L’opera dello scultore fiammingo Jean Boulogne, in italiano abbreviato in Giambologna, può essere considerata come l’anello di congiunzione tra l’arte di Michelangelo, la cui morte ormai prossima andava a chiudere la grande stagione rinascimentale, e quella di Gian Lorenzo Bernini, l’enfant prodige che, con le sue straordinarie abilità tecniche e inventive, avrebbe tramutato in scultura le maggiori novità apportate precedentemente nel campo della pittura, inaugurando l’età del Barocco. Nato a Douai nel 1529, pochissimo si conosce circa l’apprendistato compiuto in patria da Giambologna, mentre è certa la sua presenza a Roma tra il 1550 e il 1552, come ricorda uno dei suoi principali biografi coevi, Raffaello Borghini, nel trattato d’arte Il Riposo, del 1584. Sulla via del ritorno, Giambologna si fermò a Firenze per completare la sua formazione: vi restò fino al termine della sua vita, nel 1608, accolto “molto in grazia de’ nostri prìncipi per le sue virtù”, secondo Vasari, “giovane veramente rarissimo”, che in qualità di scultore lavorò alla corte del granduca Cosimo I de’ Medici, e poi dei suoi due figli Francesco e Ferdinando I, incarnando gli ideali di eleganza, virtuosismo e difficoltà, caratteristici del Manierismo.
A differenza di Michelangelo, che considerava pertinente all’ambito della scultura solo quella ottenuta “per via di levare”, ossia quella in marmo, Giambologna – e con lui anche Benvenuto Cellini - riportò in auge la scultura “per via di porre”, modellando in cera e in argilla opere che sarebbero state fuse in bronzo. È il caso della monumentale Fontana di Nettuno, destinata alla piazza di San Petronio a Bologna (oggi piazza Maggiore), che segnò l’esordio pubblico dello scultore. Celeberrima è la versione conservata al Museo del Bargello di Firenze del Mercurio, che sembra spiccare il volo, sospinto dallo sbuffo d’aria emesso dalla personificazione del vento Zefiro, funzionale come piedistallo.
Tuttavia, il massimo capolavoro del Giambologna è senza dubbio il gruppo marmoreo raffigurante il Ratto delle Sabine, tratto dall’episodio, in bilico tra mito e storia, del rapimento, ordinato da Romolo, di giovani donne appartenenti alla popolazione laziale dei Sabini, con le quali i Romani si sarebbero in seguito uniti per popolare la loro città di recente fondazione.
Sempre Borghini racconta che la complessa scultura non fu realizzata su commissione da Giambologna: lo scultore realizzò il complesso scultoreo per dimostrare agli artisti invidiosi, i quali lo ritenevano capace solo di lavorare opere in metallo, che “egli non solo sapea far le statue di marmo ordinarie, ma eziando molte insieme, e le più difficili, che far si potesse”. Il titolo stesso del gruppo fu attribuito a posteriori da alcuni eruditi: allo scultore interessava esclusivamente la realizzazione di un insieme di figure intrecciate, vorticose e “serpentinate”, come lingue di fuoco che seguono un moto improvviso, tumultuoso e ascensionale. Giambologna andò oltre il solenne e drammatico spiritualismo di Michelangelo, conferendo alle sue opere l’idea del movimento, che sarà più tardi condotta ai massimi risultati dal giovane Bernini nel suo Ratto di Proserpina, opera ormai lontana dai precetti del Manierismo e capace di porre, con maggiore enfasi, l’accento nel solco del “vero”. Giambologna riuscì nel suo intento di stupire l’osservatore, tanto che il granduca Francesco de’ Medici volle collocare il gruppo in una posizione di grande prestigio, ove è possibile ammirarla ancora oggi: al di sotto della Loggia dei Lanzi, in Piazza della Signoria a Firenze, simmetricamente in dialogo con il Perseo di Benvenuto Cellini.
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Gennaio 2022
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