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3/5/2016

Quando il dolore diventa arte

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di Antonio Monticolo
Oggi affronteremo un tema assai particolare e affascinante: il dolore legato al lutto. Precisamente ci occuperemo di come questo tipo di dolore venisse rappresentato iconograficamente nell’arte greca. I gesti e la mimica facciale sono gli indicatori principali per la sua raffigurazione. I gesti rappresentati sono molteplici e numerosi.
Uno dei primi esempi è l’anfora del Dipylon 804 rinvenuta ad Atene e databile tra il 760-750 a.C. Ci troviamo di fronte ad una scena di próthesis (esposizione del defunto). Intorno alla klíne (letto) vi sono numerose figure, alcune hanno entrambe le mani alla testa e altre sono rappresentate nel gesto del kopetòs alternato, ovvero il gesto di  battersi ripetutamente il capo con le mani.

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Un altro gesto è quello di tagliarsi una ciocca di capelli per donarla al defunto, quello di porsi una sola mano sulla testa o quello di toccare con una mano il defunto per un ultimo contatto come si può vedere su una Hydría del 575-570 a.C.
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Ma qual è la funzione di questi gesti?
C’è da dire innanzitutto che i gesti propri del dolore legato al lutto, che si ritrovano rappresentati su anfore, crateri, kýlikes (vasi per bere), pínakes (tavolette), ecc., rientrano all’interno di un rito. Il rito funebre era un momento importantissimo in quanto permetteva ai sopravvissuti di superare lo strazio. È il mezzo attraverso il quale si effettuava il distacco dal morto e si riusciva ad accettare la separazione dal defunto. I gesti servivano ai sopravissuti per esternare in modo controllato il loro dolore. Infatti i danni che un dolore acuto può procurare sono due: l’ebetudine stuporosa che blocca la psiche delle persone e il planctus irrelativo, ovvero la volontà autolesionistica dei sopravvissuti per assumere la stessa condizione del defunto. In questo ultimo caso i vivi si strappano i capelli, si graffiano il viso e si battono il petto.
Il gesto del kopetós, ad esempio, rappresenta la soluzione simbolico - rituale delle volontà autolesionistiche del planctus irrelativo.
Inoltre anche la mimica facciale è un indicatore del dolore. Sui volti dei vivi possiamo notare gli angoli delle labbra rivolti verso il basso e le sopracciglia contratte e abbassate che denotano un senso di angoscia e di silenzioso dolore.

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Come si è potuto vedere dalle immagini sono soprattutto le donne a compiere i gesti più forti e più drammatici. Ma perché? Le donne, con il passare del tempo e con la suddivisione dei compiti (lavare il defunto, vestirlo, profumarlo) erano diventate la sole che potevano lasciarsi andare a lamenti violenti ed esagerati. Gli uomini in genere erano rappresentati nel gesto di una sola mano sulla testa, gesto non violento come quello delle due mani, oppure con il braccio destro alzato per ricevere i saluti e le condoglianze di coloro che venivano a porgere un ultimo saluto al defunto come si può vedere su un pínax del 560-550 a.C.

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Dunque i gesti e la mimica facciale erano gli espedienti che venivano utilizzati dai ceramografi e dagli scultori per rappresentare il dolore legato al lutto. Dolore che avvicina tutti gli uomini di tutte le epoche. Basti pensare che nel Sud Italia questo tipo di rito è rimasto in uso fino agli anni '60-’70 del novecento.
Per saperne di più:
- Marta Pedrina, I gesti del dolore nella ceramica attica (VI-V sec. a.C.)
- Ernesto De Martino,  Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria
Immagini tratte da:
- Anfora 804: www.pinterest.com
- Hydria: wikipedia, Bibi Saint-Pol, 21 luglio 2007, pubblico dominio.
- Lekythos: www.gettyimages.it
- Pinax: wikipedia, pubblico dominio

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