Sebastiano Luciani, meglio conosciuto come Sebastiano del Piombo, in virtù del titolo di piombatore pontificio, ossia di addetto alla cancelleria vaticana, di cui lo investì Clemente VII de’ Medici, a testimonianza del riguardo e dell’ammirazione che il papa gli riservò durante tutta la sua carriera di pittore, in realtà, nei secoli successivi, non sempre godette della medesima fortuna critica. Giorgio Vasari, per esempio, a pochi anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel 1547, lo considerò un mero surrogato di Michelangelo: vediamone le ragioni. Sebastiano nacque nel 1485 circa a Venezia, e, come Tiziano, si formò presso Giovanni Bellini e poi Giorgione, dal quale apprese la tecnica, squisitamente veneziana, della pittura tonale, ottenuta attraverso la giustapposizione di velature, capaci di rendere al meglio i passaggi chiaroscurali e di tono, appunto, creando l’illusione della profondità.
Il ricco e potente banchiere senese Agostino Chigi, durante un viaggio diplomatico nella città lagunare, non poté fare a meno di notare il virtuosismo del giovane allievo di Giorgione, tanto da portarlo con sé a Roma, affidandogli parte della decorazione della loggia di Galatea, nella sua villa di Trastevere. Dopo averne affrescato le lunette, con scene tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, Sebastiano, nel 1512, passò alla raffigurazione di un altro mito narrato dal poeta latino, quello dell’amore non corrisposto di Polifemo per la bellissima ninfa marina Galatea. Il possente ciclope, dipinto alla maniera “michelangiolesca”, macchiatosi del sangue di Aci, l’amante della ninfa, si volge verso il mare alle sue spalle, osservando con disperazione il Trionfo di Galatea, simbolo della vittoria dell’amore puro sulle ferine pretese del mostro, realizzato poco dopo non da Sebastiano, bensì da Raffaello.
Questa duplice committenza da parte di Chigi mirava a inasprire la competizione tra i migliori pittori sulla scena artistica del tempo. Il confronto non ha pari: Raffaello scelse di rompere la possibile continuità tra i due affreschi attigui, alterando la prospettiva della linea dell’orizzonte, e, di conseguenza, la logica della narrazione. Quello stesso anno, inoltre, si ebbe il compimento della volta della Sistina e di gran parte delle Stanze Vaticane, così che Sebastiano visse personalmente i pettegolezzi e le discettazioni del pubblico circa l’attribuzione del primato della pittura, conteso, in un incandescente clima di rivalità, tra il superbo Michelangelo e il divino Raffaello. Il comune antagonismo nei confronti di quest’ultimo condusse alla nascita di un felice sodalizio pittorico tra Sebastiano e Michelangelo, il quale, “accusato” di aver impiegato per la Sistina una tavolozza ancora troppo legata al Quattrocento fiorentino, fornì numerosi disegni preparatori e invenzioni compositive, che, poi, il veneziano seppe animare con il suo sapiente uso del colore. Uno dei frutti di questa “alleanza” è la magnifica Pietà di Viterbo.
Il livido corpo di Cristo, che giace ai piedi della Madre, sottolinea il distacco e la solitudine della morte, mentre lo sguardo di Maria è tutto proiettato verso la speranza di salvezza e resurrezione, palpabile nella tensione delle mani giunte. L’iconografia costituisce un’evoluzione rispetto a quella della Pietà scolpita dallo stesso Michelangelo, mentre le rovine e il notturno dello sfondo, che con i suoi fiammeggianti bagliori crepuscolari partecipa allo straziante dolore della scena, risentono dei paesaggi della pittura veneta.
Se questa innovativa e stimolante simbiosi artistica può aver posto Sebastiano in una posizione subordinata rispetto alla fama immortale di Michelangelo, è importante rileggere la sua opera alla luce dell’influenza che ebbe su alcuni artisti successivi, come Giulio Romano e Caravaggio.
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Gennaio 2022
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