l’estinzione e via di seguito – e il fatto che molte persone collassano e piangono quando si trovano di fronte ai miei dipinti è una prova che comunico queste emozioni umane fondamentali. Quanti piangono davanti ai miei quadri vivono la stessa esperienza religiosa che ho vissuto io quando li ho dipinti. Con la sua attività artistica Mark Rothko intendeva puntare l’attenzione sul valore comunicativo dell’arte e, quindi, sulla capacità di quest’ultima di far dialogare l’artista con l’osservatore. Rothko ci riuscì, ma il profondo disagio e turbamento dell’artista, continuamente in lotta con una forte depressione, lo condussero ben presto al suicidio. Infatti, in un mattino del 1970, Rothko si tolse la vita nel suo studio di New York. Oggi, Rothko è uno dei pittori più quotati sul mercato dell’arte. Basti pensare che nel 2012 il suo capolavoro Orange, Red, Yellow (1961) fu venduto all’asta per quasi 87 milioni di dollari, equivalenti a 67 milioni di euro, battendo qualsiasi record nell’ambito dell’arte contemporanea. Ma la sua rilevanza artistica e il suo tormentato mondo interiore non possono ridursi esclusivamente a cifre da capogiro. Per Rothko ogni sua opera era un pezzo della propria anima, l’espressione della propria esistenza e la parte emozionale generata dalla loro stessa contemplazione.
Immagini tratte da: www.attualissimo.it www.metmuseum.org www.artspecialday.com www.artesvelata.it www.vanityfair.it di Alessandro Rugnone Si è spento all’età di 84 anni Christo Vladimirov Javacheff, noto ai più con il solo nome di Christo, uno dei rappresentanti di maggior rilievo della Land Art (o Enviromental Art), quella tendenza artistica che, a partire dagli anni sessanta, insieme all’Arte Concettuale, alla Body Art, all’italiana Arte Povera (il cui teorico, Germano Celant, ci ha lasciato poche settimane fa), ha contribuito a un deciso rinnovamento di un’arte, quella contemporanea, ancora legata a vecchie pratiche e a vecchi linguaggi. In più di cinquant’anni di carriera – era nato a Gobrovo, in Bulgaria, nel 1935 – Christo, assieme alla compagna di vita Jeanne-Claude Denat de Guillebon, ha legato la sua notorietà d’artista alla pratica del Wrapping, o dell’imballaggio, con cui, per mezzo di tessuti industriali e corde, ha letteralmente impacchettato paesaggi e monumenti: dai Wrapped Objects, piccoli oggetti di vita quotidiana quali, ad esempio, telefoni, lattine, bottiglie, tavolini, avvolti dall’artista in fogli di polietilene e legati con spago, ai monumenti, i Wrapped Monuments, sia nazionali – le Mura Aureliane e la Porta Pinciana a Roma, il Fortilizio dei Mulini e la fontana di Piazza del Mercato a Spoleto, la statua equestre di Re Vittorio Emanuele II in Piazza Duomo e il monumento a Leonardo da Vinci in Piazza della Scala a Milano – che internazionali – il Reichstag di Berlino o il Pont Neuf a Parigi – , ai suggestivi interventi sul paesaggio naturale – Wrapped Coast, Little Bay a Sidney, dove impacchettò un intero tratto della costa australiana di Little Bay, Valley Curtain in Colorado, dove attraversò la vallata du Grand Hogback con una vela color arancio, Surrounded Islands, dove circondò con 600.000 mq di polipropilene rosa galleggiante undici isole di fronte a Miami. Nel 2016, sulla sponda bresciana del Lago d’Iseo, tra Sulzano, Montisola e l’Isola di San Paolo, realizzò, tramite una rete di pontili galleggianti, una passerella aperta al libero transito pedonale. Rivestita di un tessuto d’uno sgargiante colore giallo brillante, la pedana fu percorsa, dal 18 Giugno al 3 Luglio, da oltre un milione di visitatori. L’opera fu poi smantellata e le componenti smaltite in diversi siti europei. Christo, rimarcando la natura provvisoria, temporale delle sue installazioni site-specific, dichiarò: “Rimuoveremo ogni parte di The Floating Piers nel corso di tre mesi e lasceremo il Lago d’Iseo come se non fossimo mai stati qui”.
A Settembre di quest anno avrebbe dovuto impacchettare nientemeno che l’Arco di Trionfo a Parigi (Arc de Triomphe, Wrapped): fortunatamente l’opera verrà comunque realizzata seguendo scrupolosamente il progetto dell’artista e sarà visitabile dal 19 Settembre al 4 Ottobre. Ci sentiamo di condividere il messaggio lasciato dall’ufficio stampa dell’artista a poche ore dalla sua scomparsa: “Christo ha vissuto la sua vita al massimo, non solo sognando ciò che sembrava impossibile, ma facendolo diventare realtà. L’opera di Christo ha riunito le persone attraverso esperienze condivise in tutto il mondo e il suo lavoro vive nei nostri cuori e ricordi”. Per approfondire: Articolo 1 - Christo e il fascino dell'Italia Articolo 2 - Christo e il fascino dell'Italia\2 Articolo 3 - 1974, CHRISTO A ROMA: L’IMBALLAGGIO DI PORTA PINCIANA E DI UNA PORZIONE DELLE MURA AURELIANE Articolo 4 - The floating piers: l'ultimo prodigio di Christo Immagini tratte da Sito ufficiale di Marianna Carotenuto Durante la quarantena gli street artist di tutto il mondo hanno portato l’emergenza Coronavirus sui muri di moltissime città. L’artista italiano Salvatore Benintende, in arte TVBOY a metà febbraio ha realizzato a Milano “L'Amore ai tempi del Co…vid-19” rifacendosi al celebre romanzo di Marquez "L'amore ai tempi del Colera". TVBOY propone una rivisitazione del Bacio di Hayez: i due amanti sono dotati di mascherina e Amuchina, i due simboli dell'emergenza Coronavirus italiana. A proposito di Amuchina lo street artist bresciano Future? ha dedicato i suoi stencil alla corsa all’acquisto del gel igienizzante per le mani. L'opera “Your prevention, their profit” fa riferimento alle speculazioni sui prezzi di disinfettanti e mascherine. Se in Italia c’è stata la corsa all’Amuchina, all’estero si è parlato di caccia alla carta igienica. Al Mauer Park di Berlino, Eme Freethinker dipinge Gollum de "Il Signore degli Anelli" con un rotolo di carta igienica tra le mani e la scritta "Mia cara". Il dipinto allude alla mancanza di carta igienica nella maggior parte dei negozi, dopo che le persone hanno svaligiato i supermercati in preda alla paura. A TVBOY si deve anche una Monna Lisa al passo coi tempi, con tanto di mascherina e smartphone intenta a scattarsi un selfie. La Gioconda di Leonardo ai tempi del Coronavirus è apparsa sui muri di Barcellona il 18 febbraio 2020. L’opera si intitola Mobile World Virus in riferimento al Mobile World Congress, la più importante fiera al mondo sulla telefonia mobile cancellata per l’emergenza. Nello Petrucci ha realizzato a Pompei, su un muro nei pressi del Centro commerciale La Cartiera, l’opera intitolata Sweet Home. L’artista, sulla scia del #iorestoacasa, ritrae i Simpson con le mascherine davanti alla Tv. Lo street artist Harry Greb Design ha realizzato l’opera intitolata Human Family a Trastevere, Roma. Si tratta di una famiglia in gabbia fotografata da un panda. Per una volta sono gli animali che sono al di là delle sbarre. L’artista racconta di aver voluto rappresentare il disagio che le famiglie stanno vivendo in questi giorni: “la casa è la nostra gabbia e sono proprio gli animali a fotografare la specie umana come se fossimo noi nello zoo”. Non sono mancate opere per omaggiare gli infermieri ei dottori schierati in prima linea contro il Covid-19. Banksy offre il suo personale tributo ai medici e agli infermieri del servizio sanitario britannico, l'Nhs, impegnati nella lotta contro il virus con l’opera “Game Changer”,esposta al General Hospital di Southampton. Il suo ultimo lavoro raffigura un bambino che gioca con uno dei suoi supereroi. È un'infermiera: ha la mascherina, il mantello, la mano tesa nell’aria nel il gesto tipico di Superman e, al posto della celebre S, la croce rossa. Batman e l’Uomo Ragno vengono accantonati nel cesto dei giocattoli preferendo la vera Supereroina. "Grazie per tutto il lavoro che state facendo. Spero illumini un po' il posto, sebbene sia solo in bianco e nero" - Banksy Infatti l'unico particolare colorato è la croce rossa sul grembiule dell'infermiera. L'opera resterà esposta in ospedale fino all'autunno e poi sarà venduta per devolvere il ricavato in beneficenza. Una giovane infermiera, con la mascherina sul volto e il braccio destro piegato a rappresentare la forza e la resistenza nella battaglia contro il Coronavirus, è stata il soggetto dell’opera di TVBOY intitolata “We can do it!”. "In occasione della festa dei lavoratori - scrive TvBoy - ecco il mio omaggio a tutti gli operatori sanitari, che in questi mesi non si sono risparmiati e hanno lavorato con coraggio e dedizione, come sempre, anche se noi ci siamo accorti solo adesso dell'importanza fondamentale che hanno nella nostra vita. Sono la categoria di lavoratori a cui per eccellenza va fatto un plauso oggi, insieme alle forza dell'ordine. Rappresentano la forza e la speranza di potercela fare, di poter sconfiggere questo nemico invisibile e tornare alla normalità più forti e motivati di prima". Fonti: https://www.unicosettimanale.it/ https://www.focus.it/ https://www.palermotoday.it/ www.salto.bz https://www.huffingtonpost.it/ Potrebbe interessarti anche: di Olga Caetani Bestie da soma è un’opera che fin dal suo stesso titolo non riserva alcuna pietà alle figure ritratte all’interno dell’ampio scorcio di vita e di mondo, che si dipana a grandezza pressoché naturale davanti agli occhi di chi guarda, profondamente scosso da tanto crudo realismo. Sull’esempio di Courbet, Daumier e Millet, di Fattori e dei Macchiaioli fiorentini e non senza lo studio delle grandi tele romane di Caravaggio e dei suoi seguaci, la pittura di Teofilo Patini è zelante e meticolosa, fin quasi a sfiorare la perfezione del reale, anche nella sua più impietosa declinazione. Con Bestie da soma, che costituisce l’acme di una trilogia ideale, realizzata entro la prima metà degli anni ’80 dell’Ottocento e che comprende L’Erede e Vanga e latte, il progressivo processo di avvicinamento del pittore al realismo sociale è compiuto. Alle critiche accademiche rispondeva: “ho coscienza che l’impressione da me voluta è spiacevole e fatta proprio per urtare i nervi delicati di chi porta guanti e calze di seta”, ritenendo che il lavoro, la fatica e la miseria contenessero in loro “il germe delle grandi riforme sociali”. Patini dipinge la “semplice e pura manifestazione” del vero che lo circonda e, da ex garibaldino impegnato nelle insurrezioni del Gran Sasso e della Marsica, apre uno spaccato sulle precarie e desolanti condizioni di vita in Abruzzo all’indomani dell’Unità d’Italia, ben sintetizzate dall’indigenza che traspare osservando la serie di piccole vedute paesaggistiche di Castel di Sangro, suo paese natale. Se lo sconfinato e arioso orizzonte montano di Vanga e latte lasciava intravedere una futura speranza, incarnata dal neonato nutrito dalla donna, in Bestie da soma non ci sono possibilità di riscatto, come non ci sono né aria né cielo, e, in assenza dell’orizzonte, solo brulle rocce, aspre e inospitali. Tra massi, pietre e aguzzi cardi secchi, tre donne, schiacciate dal peso della fatica e dalla prospettiva, riprendono fiato sotto il sole bruciante, le labbra sono dischiuse e riarse, le vesti sdrucite e logore. Sullo sfondo, in lontananza, se ne contano almeno altre cinque, rese con rapidi tocchi di colore degni del tratteggio impressionista. Rincasano, ognuna con il proprio pesante carico di legna, e c’è chi porta anche il fardello del ventre rigonfio, di un nascituro destinato alla medesima e inesorabile sorte della madre. Ma le donne di Patini, qui variate nelle tre stagioni della vita, non piangono mai. Seppur stremate, alludono all’organizzazione segretamente matriarcale della famiglia abruzzese, offrendo un focus sulla socialità della donna italiana. Sempre dipinte nel vivo di un’attività, sono donne concrete, forti e orgogliose, senza vanità. Un dettaglio non passa inosservato: sotto la luce zenitale che modula il chiaroscuro della tela, un luccichio d’oro incornicia i volti disfatti dalla durezza del lavoro. Sono i preziosi orecchini ricevuti in dono al momento del fidanzamento o delle nozze e passati di madre in figlia. Lunghi e pendenti, ad ogni passo riproducono il gesto apotropaico di allontanamento delle influenze maligne. Femminilità, dignità e superstizione si fondono nel costume tradizionale, simbolo irrinunciabile di appartenenza e resistenza culturale. Miracolosamente sopravvissuta al devastante terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009, l’opera, facente parte della collezione del Palazzo del Governo del capoluogo abruzzese, è oggi esposta, assieme a tanti altri importanti dipinti del maestro, nella Pinacoteca Patiniana di Castel di Sangro, situata nei suggestivi ambienti del trecentesco Palazzo De Petra, cuore del centro storico della città, pulsante di iniziative, laboratori, mostre temporanee ed eventi culturali. Immagini tratte da:
Potrebbero interessarti anche: di Nicola Avolio Chi studia storia dell’arte, o anche chi ne è semplicemente appassionato, saprà che il museo inteso come luogo di esposizione di opere e mostre pubbliche o private ha avuto una lunga gestazione nel corso dei secoli: i primi nuclei espositivi nacquero negli studioli privati appartenenti ai principi di corte (si ricordino, ad esempio, gli studioli di Federico da Montefeltro e di Isabella d’Este), i quali erano soliti raccogliere all’interno di questi privè, per utilizzare un termine moderno, oggetti di ogni tipo e solitamente di piccole dimensioni. Successivamente alla concezione dello studiolo alcune figure eminenti, tra la fine del ‘400 e gli inizi del ‘500, resero necessaria l’esposizione al pubblico delle loro collezione, garantendone così la conoscenza e la fruibilità da parte di tutti: in questo caso è bene fare menzione del Palazzo Della Valle a Roma, appartenente al cardinale Andrea Della Valle e della cui collezione, situata nell’hortus pensilis del palazzo, ci sono pervenuti oggi alcuni disegni del Vasari e di Hyeronimus Cock, della collezione di Egidio e Fabio Sassi e della collezione Cesi, una delle più cospicue di Roma e che si estendeva in tutto il cortile della villa del prelato, fino alle rive del Tevere e di cui ci sono pervenute delle testimonianze biografiche dell’Aldrovandi (il quale, nel 1603, donò in eredità la sua collezione di storia naturale, la prima in Italia, al Comune di Bologna affinché venisse tramandata ai posteri e resa quindi fruibile a tutti) e raffigurative di Maarten Van Heemskerk. Ma come si arriva alla prima concezione di museo inteso unicamente come luogo atto a raccogliere oggetti d’arte? Per scoprirlo, bisogna arrivare agli anni compresi tra il 1536 e il 1543: in quegli anni, infatti, Paolo Giovio, vescovo di Nocera, allestì la sua collezione privata, accessibile cioè soltanto a pochi membri d’elìte, di oggetti d’arte nella sua villa di Borgovico, sulle rive del lago di Como, che all’epoca fu considerata una rievocazione della “Comoedia”, la villa che Plinio il Giovane possedeva negli stessi luoghi. Situata sul luogo dove oggi sorge la Villa Gallia, la costruzione aveva al centro un cortile nei cui portici si distribuivano gli oggetti d’arte posseduti dal Giovio; a esso si affiancava un salone decorato con le figure di Apollo e delle Muse – tema molto comune già negli studioli di corte quattrocenteschi – che ospitava invece il nucleo caratterizzante della raccolta. È proprio per questo ambiente che il Giovio utilizza il termine Museo, un termine che viene ora ad indicare, per la prima volta, il luogo deputato all’esposizione di opere d’arte. La principale collezione di questo iocundissimo museo era costituita da alcune centinaia di ritratti di uomini illustri, poeti, artisti, condottieri, pontefici, imperatori, ciascuno dei quali illustrato da un elogium, ossia una sorta di didascalia compilata dallo stesso Giovio. Alla base della collezione c’era il modello delle Vite di Plutarco, cioè una storia vista come l’insieme delle vite dei personaggi eccezionali: idea che incontrò grande successo, tanto che la “serie gioviana” fu replicata a Firenze, dove Cosimo I ne commissionò le copie a Cristofano dell’Altissimo, ad Ambras dell’arciduca Ferdinando d’Austria e da Ippolita Gonzaga. La novità della villa di Borgovico risiede non solo nella diversificazione di ciascun ambiente a seconda del contenuto, ma soprattutto nel fatto che il museo viene consacrato come luogo fisico della conservazione delle raccolte, come spazio dal quale materiali anche non omogenei ricevono una cornice unificante. Il materiale per la stesura del seguente articolo è stato tratto dal manuale “Il museo nella storia. Dallo studiolo alla raccolta pubblica” di Maria Teresa Fiorio, Bruno Mondadori editore, pp. 27-28. L’immagine della villa di Borgovico è stata tratta dal seguente sito: http://www.lombardiabeniculturali.it/opere-arte/schede/CO290-00012/ |
Details
Archivi
Gennaio 2022
Categorie |