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20/12/2016

Michelangelo e il “non finito”: la voce dell’interiorità

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di Ilaria Ceragioli
Nella seconda metà del ‘400 nacque colui che, di lì a poco, sarebbe diventato uno degli artisti più celebri e stimati del Rinascimento italiano: Michelangelo Buonarroti. Senza esitazione possiamo definirlo un artista “completo” in quanto, in un’unica persona, seppe abilmente incarnare ben quattro diverse professioni: quella di pittore, di scultore, di architetto e addirittura di poeta. Un artista, ma ancor prima un uomo geniale segnato da un temperamento irascibile e inquieto e terribilmente incline all’insoddisfazione personale e al tormento interiore. Un carattere incostante e instabile che emergerà vigorosamente anche in molti soggetti da lui scolpiti. Si tratta, infatti, di figure mascoline che spesso e volentieri Michelangelo lascia volutamente abbozzate o incompiute. Da questa “imperfezione” l’artista fu ideatore e promotore di una vera e propria tecnica: il “non finito”. Una tecnica che cela significati di ardua interpretazione suscitando nella critica e nello spettatore profonde suggestioni e riflessioni psicologiche.
In merito a questa tecnica michelangiolesca, nel 1853, il celebre pittore del Romanticismo francese, Eugène Delacroix, scriverà: “Una parte dell’effetto prodotto dalle statue di Michelangelo è dovuto a certe sproporzioni oppure alle parti incompiute, che accrescono l’importanza di quelle finite.” E aggiunge: “Mi sono detto spesso che, nonostante l’opinione che egli poteva avere di sé, Michelangelo è più pittore che scultore. Nella sua scultura egli non procede come gli antichi, cioè per masse; sembra sempre che abbia tracciato un profilo ideale, che ha in seguito riempito, come fa un pittore. Si direbbe che la sua figura o il suo gruppo gli si presenti solamente sotto una faccia: come a un pittore.”
L’attitudine ad una brusca, ma al tempo stesso, affascinante incompiutezza dei marmi da parte di Michelangelo risulta emblematica soprattutto nell’osservazione di alcune opere. Eloquente, di fatto, è l’esempio delle quattro figure dei Prigioni (1513-1515) o Schiavi custodite presso la Galleria dell’Accademia a Firenze.

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Michelangelo aggredisce violentemente il blocco di marmo dal quale emergono faticosamente le possenti figure degli schiavi. L’immenso peso della materia dalla quale, in vano, tentano di liberarsi sembra così schiacciarli e intrappolarli. I loro corpi si contorcono e si divincolano energicamente, ma il movimento resta in qualche modo contenuto poiché sopraffatto da forze maggiori e incontrollabili che impediscono agli uomini di sprigionare la loro forza, o per meglio dire, la loro volontà di fuoriuscire dal blocco e prendere finalmente vita. Pathos e un’estrema drammaticità avvolgono così i 4 schiavi imprigionati nel gelido e ruvido marmo.
Il “non finito” caratterizza anche altre opere molto note, come il San Matteo (1504-1506) e la più tarda Pietà Rondanini (1552-1564).



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Nel San Matteo la figura abbozzata dell’apostolo compie una leggera torsione quasi come se stesse per emergere dal blocco marmoreo. Il movimento, tuttavia, seppur trattenuto risulta più composto, meno sofferto e tragico.

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Nella Pietà Rondanini, realizzata quando Michelangelo aveva ormai 80 anni, l’artista alterna parti finite a parti lasciate volutamente incompiute, frutto dei suoi frequenti ripensamenti. Il volto e le braccia di Cristo sono soltanto abbozzati. Inoltre, Maria non sembra più sorreggere il corpo privo di vita del figlio, bensì sembra abbracciarlo teneramente seppur con evidente difficoltà data dal peso che fa scivolare il corpo di Cristo verso il basso.
La pietra bruta, non levigata diventa così per Michelangelo l’immagine più rappresentativa dei contrasti tra spirito-corpo, forma-materia e vita-morte. La ruvidezza della superficie marmorea, dunque, diviene un nuovo ed efficace stratagemma attraverso cui l’artista dà voce alla sua interiorità.
Lo storico dell’arte tedesco Panofsky di fronte a capolavori tanto misteriosi quanto affascinanti sostenne che essi suscitavano l’idea di un conflitto interiore senza fine vissuto e, al tempo stesso, combattuto dall’artista. Tuttavia, fu proprio grazie a quest’anima indocile e straziata che il sommo Michelangelo riuscì a dare vita a sculture di immensa bellezza dal successo planetare e permanente.

Immagini tratte da:
- Quattro Prigioni, altervista.org
- Quattro Prigioni dettaglio,gonews.it
- San Matteo, wikipedia, pubblico dominio, voce: San Matteo
- San Matteo particolare, wikipedia, pubblico dominio, voce: San Matteo
- Pietà Rondanini, francescomorante.it
- Particolare Pietà Rondanini, www.cbccoop.it

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Ravecca Massimo
2/4/2017 11:25:23

l "non finito" è la caratteristica del genio. Come il "non luogo", il "non nome", ecc... L'astuto Ulisse crea un "non nome", Nessuno, per ingannare Polifemo, e un "non luogo", il cavallo di legno, per ingannare i troiani. Queste entità frutto di processi ricorsivi, inclusivi, speculari sono state usate anche da Gesù e Michelangelo. Quest'ultimo nella scultura diede origine al termine. L'Adorazione dei Magi di Leonardo da Vinci è un "non finito" e non un opera incompleta, perché l'autore si ritrasse sul bordo destro (per chi guarda), mentre si dirigeva a Milano. Si rappresentò mentre usciva dal quadro. Cfr. Ebook/Kindle. Leonardo e Michelangelo: vita e opere.


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