Tra la fine del Settecento e gli inizi del secolo successivo, in pittura vigeva ancora la consolidata tradizione dell’esistenza di una gerarchia dei generi pittorici, che elevava indiscutibilmente al suo apice l’aulica pittura di storia eroico-celebrativa, religiosa o “profana”, ossia di soggetto mitologico. In questo contesto, il paesaggio era considerato un elemento di secondo piano: una scenografia nella quale immergere le figure umane protagoniste degli episodi raffigurati. Mirabili prove di paesaggio storico erano state offerte nel corso del XVII secolo da Annibale Carracci e dai francesi Nicolas Poussin e Claude Lorrain.
I grandi formati delle tele che ospitavano questo genere di opere venivano dipinti interamente a studio, con l’occhio del pittore che alternativamente gettava uno sguardo al modello ed uno alla tela. Tuttavia, il paesaggista sentiva il bisogno di uscire dal chiuso dell’atelier per osservare in modo diretto la natura, concentrandosi sullo studio dei suoi singoli elementi, annotati in un rapido schizzo, per fissare a matita o con qualche pennellata di acquerello la resa di un tronco contorto, di una roccia, delle ombre da essi proiettate. Pierre-Henri de Valenciennes istituzionalizzò questa pratica nel 1800, con la pubblicazione del suo trattato sulla prospettiva e la pittura di paesaggio ad uso degli studenti dell’Accademia.
Gli studi d’après nature, cioè dal vivo, realizzati di fronte ad una natura scrutata senza filtri e per non più di due ore, data la costante mutabilità della luce solare, erano indispensabili per studiare i toni, le sfumature, le condizioni atmosferiche circostanti. Il pittore inoltre raccomandava di “dipingere la stessa veduta in ore diverse del giorno, osservare le differenze prodotte sulle forme dalla luce. I cambiamenti sono così sensibili e stupefacenti da rendere difficile il riconoscimento dei medesimi soggetti”.
La velocità di esecuzione di simili studi su carta, di modeste dimensioni e di formato orizzontale, era dettata anche da una necessità pratica. In questo periodo di passaggio verso l’età contemporanea e i suoi progressi in campo chimico, i colori ad olio, ossia pigmenti macinati e mescolati artigianalmente con olio di lino, noce o papavero, che garantivano la trasparenza e la brillantezza tipici della tecnica in questione, erano ancora conservati all’interno di vesciche di origine animale, fragili e scarsamente ermetiche, così da provocare la rapida essiccazione dei colori stessi, rendendone impossibile l’utilizzo. Dato che l’acquerello non era più sufficiente alle dettagliate notazioni di tono e colore di Valenciennes, era certamente scomodo dipingere all’aperto in tali condizioni. Occorreva che gli artisti, prima di lasciare l’atelier, prevedessero, con un calcolo attento, tutto il materiale di cui avrebbero avuto bisogno una volta en plein air, da sistemare accuratamente nelle primissime cassettine per la pittura all’aperto, il cui coperchio sollevato fungeva da cavalletto.
Immagini tratte da:
www.photo.rmn.fr
1 Commento
Nicolò Maurantonio
4/2/2019 17:46:46
Un articolo molto interessate. Particolari inediti, descrizioni brillanti.Complimenti
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