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27/11/2017

Giuditta e Oloferne: seduzione, inganno e sangue

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Di Olga Caetani ​
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La produzione giovanile di Caravaggio si conclude con un dipinto che rappresenta la prima narrazione realmente violenta e drammatica del pittore, secondo le parole della storica dell’arte Mina Gregori. L’episodio dell’Antico Testamento ci racconta che Giuditta, giovane e casta vedova ebrea, offre se stessa per liberare il suo popolo dagli Assiri, introducendosi di notte nell’accampamento nemico e uccidendo, in nome di Dio, il generale Oloferne, dapprima seducendolo, grazie alla straordinaria bellezza che è consapevole di poter vantare, quindi, una volta stordito dall’ebbrezza del vino, decapitandolo brutalmente. L’implicita autorizzazione divina alla base delle gesta dell’eroina biblica non cessava di istillare qualche dubbio nei Padri della Chiesa: pur mossa da una nobile causa, l’intera azione è perpetrata da Giuditta con menzogna e inganno, e non senza una certa erotica ambiguità. Nei secoli, l’episodio fu interpretato come allegoria della Virtù che sconfigge il Vizio, costituendo un soggetto ricorrente in pittura e scultura, e tra il Cinque e il Seicento divenne trama di molte opere teatrali. Caravaggio risolve la composizione facendo sì che lo spettatore si trovi dinanzi a una scena di teatro, nella quale l’unico elemento scenografico è rappresentato dal pesante drappo di velluto vermiglio, che si fonde con la drammatica e impenetrabile oscurità dello sfondo. 
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​Il volto di Giuditta - i cui tratti sono stati identificati con quelli dell’amante di Caravaggio, la cortigiana Fillide Melandroni, che gli fece da modella anche per la Santa Caterina Thyssen e la Maddalena di Detroit – è presentato in tutta la sua sfolgorante bellezza, e la sua fronte è soltanto un poco corrugata, nonostante la sovrumana violenza dell’atto che sta compiendo. La sua mano sinistra, con la forza di un uomo, afferra impietosa la testa di Oloferne per i capelli, strattonandola per dilatare ulteriormente la ferita mortale che gli sta infliggendo con la spada.  Il sangue sprizza dalle arterie e dalle carotidi appena recise del collo, inzozzando le lenzuola, alle quali il generale si appiglia invano nel suo ultimo soffio vitale. Le pupille rovesciate all’indietro e la bocca aperta in un urlo ormai afono ne decretano la morte. 
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L’anziana serva Abra è pronta ad accogliere la testa mozzata della vittima. Tuttavia, sembra ricoprire il ruolo della mezzana, in questa scena resa conturbante e perversamente sensuale dal contrasto tra l’atemporale e impassibile bellezza di Giuditta e la sanguinosa decapitazione. L’esame dell’opera ai raggi X ha evidenziato che Caravaggio inizialmente aveva pensato di raffigurare la giovane donna a seno nudo. Nella versione finale l’ha discretamente coperta, ma il corpetto slacciato dell’abito di broccato mostra la candida camicia sottostante, che traspare e aderisce ai seni turgidi, tradendo un certo grado di eccitazione sessuale. Anche per questo motivo, probabilmente, il dipinto costituiva l’acme più prezioso della collezione del conte Ottavio Costa, il quale, per pudore altrui, lo custodiva velato da una cortina di seta, secondo le testimonianze dell’epoca. Inoltre, egli, gelosamente, fece imprimere le proprie iniziali sul retro della tela, ordinando agli eredi, nel suo testamento del 1632, di non alienarlo per nessun motivo dal resto del proprio patrimonio. Ancora oggi, senza dubbio, l’opera è capace di suscitare grande ammirazione e destare un malizioso interesse, dato dalla presenza di una nudità solo intravista e mai volgarmente esplicitata.
 
Immagini tratte da:
wikipedia.it, pubblico dominio
www.cultura.biografieonline.it
www.italianways.com

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