Se la Cina continua la sua scalata verso il vertice dell’economia mondiale, pur avendo rallentato più o meno vistosamente negli ultimi anni, minacciando la supremazia USA in campo economico, scarso, fino a poco tempo fa,era quanto poteva essere detto del peso politico che il paese del Sol Levante esercitava sui vicini della regione. A seguito della conquista del potere da parte di Mao, la Cina, proveniente da un secolo di umiliazioni e sconfitte in campo internazionale, aveva rinunciato decisamente a qualsiasi tipo di influenza geopolitica nella regione, ritirandosi in un isolamento autoimposto. Complice l’estrema precarietà delle condizioni economiche in cui versava il paese, la politica del Partito Comunista Cinese si basò soprattutto sul ricostruire dalle fondamenta il sistema economico e sociale su cui si fondava lo stato. Con la progressiva apertura agli investimenti esteri a partire dagli anni ’70, il gigante asiatico ha posto le basi per la sua definitiva salita nel novero delle grandi potenze mondiali, ma per compiere il passo politico-militare necessario per elevarsi al rango di grande potenza del XXI secolo, è necessario uno shift che consenta l’integrazione tra enorme peso economico (che la Cina ha già acquisito) ed imponente peso geopolitico, che la Cina ha intrinsecamente, viste le sue dimensioni, ma che ha evitato di far valere nell’ultimo secolo. Da qui nasce la necessità per il governo di Xi Jinping di ristabilire la leadership storica nella regione, già fatta valere per secoli dal “Celeste Impero” e persa durante l’epoca imperialista occidentale, a vantaggio del Giappone. Il primo motivo di conflitto “naturale” è riferito quindi alle Isole Senkaku, un gruppo di piccoli atolli nel Mar Cinese Meridionale, storicamente contese tra la Cina e le Filippine. Proprio negli ultimi anni, il governo di Pechino ha deciso di occupare, mano armata, le isolette, decidendo di costruire una base aerea militare in pieno Pacifico. A nulla sono valse le proteste di Manila, che hanno comunque causato l’irritazione di Washington, alleato del paese e osservatore interessato della questione. E’ qui lo snodo fondamentale della politica estera aggressiva che la Cina ha iniziato ad esercitare nei confronti dei vicini. Se le Isole Senkaku in quanto tali sono di scarsa rilevanza in termini di risorse da sfruttare e di dimensioni, nonché di popolazione, essendo disabitate, dal punto di vista simbolico rappresentano una porta verso l’Oceano Pacifico e, in ultima analisi, verso gli USA, che ormai dal 1945 esercitano un controllo politico-militare incontrastato nello spazio sterminato che va dalle Hawaii fino alla Sud Corea, e giù fino al Giappone, le Filippine appunto, l’Indonesia e l’Australia. L’azione cinese è stata considerata quindi più come un affronto agli Stati Uniti che alle Filippine stesse, tesa a minare, nel lungo periodo, l’egemonia Americana nel Pacifico. Da qui l’aumento delle esercitazioni statunitensi nell’area, a cui il governo di Pechino ha replicato denunciando la presenza di aerei a stelle e strisce al largo delle coste cinesi oppure in sorvolo sopra le Isole stesse, su cui ormai la Cina ha imposto il controllo dello spazio aereo. Ma gli Stati Uniti, insieme alle Filippine non sono gli unici stati ad essersi preoccupati dalla politica adottata nel Pacifico, il terzo, ma anch’esso partner importante per l’Occidente sul piano economico, è il Vietnam, storico vicino della Cina. Seppur retto da un regime comunista da ormai più di 40 anni, a seguito della sconfitta statunitense nella famosa guerra, il governo di Hanoi garantisce una sorta di roccaforte per gli investimenti occidentali nella regione, generando quel tipo di contraddizione tra establishment politico comunista monopartitico e sistema economico capitalista (o ultracapitalista) di cui la Cina stessa è promotrice. La preoccupazione vietnamita deriva del resto da ragioni storiche, visti i ripetuti tentativi, in un caso portato a termine, da parte del Celeste Impero di impadronirsi del territorio tra il XIV e il XVI secolo, ridotto, fino all’intervento francese in Indocina a stato vassallo del governo di Nanchino. Da qui deriva quella sorta di indifferenza, se non di aperta diffidenza, che ha permeato i rapporti tra le due classi politiche, seppur affini. La paura di un possibile aumento del controllo cinese nel Pacifico e la questione delle Isole Senkaku stesse hanno causato una sorta di sindrome da accerchiamento agli occhi dei vietnamiti, e da qui la necessità di rivolgersi al vecchio nemico, gli USA per l’appunto. Non è un caso quindi che la visita di Obama di poche settimana fa ad Hanoi, ufficialmente per parlare di questioni economiche o poco più sia avvenuta in un momento storico così delicato per il Sud-Est asiatico, e sono addirittura forti i sospetti che la recente apertura democratica in Myanmar, dove il regime militare birmano ha tenuto sotto scacco la vita politica del paese per più di quarant’anni, sia dovuta proprio ad un tentativo di “ingraziarsi” l’occidente in chiave anticinese. La situazione è in rapida evoluzione. Quello che è sicuro è che uno dei fronti caldi per la geopolitica nel prossimo decennio sarà proprio il Sud-Est asiatico ed è qui uno dei fronti su cui si gioca il futuro della politica estera non solo cinese, ma anche statunitense. Immagi tratte da:
- Obama - http://i.amz.mshcdn.com/3fkhDjl3ZLydAnxFduvtnSETnwo=/950x534/2016%2F05%2F23%2Fb4%2F1a23a947397.a944a.png - Shanghai - http://demystifyingdesign.com/wp-content/uploads/2012/04/IMG_0999.jpg
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