Il parigino Jean-Baptiste-Camille Corot fin da giovanissimo desiderava ardentemente dedicare la sua esistenza alla pittura. Inizialmente ostacolato dal padre, che lo avrebbe voluto commerciante nella redditizia attività familiare, Corot poté iniziare la propria formazione artistica nel 1822, all’età di ventisei anni. Si iscrisse alle lezioni di Achille-Etna Michallon e di Jean-Victor Bertin, allievi a loro volta del maestro paesaggista Valenciennes, inserendosi nel solco della tradizione della pittura di paesaggio, improntata sugli studi eseguiti all’aperto. I numerosi schizzi e disegni che Corot realizzò nel corso della sua vita suggeriscono che non abbandonò mai i modelli e le forme neoclassiche, ma contemporaneamente intese la pratica en plein air come il fulcro del suo apprendistato. In contrasto con alcuni passi del trattato di Valenciennes, Corot sosteneva che “si deve essere rigorosi di fronte alla natura e non accontentarsi di uno studio affrettato”. I suoi schizzi d’après nature si fecero sempre più minuziosi nella resa dei dettagli e la loro cromia assunse le caratteristiche definitive dell’opera compiuta. Il primo viaggio che il pittore intraprese in Italia, nel 1825, fu illuminante per la sua futura produzione. I caldi e soleggiati scorci della penisola, che già da tempo avevano rapito artisti provenienti da tutta l’Europa, divennero i soggetti di coppie o trittici di varianti della medesima veduta, dipinte seguendo il moto discendente del sole nell’arco della giornata.
Questi studi di frequente venivano rifiniti in atelier, conferendo loro la dignità di un quadro, mentre le opere destinate alle esposizioni ufficiali, si caratterizzarono per nuova freschezza e naturalismo.
Al rientro in Francia, Corot smise di considerare la pittura en plein air come mero esercizio dell’occhio e della mano, inaugurando una nuova tradizione per il paesaggio francese, condivisa da un nascente gruppo di giovani pittori, liberi per motivi anagrafici dai vincoli accademici del paesaggio storico e riuniti da grande amicizia e stima reciproca. Conosciuti con il nome di Scuola di Barbizon – anche se mai si diedero un’organizzazione ”scolastica” – dall’omonimo villaggio ai confini della pittoresca foresta di Fontainebleau, Théodore Rousseau, Charles-François Daubigny e molti altri riscoprirono la natura in modo autentico e indipendente da ogni convenzione. Ciascun artista barbizonniers “individuava nella natura solo le componenti che rispondevano al proprio temperamento e si accontentava di andare alla ricerca di una sola nota peculiare, la propria”, secondo le parole dello storico dell’arte John Rewald.
Nel corso dell’Ottocento la Rivoluzione industriale promosse notevoli sviluppi anche nel settore chimico. La scoperta di nuovi elementi rese possibile l’invenzione di numerosi pigmenti. Arancione di cromo, giallo di cadmio (detto giallo limone), blu cobalto, verde smeraldo, rosso magenta, violetto oltremare passarono ben presto, grazie alla loro stabilità e purezza, dall’impiego nell’industria tessile alle tavolozze dei pittori, ma in una veste innovativa. Per contenere i colori, già preparati e pronti all’uso, la ditta britannica Winsor & Newton mise a punto prima una sorta di siringa di vetro, quindi, nel 1841, il tubetto in stagno, flessibile e con l’ermetica chiusura a vite, così da poterli conservare permanentemente. Di conseguenza cambiarono le modalità di stesura dei colori stessi sulle tele, con l’introduzione dei pennelli con ghiera metallica e delle spatole. La pittura subì una radicale trasformazione: più tardi, Vincent Van Gogh finirà per spremere il tubetto direttamente sulla tela, “modellandovi” il colore con l’ausilio del pennello.
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