Barack Obama, a valigie già pronte, conclude il mandato con alcuni atti insoliti. Quali e perché
Fra meno di tre settimane (il 20 gennaio), Donald Trump assumerà la carica di Presidente degli Stati Uniti d’America e il suo predecessore Barack Obama “andrà in pensione”. Una pensione di lusso, considerando che si tratta di un presidente uscente molto giovane: lo aspettano anni di conferenze, autobiografie, discorsi pubblici ben pagati, e forse anche uno o due mandati da first gentleman, se la moglie Michelle riuscirà in ciò in cui Hillary Clinton ha fallito. Di solito, durante gli ultimi mesi di mandato, il presidente uscente non compie scelte molto significative, perlomeno se la situazione lo permette. Non lo consentì quella del 2008, quando George W. Bush fu costretto ad approvare l’Emergency Economic Stabilization Act, un corposo provvedimento legislativo che tentava di limitare le catastrofiche conseguenze della crisi dei mutui subprime, a meno di un mese dalle elezioni. Oggi, la situazione economica americana – che sia o meno merito di Obama – è molto migliorata da allora, per cui non ci saremmo aspettati grandi “colpi di coda”. Eppure, proprio le cronache di quest’ultimo ritaglio di dicembre hanno avuto per protagonista il presidente uscente. Vediamo in che modo. Tra il 21 e il 28 dicembre sono stati approvati due provvedimenti molto significativi in tema ambientale: sono state vietate le trivellazioni per estrarre petrolio o gas naturale in alcune aree dell’Artico e dell’Oceano Atlantico (grazie ad una legge del 1953) e sono state istituite due nuove aree protette in Utah e Nevada. Tenendo conto delle posizioni espresse da Trump a riguardo, si tratta di scelte esplicitamente indirizzate a provocare il presidente eletto; specialmente la prima, approvata congiuntamente al premier canadese Justin Trudeau. Il 23 dicembre scorso, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione, la numero 2334, in cui si parla dei Territori occupati in Palestina, e si definiscono gli insediamenti israeliani una “flagrante violazione” della legge internazionale, “priva di valore legale”. Israele dovrebbe “chiudere gli insediamenti e rispettare gli obblighi da paese occupante previsti dalla quarta Convenzione di Ginevra”. Risoluzioni come questa, capirete, sono poco più che un auspicio, un po’ come i consigli della nonna quando ci dice “non andare forte con la macchina”. L’aspetto significativo di questo voto, tuttavia, riguarda come è avvenuto: gli Stati Uniti non hanno votato contro, facendo saltare tutto grazie al diritto di veto, ma si sono semplicemente astenuti. Gli altri quattordici paesi, vale a dire Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Angola, Egitto, Giappone, Malaysia, Nuova Zelanda, Senegal, Spagna, Ucraina, Uruguay e Venezuela, hanno votato a favore. Israele è stata abbandonata dal suo principale alleato, gli USA, probabilmente per i contrasti emersi tra Benjamin Netanyahu e il Segretario di Stato americano John Kerry durante gli ultimi anni. Obama sapeva, e non lo ha impedito. Del resto, si trattava di un momento propizio: la risoluzione non ha effetti concreti e fra tre settimane si insedia il filo-israeliano Trump. Quale migliore occasione per levarsi un sassolino dalla scarpa? Infine, i fatti di venerdì. Obama ha firmato nuove sanzioni contro la Russia e l’espulsione di 35 diplomatici russi dal territorio americano, con l’accusa di essere membri dei servizi segreti e di aver operato per sabotare le elezioni di novembre. Che ci sia stato l’intervento di Mosca nelle presidenziali 2016 è molto probabile. Meno prevedibile, una reazione così dura, che tuttavia appare ben calcolata. Trump si è dichiarato un ammiratore di Vladimir Putin, e nel giro di poche settimane può annullare il provvedimento. Non è casuale che l’unica ritorsione adottata dalla Russia sia stata la chiusura della scuola anglo-americana di Mosca. Come a dire: “abbiamo capito che era una provocazione”. Un’ultima puntura di spillo prima del cambio della guardia. Negli stessi giorni (27 dicembre), si è svolta alle Hawaii, terra d’origine di Obama, una cerimonia in memoria dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, nel 1941. Per la prima volta, era presente in via ufficiale il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, a ricambiare quanto accaduto il 27 maggio con la visita del presidente USA ad Hiroshima. In entrambi i casi, il maggior rappresentante del paese che ha causato morte e distruzione (il Giappone a Pearl Harbor, gli USA ad Hiroshima) non ha chiesto perdono. Agire e non agire. Punzecchiare, sapendo che le proprie decisioni saranno ribaltate sul breve periodo. Andare in visita e non chiedere scusa. Per un presidente che era stato eletto sull’onda dell’entusiasmo, con lo slogan “Yes, we can”, è un ben misero finale. “Avremmo potuto fare”, semmai. Immagini
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Novembre 2020
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