“ […] Così succede per il Laocoonte che è nel palazzo di Tito, opera superiore a ogni altra, tanto di pittura che bronzea. Lo scolpirono, secondo un comune accordo, i sommi artisti Rodii Hagesandros, Polydoros, Athenodoros, ritraendo in un sol blocco Laocoonte stesso e i figli e le mirabili spire dei serpenti.”
È con queste parole che Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, descrive una delle statue antiche maggiormente conosciute: il Laocoonte. Questo unico blocco di marmo venne riportato alla luce il 14 gennaio 1506, a Roma, e venne immediatamente riconosciuto come il Laocoonte. Oggigiorno gli studiosi sono divisi in due scuole di pensiero: alcuni ritengono che la statua sia un’opera originale, creata a Rodi nel I sec.a.C.; altri credono che sia una copia di età romana eseguita da tre copisti Agesandro, Polidoro e Atenodoro di un originale in bronzo di epoca anteriore.
Il mito narra che il sacerdote Laocoonte si oppose all’entrata del cavallo nella città di Troia, ma proprio per questo motivo trovò la morte. Leggiamo le parole di Virgilio (Eneide, II) vv. 40-57:
“ Per primo accorre, davanti a tutti, dall’alto della rocca Laocoonte adirato, seguito da una grande turba; e di lungi: <<Sciagurati cittadini, quale così grande follia? Credete partiti i nemici? O stimate alcun dono dei Danai (Greci) privo di inganni? Così conoscete Ulisse? O chiusi in questo legno si tengono nascosti Achei, o questa macchina è fabbricata a danno delle nostra mura, per spiare le case e sorprendere dall’alto la città, o cela un’altra insidia: Troiani, non credete al cavallo. Di qualunque cosa si tratti, ho timore dei Danai anche se recano doni>> Disse, e avventò con vigore gagliardo la grande asta al fianco della fiera ed al ventre dalle curve giunture […] E se i fati degli dei, se la nostra mente non era funesta, egli ci aveva sospinti a violare il nascondiglio argolico con il ferro; oggi Toria si ergerebbe, e tu, alta rocca di Priamo, dureresti ancora”.
La statua rappresenta il momento della morte di Laocoonte e dei suoi due figli dai caratteri altamente drammatici.
A sinistra il figlio più piccolo è in una posa di totale abbandono con la testa reclinata all’indietro, ormai non ha più la forza per allontanare il mostro marino e di lì a poco morirà; l’altro figlio, sulla destra, è sul punto di liberarsi (infatti in una versione secondaria della guerra di Troia si narra che riuscirà a mettersi in salvo). Il suo dolore e la sua paura vengono manifestati dalla fronte corrugata e dalle sopracciglia abbassate. Laocoonte, ancora seduto sull’altare, viene avvolto da uno dei serpenti mandati da Poseidone, con la mano sinistra tenta di allontanare il serpente che lo sta mordendo all’altezza dell’anca. La testa è reclinata lateralmente, le sopracciglia sono contratte e abbassate, la fronte corrugata, e la bocca aperta per “emettere orrendi clamori alle stelle”. Gli occhi, inseriti in cavità orbitali profonde, sono rivolti in alto ed esprimono, insieme al resto, il dolore e la drammaticità del momento.
Anche questa scena è bellamente descritta nell’Eneide, II, vv. 199-223:
Qui un avvenimento, più grande È molto più orrendo, si offre agli sventurati, e turba i cuori sorpresi. Laocoonte, sacerdote tratto a sorte a Nettuno, immolava un grande toro presso le are solenni. Ma ecco da Tenedo, in coppia per le profonde acque tranquille - inorridisco a raccontarlo- due serpenti con immense volute incombono sul mare, e parimenti si dirigono alla riva; i petti erti tra i flutti e le creste sanguigne sovrastano le onde; tutta l’altra parte sfiora il mare da tergo e incurva in sprire gli enormi dorsi; scroscia il gorgo schiumante. E già approdavano, e iniettati di sangue e di fuoco gli occhi che ardevano, lambivano con lingue vibrate le bocche sibilanti. Fuggiamo esangui a quella vista. I serpenti con marcia Sicura si dirigono su Laocoonte; e prima l’uno e l’altro Serpente avvinghiano i piccoli corpi dei due figli E li serrano, e a morsi si pascono delle misera membra; poi afferrano e stringono in grandi spire lui che sopraggiunge in aiuto e brandisce le armi; avvintolo due volte alla vita, e attortisi al collo due volte con le terga squamose, sovrastano con il capo e con le alte cervici. Egli si sforza di svellere i nodi con la forza delle mani, cosparso le bende di sangue corrotto e di nero veleno, e leva orrendi clamori alle stelle […]
Come dice Salvatore Settis: “E’ una tensione che viene come dall’interno, che gonfia i muscoli o i nervi, come corde d’arco, quasi dovesse esplodere, con l’urlo inevitabile, nell’istante che verrà”
Bibliografia:
Settis S., Laocoonte: forma e stile, Roma, 1999
Immagini tratte da:
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