di Andrea Samueli ![]() Vindolanda, un forte lungo il famoso Vallo di Adriano, ai confini più settentrionali dell’Impero. Ci vengono subito in mente il clima ostile e le probabili - forse certe - imprecazioni dei soldati costretti a fare la guardia a questa linea fortificata, le esercitazioni militari e, perché no, anche qualche scontro con le tribù provenienti da nord. Questa volta immaginiamo invece un messaggero trafelato e intirizzito per il freddo che consegna un messaggio nelle mani di una ricca matrona che vive al forte. Gli occhi della donna si illuminano non appena letto il contenuto della missiva… Saltiamo negli anni 70’ del secolo scorso: gli archeologi hanno trovato una serie di tavolette lignee risalenti al I – II secolo d.C., conservatesi grazie alle particolari condizioni del terreno. Tra queste una colpisce in particolare, quella scritta da una signora di nome Claudia Severa. Claudia Severa alla sua Lepidina, salute! Il terzo giorno prima delle Idi di settembre [11 settembre], sorella, per la giornata della mia festa di compleanno, ti invito di cuore a far sì che tu venga da noi, per rendere con la tua presenza la mia giornata ancora più felice, se verrai. Saluta il tuo Ceriale. Il mio Elio il figliolo lo salutano. Ti aspetto, sorella! Stammi bene, sorella, anima mia carissima, così come io mi auguro di star bene, e addio. A Sulpicia Lepidina, moglie di Ceriale, da parte di Severa. La data è espressa con la tipica formula romana: le Idi di settembre cadono il giorno 13 e tre giorni prima (si conta anche il giorno di partenza) siamo all’11 settembre. Nonae e Idi sono giorni mobili a seconda del mese: nei mesi di marzo, maggio, luglio e ottobre corrispondono al 7 e al 15; nei restanti mesi al 5 e al 13. Si tratta di un invito ad una festa di compleanno, la più antica testimonianza di scrittura in latino appartenente ad una donna. La tavoletta, scritta con inchiostro nero, presenta due grafie: quella di uno scriba e un’aggiunta della stessa Claudia Severa, una matrona romana, nata evidentemente l’11 settembre, in un anno imprecisato della seconda metà del I secolo d.C. (il reperto è infatti datato verso la fine del secolo e l’inizio del successivo, tra il 97 e il 103 d.C.). Come si legge è la moglie di un comandante di nome Elio Brocco di stanza, con ogni probabilità, in un altro forte lungo il Vallo. La presenza di bambini nel campo è testimoniata da altri preziosi ritrovamenti: scarpine in cuoio, anch’esse incredibilmente conservatesi. La destinataria si chiama invece Sulpicia Lepidina: è lei che vive a Vindolanda, avendo accompagnato il marito Flavio Ceriale, prefetto della nona coorte dei Batavi qui di stanza. Allora come oggi il compleanno era sentito come un momento speciale da festeggiare con le persone più care. Immagini tratte da:
0 Commenti
di Antonio Monticolo L’Afrodite Cnidia di Prassitele rappresenta il primo nudo femminile della storia dell’arte greca. Quella che oggi si può ammirare ai Musei Vaticani è una copia di un originale bronzeo di Prassitele datato al 360 a.C. (esistono anche diverse varianti in altri musei). Rappresenta Afrodite in un momento non del tutto chiaro. È sì nuda, ma non si sappiamo se si sta svestendo per fare un bagno oppure se sta per coprirsi perché si è accorta che qualcuno la sta guardando. Plinio (N.H. XXXVI, 20) racconta che Prassitele ne aveva realizzate due: una vestita e una nuda. I Coi (gli abitanti dell’isola di Cos) avevano in diritto di scelta sull’acquisto e comprarono quella vestita perché la ritenevano pudica e austera. Gli abitanti di Cnido allora comperarono l’altra “destinata a ben' altra e incommensurabile fama”. Gli abitanti di Cnido collocarono questa statua in un tempietto aperto in modo che potesse essere vista da tutte le parti. Plinio aggiunge (XXXVI, 21): “Dicono che un tale, preso da insano amore, si nascondesse là di notte e si accoppiasse con il marmo; una macchia resta indizio della sua passione”. Copia romana da un originale marmoreo del 360 a.C. circaMusei Vaticani, Città del Vaticano Da questa prima statua di Afrodite nuda sono poi state rappresentate altre statua della stessa dea, ma in modo diverso. Un altro esempio a tale proposito è l’Afrodite Diodalsas (accovacciata) di cui abbiamo diverse copie romane di un originale bronzeo greco del 250 a.C. Afrodite è piegata sulle ginocchia mentre aspetta l’acqua per il bagno oppure è rappresenta mentre cerca di coprirsi le nudità e gira indietro la testa perché si è accorta che qualcuno la sta osservando. Copia romana da un originale bronzeo del 250 a.C. circa. Museo nazionale romano di Palazzo Massimo, Roma Dell' Afrodite Callipigia (ossia dalle belle natiche) non si sa molto se non che risale all’epoca dell’imperatore Adriano e che venne rinvenuta priva di testa nei pressi della Domus Aurea. Si tratta di una copia marmorea di un originale greco in bronzo del III sec.a.C. La Afrodite Callipigia venne acquistata dalla famiglia Farnese nel 1594, venne restaurata con l’aggiunta della testa e venne collocata a Palazzo Farnese nella collezione archeologica. Nel 1786 fu trafesrita a Napoli sotto il regno di Ferdinando IV e dal 1802 è esposta al palazzo degli Studi quello che oggi è il museo archeologico nazionale di Napoli. Afrodite è rappresentata nell’atto dell’anasyrma (far vedere le natiche), gesto collegato a rituali, all’erotisimo e a scherzi volgari. Infatti Afrodite è colta nell’attimo in cui sta tirando in su la veste sui fianchi e si gira in un atto provocatorio e di forte sensualità. II secolo d.C. Museo Archeologico Nazionale, Napoli Immagini tratte da:
- Wikipedia, pubblico dominio, voce: Afrodite Cnidia - Wikipedia, CC-BY-3.0, voce: Afrodirte Diodalsas - Wikipedia, CC-BY-2.0, voce: Afrodite Callipigia di Antonio Monticolo Pochi giorni fa è stata effettuata una scoperta importantissima nelle acque del Mar Nero a pochi chilometri dalla costa bulgara. Un’equipe di archeologi anglo-bulgari, cooperando all’interno del “Black Sea Maritime Archeology Project” (Map), coordinati dal professore John Adams, hanno rinvenuto un relitto greco risalente a circa 2400 anni fa. Si tratta di una nave da commercio lunga più di venti metri, naufragata, molto probabilmente, mentre stava trasportando merci da o verso le colonie greche fondate sulla costa del Mar Nero secoli prima. É una scoperta sensazionale perché il relitto, adagiato sul fondo a duemila metri di profondità, è stato trovato intatto, questo perché l’acqua del Mar Nero essendo priva di ossigeno ha impedito ai batteri di proliferare e attaccare il legno dell’imbarcazione. Gli elementi della nave rimasti intatti sono l’albero maestro, i timoni, le panche per i rematori e anche parte del carico della stiva formato molto probabilmente da anfore e vasi, ma per la loro analisi ci vorrà un’ulteriore spedizione. Gli archeologi si sono serviti di due robot sottomarini (Rov: Remote operated vehicle) per scandagliare il fondo del mare; hanno ricostruito un’immagine tridimensionale della nave tramite la fotogrammetria (metodologia che permette di creare modelli tridimensionali partendo da fotografie digitali) e infine hanno prelevato un campione per eseguire la datazione al carbonio 14 che si effettua sui resti organici proprio come il legno. Gli archeologi sono ancora indecisi se portare o meno il relitto in superficie. L’ipotesi più probabile è che venga lasciato sul fondo perché il recupero potrebbe danneggiarlo. Sicuramente nei prossimi mesi si saprà qualcosa di più sull’imbarcazione e su ciò che trasportava. Immagini tratte da:
Mondo fox Corriere.it di Andrea Samueli Frombolieri La frombola, una sorta di fionda, è un’arma antichissima: si componeva di una lunga corda interrotta da un pezzetto di cuoio atto ad accogliere il proiettile. Il fromboliere teneva in una mano entrambe le estremità della corda, di cui una terminava con un anello nel quale inserire il dito indice; l’altra estremità veniva invece tenuta tra indice e pollice finché, fatta roteare la fionda sopra la testa, si liberava permettendo al proiettile di essere scagliato a grande distanza, sino a 400 metri. Diversi popoli sono ricordati per la loro abilità nell’uso di quest’arma: i più noti sono i frombolieri di Rodi e quelli delle Baleari, quest’ultimi poi arruolati anche nell’esercito romano come numeri (truppe ausiliarie che mantenevano le caratteristiche originarie). Si trattava di soldati facenti parte della fanteria leggera e il loro armamento comprendeva, oltre alla frombola (i Balearici ne portavano in battaglia tre, in base al diverso raggio di tiro), un piccolo scudo di vimini detto pelta e una corta spada o una lancia. La potenza d’urto dei proiettili, in genere di forma ovale in pietra o piombo, era tale da arrecare ferite gravissime, se non letali, nelle parti lasciate scoperte riuscendo persino a perforare la protezione offerta dagli elmi di bronzo. Carri da guerra dell’antico Egitto L’invasione dell’Egitto ad opera degli Hyksos (1700-1500 a.C.) portò in queste terre una nuova arma: il carro da guerra che grazie alla sua manovrabilità e alla velocità ebbe un forte impatto sui campi di battaglia. Gli Egizi, già a partire dal XV secolo, inserirono nel loro esercito ampi reparti di carri: questo mezzo permetteva il trasporto di due soldati, un auriga dotato di scudo ed un arciere, che aveva così a disposizione una piattaforma mobile dalla quale scagliare frecce sul nemico. La battaglia di Kadesh rappresenta uno dei più grandi scontri del mondo antico durante il quale entrambe le parti fecero ampio utilizzo di questa arma: la fanteria di Ramses II era affiancata da oltre 2000 carri ai quali se ne contrapposero oltre 3000 Hittiti. Immagini tratte da: Potrebbe interessarti anche:
di Andrea Samueli Immortali persiani Gli Immortali, o Compagni in altre fonti, erano soldati scelti al servizio dell’esercito persiano. È Erodoto, nelle sue Storie, a definirli Athanatoi, Immortali appunto, per la caratteristica di contare sempre nei loro ranghi diecimila unità: “Era stato scelto per ciascuno - nel caso in cui, costretto da morte o malattia, mancasse al numero complessivo - un sostituto; ed erano sempre diecimila: né più né meno.” (Erodoto, Storie, trad. di Piero Sgroj) Addestrati nell’utilizzo di più armi, erano dotati di una corta spada, arco e frecce, una lancia con punta in ferro e uno scudo di vimini ricoperto in pelle; a protezione del corpo indossavano una pesante armatura a scaglie sotto la quale portavano una ricca tunica a maniche lunghe e pantaloni. La testa erano invece protetta da un berretto in stoffa (o feltro). Ne possiamo vedere una raffigurazione nei rilievi che adornavano il palazzo imperiale di Dario I a Susa. Catafratti e arcieri partici I catafratti, dal greco “coperto da armatura”, erano unità di cavalleria pesantemente armate. Il cavaliere era protetto completamente da un’armature a piastre con gambe e braccia coperte da un rivestimento a lamine di bronzo, mentre il cavallo era dotato di una corazza integrale a scaglie cucita su uno stato di cuoio. L’arma principale del catafratto era una lancia lunga quattro metri (detta kontos) da impugnare con entrambe le mani, fissata all’armatura del cavallo per meglio gestirla durante la carica e per trasferire maggiore forza nel momento dell’impatto. Non essendo ancora presenti le staffe, la sella disponeva di un marcato rialzo posteriore e di due agganci laterali per le gambe del cavaliere. L’efficacia di queste unità, già di per sé devastante sui campi di battaglia antichi, veniva aumentata combinando il loro intervento con quello degli arcieri a cavallo. Il “tiro partico” prevedeva che gli arcieri si avvicinassero al nemico fino a una distanza di 90 metri dopo la quale, spronati gli animali, cominciava il lancio di frecce fino ai 45 metri, per poi frenare la corsa e tornare indietro scagliando ancora dardi sulle file avversarie. Il tutto poteva essere ripetuto varie volte finché, inflitte perdite adeguate da scompaginare la formazione nemica, intervenivano i catafratti. Nella celebre battaglia di Carre, i Parti disponevano di 1000 catafratti e 9000 arcieri a cavallo, riforniti di frecce da un convoglio di ben 1000 cammelli. Immagini tratte da:
Immortali, da Wikimedia, By Unknown - Jastrow (2005), Public Domain, File: Archers frieze Darius palace Louvre AOD487.jpg Catafratti, da Pinterest (Battle of Carrhae) Arcieri a cavallo, da Pinterest (Parthian archer) Potrebbero interessarti anche: di Antonio Monticolo L’anfora Dressel 1 (il nome fa rifermento a Heinrich Dressel, 1845-1920, il quale fu uno dei primi a studiare e a classificare le anfore e i bolli presenti sulla anfore stesse) è la più comune anfora della tarda età repubblicana romana. Il tipo è convenzionalmente suddiviso in tre sottotipi:
Le differenze che producono questi sottotipi si riscontrano soprattutto nella forma dell’orlo. Inoltre, questi tre sottotipi vengono prodotti in età più o meno differenti. Infatti, la Dressel 1A inizia a essere prodotta tra il 140/130 a.C. e persiste fino alla metà del I secolo a.C. La Dressel 1B venne prodotta tra l’ultimo quarto del II secolo a.C. fino all’ultima decade del I secolo a.C. Infine, la 1C fu realizzata tra la fine del II secolo a.C. e il secondo quarto del I secolo a.C. La Dressel 1 fu una delle anfore più esportate nel Mediterraneo. La sua diffusione nella seconda e prima metà del I secolo a.C. costituisce la più importante evidenza dell’esportazione della produzione agricola dell’Italia nel mondo antico. Una grande quantità di queste anfore sono state trovate soprattutto nel bacino occidentale del Mediterraneo, mentre un numero minore in quello orientale. Ne sono testimonianza sia i ritrovamenti terrestri sia quelli marini. Infatti, in diversi riletti è stata trovata in grande quantità questa tipologia di anfora. Ad esempio sono stati ritrovati molti relitti lungo le coste della Gallia (l’attuale Francia) e nei pressi della costa della penisola iberica. Presso la Grand Congluè (isolotto vicino Marsiglia) sono stati trovati sul fondale due relitti sovrapposti. Inerente al tema trattato, l’imbarcazione che ci interessa è quella più recente, cioè quella che si adagia sul relitto che tocca il fondale. Tale relitto conteneva materiali della fine del II – inizio I secolo a.C. con 1200-1500 anfore Dressel 1A. Un gran numero di anfore Dressel 1 ritrovate in tutto il Mediterraneo presentano il nome di Marco Sestio associato all’ancora o al tridente. Egli era membro di un’importante famiglia senatoria e proprietario di grande tenute vinicole. Marco Sestio era anche associato con Cosa, colonia latina, ubicata nella zona odierna di Orbetello, nel grossetano. Qui, infatti, le concentrazioni delle sue anfore furono trovate presso il porto ed è possibile che le ville che producevano il suo vino fossero localizzate nell’Ager Cosanus. Immagini tratte da:
roma sotterranea archeologia subacquea.org Potrebbe interessarti anche: |
Details
Archivi
Gennaio 2022
Categorie |