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6/3/2017

Il resto: spunti di dibattito sull’eutanasia.

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di Lorenzo Alemanno


Eu. Bene.

Thanatos. Morte.


La parola che scaturisce da questi due termini greci rappresenta forse l’accostamento più ardito che una lingua possa fare. Inconcepibile associare questi due concetti, ancor di più se ci muoviamo nel background culturale paracattolico che conforma la morale pubblica. Pertanto ci vuole coraggio per parlarne.

Il dibattito in merito all’eutanasia dev’essere ripulito da sovrastrutture religiose perché uno Stato laico non può tollerare alcuna deformazione teologica nella produzione e applicazione delle sue leggi. Non è un caso, dunque, che i Paesi dove era o è maggiore la distanza dai precetti strettamente ecclesiastici si siano dotati di una legislazione sul fine vita già da molti anni: senza arrivare a esempi estremi come l’URSS che depenalizzò la pratica dell’eutanasia già nel 1922, in tempi recenti Paesi democratici come la quasi totalità di quelli europei hanno dato ampio spazio alle diverse forme di eutanasia. Attualmente solo in Belgio e Olanda è ammessa la forma più estrema, ovvero l’eutanasia attiva, mentre nella stragrande maggioranza d’Europa è consentita solo quella passiva. Differenza fondamentale tra le due forme è l’attività terapeutica: in quella attiva la morte viene indotta dal personale medico, nell’altra vi è solo un’astensione dall’accanimento curativo che determina il medesimo effetto.

Il nostro Paese, insieme al Portogallo, alla Repubblica Ceca e alla Polonia, non consente la possibilità di procedere all’arresto delle cure in caso di malattie terminali: il dibattito c’è eccome, ma non si è mai pervenuti ad una regolamentazione della materia tanto è vero che, secondo Wikipedia, versiamo in uno stato di “ambiguità” della legislazione. Invero gli articoli 575, 579 e 580 del codice penale, allo stato dell’arte, sembrano ostacolare la pratica. Due isolate sentenze della Cassazione nel 2007 e nel 2008 hanno – con estrema cautela – consentito l’interruzione delle cure su pazienti in stato vegetativo i cui processi vitali di base (respirare, nutrirsi) avvenivano solo tramite macchinari. Casi estremi ed isolati insomma.
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Il dibattito dell’attualità costringe ad interrogarci in maniera definitiva sull’argomento. Troppi i casi mediatici, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro, Elena Moroni e, da ultimo, Fabiano Antoniani – noto come Dj Fabo. Ma tanti anche i casi molto meno noti; malati terminali, impossibilitati a provvedere da soli alla fine delle proprie sofferenze. Il nocciolo della questione pare essere questo. I reati penali sopracitati (rispettivamente omicidio volontario, omicidio volontario del consenziente ed istigazione al suicidio) appaiono solo forzatamente applicabili alle fattispecie in questione. Tuttavia restano, se applicati pedantemente, ostacoli insormontabili. Lungi da ogni opinione, che è e resta intima e privata soprattutto su argomenti personalissimi, il dibattito dovrebbe trovare un coagulo nel principio di libertà. Un individuo, per qualsiasi disparata ragione, intima e cosciente, può decidere da sé di togliersi la vita. Può salire sul cornicione di un palazzo e decidere. Decidere. Decidere. E nessuno è autorizzato a sindacarne i motivi, abissi psicologici la cui esplorazione è inopportuna fin dal più timido principio di conoscenza. A un individuo che invece ha non solo dei motivi soggettivamente validi ma soprattutto oggettivamente apprezzabili (nel senso di valutabili dall’esterno), quali la fine di una sofferenza fisica e psicologica continuata e destinata a non avere termine, tale facoltà viene negata. Solo perché incapace di riuscirci da solo. Anche ai lettori a digiuno di concetti giuridici apparirà chiarissima la differenza di manipolazione della volontà dell’individuo, col sistema penale che gioca a fare Dio con i più deboli. Tralasciando i deliri di chi paragona le moderne legislazioni sull’eutanasia col programma T4 di hitleriana memoria, uno Stato laico ha il dovere di astenersi da certe decisioni, lasciando all’individuo la facoltà di decidere sulle proprie sofferenze, preoccupandosi solo di verificarne la capacità d’intendere e volere.

Il resto è narrativa. Il resto è cattiveria. Il resto sono opinioni vuote. Il resto non è vita. E sul resto deve poter avere diritto di parola soltanto chi quel resto se lo tiene.


  Immagini tratte da:

- Immagine 1 da fedaiisf.it

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