La filosofia di Sartre torna attuale nella nostra epoca segnata dalla crisi delle democrazie
L' Esistenzialismo è un umanismo di Sartre costituisce uno dei tentativi del secolo scorso di portare la filosofia fuori dalle aule universitarie per rivolgersi a un pubblico ben più ampio e di cercare di mutare la prospettiva e la concezione di uomo nel mondo. E' una conferenza pubblica dell'ottobre del 1945 con cui Sartre prova a rispondere ad alcuni attacchi ideologici alla sua nuova filosofia e che solo successivamente divenne un libro che darà nuovo slancio alla forma di pensiero del filosofo.
Dopo la seconda guerra mondiale e le sue atrocità l'uomo si pone degli interrogativi. Dove ha fallito l'umanismo e il progresso? Si avverte che quel mondo, fuoriuscito da due guerre mondiali, stia andando verso una direzione anti-umana e che quella fosse la fine di una epoca sanguinosa e delle sue identità ingombranti. L'uomo deve cercare quindi alcune soluzioni a cui appigliarsi per farsi di nuovo padrone del suo destino e affinchè non si verifichino,di nuovo, le barbarie che hanno contraddistinto la prima metà del Novecento. Per di più l'introduzione della catena di montaggio e delle nuove tecnologie che di fatto, meccanizzavano il lavoro umano, infiltra nell'uomo la sensazione della propria “inutilità” nel mondo e la conseguente “alienazione”. Si pensa che il progresso tecnologico risolva ogni sorta di problema, comprese le guerre. Non è così: la guerra porta morte, per la prima volta, non solo tra i soldati ma anche tra i civili. Lo stato d'animo della società post-guerra, seppur con le dovute proporzioni, ricalca in buona parte i sentimenti che attanagliano gli animi degli uomini della società in cui viviamo. L' incapacità delle democrazie occidentali di far fronte a problematiche nuove, nei numeri, come le grandi migrazioni e l'accoglienza o il far fronte a una crescente disoccupazione nei paese europei e l'incomunicabilità tra i partiti e la middle class, ha fatto si che si diffonda nelle masse un senso di sfiducia verso il futuro e le istituzioni. Se la nostra è l'epoca del nichilismo, o almeno è avvertita come tale, ciò non significa che ci si debba abbandonare a esso. E qui Sartre ci viene in aiuto come superamento del negativismo, del pessimismo, dell’assurdità dell’esistenza e la reinterpreta come una responsabilità. L’esistenzialismo è quella teoria filosofica che pone l’uomo di fronte alle sue possibilità, l’uomo è chiamato a decidersi, è un progetto. Questa libertà è sempre segnata dall’angoscia, l’uomo è sempre solo quando deve decidere, non c’è nessun altro che possa decidere al suo posto. Questa angoscia che c’è ed è il sentimento della libertà e non sfocia in una sorta di pessimismo radicale, anzi l’uomo è chiamato a essere più responsabile, Sartre riafferma come l’esistenzialismo non può che essere una forma di radicale ateismo. Proprio perchè dio non c’è non c’è nessuna garanzia, nessuna promessa, la responsabilità cade tutta sulle spalle del singolo uomo. Sartre riprende la famosa frase di Dostoevskij “Se Dio non esiste tutto è permesso”, se viene meno dio l’uomo è abbandonato, non ha nessuna ancora né dentro né fuori di sé, non potrà mai trovare delle scuse né fornire delle giustificazioni, dire che la sua vita è così per la natura, per le condizioni date e fissate. Non c’è nessun determinismo, tutto è ricondotto alla responsabilità del singolo. Non possiamo più guardare il cielo cercando di trovare un aiuto ma dobbiamo reinventarci di continuo sapendo che non c’è nessuna consolazione. Bisogna agire nella consapevolezza che nulla potrà salvarci dagli esiti delle nostre azioni. La vita di un uomo è soltanto quella che lui ha saputo vivere e decidere senza alibi. Insomma “l'esistenza precede l'essenza”. Immagini tratte da: immagine 1: http://chinese.fansshare.com/gallery/photos/10832468/sartre-jp/?displaying immagine 2:http://www.pacefuturo.it/wp-content/uploads/2015/04/migranti.jpg immagine 3:https://ilricciocornoschiattoso.files.wordpress.com/2016/04/viandante-sul-mare-di-nebbia.jpg
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Per l’ennesima volta, in Italia “legifera” la Corte Costituzionale. Adesso si può votare, ma con quali risultati?
Parlando dello scenario politico italiano, avevamo detto che la situazione sarebbe rimasta sonnacchiosa fino al pronunciamento della Corte Costituzionale sull’Italicum, previsto per fine gennaio. Mercoledì scorso, i giudici della Consulta hanno finalmente annunciato la sentenza, riscrivendo parte della legge elettorale che secondo il suo promotore, Matteo Renzi, il mondo ci avrebbe invidiato e copiato. La sentenza ha modificato in parte la legge, dichiarando incostituzionale uno degli aspetti più significativi del provvedimento: il ballottaggio, nel caso che nessun partito avesse raggiunto la quota necessaria al premio di maggioranza. Senza ballottaggio, appare evidente che sarà molto difficile ottenere una maggioranza solida in Parlamento, come vedremo più avanti.
Prima di raccontarvi come si configurerà a questo punto l’Italicum, ricordiamo che la situazione attuale vede le due Camere essere votate con leggi elettorali diverse: a Montecitorio abbiamo l’Italicum “corretto”, a Palazzo Madama il vecchio Porcellum, a sua volta corretto da una precedente sentenza della Corte Costituzionale. Nel pacchetto di riforme di Renzi non era stata indicata una legge elettorale nuova per il Senato, perché era previsto che i cittadini non eleggessero più i senatori in modo diretto. Il voto del 4 dicembre scorso ha cambiato le carte in tavola. L’Italicum 2.0 è una legge elettorale proporzionale che assegna un premio di maggioranza molto ampio (340 seggi su 617, cioè il 55%) alla lista che raggiunge il 40%. Non è previsto ballottaggio, dunque se nessuno arriva alla fatidica soglia del 40%, i seggi saranno ripartiti proporzionalmente ai voti ottenuti (grossomodo: se ottieni il 25% dei voti, avrai il 25% dei seggi). L’Italia sarà divisa in 100 collegi di circa 600.000 elettori; ogni partito presenterà una lista con un capolista già indicato e circa altri 5 candidati. La scelta dei candidati non capilista avverrà con le preferenze, lasciando agli elettori la possibilità di indicare fino a due nomi, purché il secondo sia di sesso diverso dal primo, come nelle Comunali. In ogni caso le liste dovranno essere costituite da un 50% di candidati uomini e da un 50% di candidate donne. Un singolo candidato potrà essere capolista in più collegi, per un massimo di 10. La Consulta ha mantenuto dunque l’aspetto delle pluricandidature, ma ha stabilito un curioso criterio di assegnazione, in caso di vittoria in più collegi: il sorteggio. Le liste avranno uno sbarramento del 3%, dunque chi non lo raggiungerà non vedrà eletto nessun deputato. Le regioni con minoranze linguistiche riconosciute, tuttavia, avranno uno sbarramento del 20%, in modo da garantire l’elezione dei deputati che le rappresentano (per fare l’esempio più noto, il Südtiroler Volkspartei). Per essere precisi, la Val d’Aosta e le province autonome di Trento e Bolzano avranno una legge elettorale propria di tipo maggioritario. Questa è la situazione alla Camera. Al Senato, come dicevamo, c’è ancora il Porcellum, che con le modifiche della Consulta è in pratica una legge proporzionale secca, senza premi di maggioranza. È evidente che, se i partiti attualmente in Parlamento non saranno in grado di approvare una legge elettorale nuova o di “armonizzare” l’Italicum e il Porcellum rivisti, come ha auspicato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, andremo a votare con entrambe le leggi: la possibilità di sapere la sera stessa del voto il vincitore delle Politiche sarà praticamente nulla. Il Movimento 5 Stelle, che spinge per le elezioni quanto prima possibile, non vuole fare alleanze, ma si dice convinto di arrivare al 40%. Se anche ci riuscisse alla Camera, siamo sicuri che possa avere una maggioranza solida anche in Senato? Anche Matteo Renzi vorrebbe andare al voto presto, sempre che riesca a convincere i parlamentari del proprio partito e l’attuale Presidente del Consiglio Gentiloni. Ma anche il PD non pare in grado di raggiungere la soglia. A leggere le simulazioni di Youtrend – ve ne proponiamo una, ma negli approfondimenti trovate il link all’articolo completo – l’unica maggioranza possibile visti gli attuali sondaggi è costituita da una coalizione di PD, Forza Italia e Nuovo Centro Destra. Una Große Koalition simile a quella che votò la fiducia a Enrico Letta nel 2014, ma con pochissimi deputati in più dell’eventuale opposizione. Se i dati cambiassero un po’, l’altra improbabile maggioranza possibile vedrebbe il M5S allearsi – contravvenendo al proprio Statuto – con Lega e Fratelli d’Italia.
In pratica, rischiamo cinque anni di governi instabili, il che non rende così auspicabile la possibilità di votare subito. C’è chi, come Salvini e Renzi, pensa a riesumare il Mattarellum, la legge elettorale maggioritaria con cui abbiamo votato nel 1996 e nel 2001. Il problema è che Forza Italia non vuole assolutamente votarlo, perché in tal caso dovrà costituire una coalizione con la Lega che, essendo più forte sulla base dei sondaggi chiederà un grande numero di candidati.
Una situazione politica tripolare come quella che abbiamo oggi – con Forza Italia, PD e M5S come principali partiti – può difficilmente produrre governi stabili con un sistema elettorale proporzionale. Il punto è che, oggi come oggi, è estremamente difficile intervenire. Del resto, la Consulta ha affermato che Italicum e Porcellum rivisti possono essere usati fin da subito, il che renderà molto improbabile modificarli. Sarà una durissima campagna elettorale a riequilibrare lo scenario politico? Il voto a breve è molto probabile: lo vogliono sia Renzi che Grillo. Grillo vuole monetizzare il consenso nei sondaggi, Renzi vuole evitare il referendum sul lavoro che si terrà in primavera, a meno che non si sciolgano le Camere. Ma chi governerà in caso di elezioni, e quanto ci riuscirà, è praticamente impossibile a dirsi.
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L’insediamento del 45° Presidente degli Stati Uniti d’America
Anche otto anni fa (20 gennaio 2009) a Washington faceva molto freddo. Ma non abbastanza da fermare le centinaia di migliaia di persone accorse ad assistere all’insediamento di Barack Obama, quarantaquattresimo Presidente degli Stati Uniti d’America. Venerdì scorso, diciamo che il freddo è stato più forte di qualsiasi fiducia nel nuovo Presidente, Donald John Trump. In realtà, le folle che salutavano Obama come un eroe non sono sparite, ma hanno cambiato posizione: la Women’s march on Washington del giorno seguente all’insediamento avrebbe attirato almeno 500.000 persone non convinte dal nuovo Presidente. Ma torniamo alla cerimonia d’insediamento. Il discorso di Trump è stato passionale e schierato come ai tempi della campagna elettorale, smentendo quanti confidavano in una “normalizzazione” del Presidente. Prima di leggerne i momenti salienti, diamo uno sguardo alla tag cloud del discorso. Come era prevedibile, le parole più ricorrenti sono America e American. A seguire, le fondamenta del successo politico del magnate statunitense: people, country, great, back. Il popolo, la nazione, la grandezza (perduta) e il ritorno a un’epoca in cui gli Stati Uniti “non perdevano posti di lavoro a causa della concorrenza dei paesi stranieri”. Il programma perfetto per un candidato che si è rivolto in primo luogo alla classe operaia e media bianca, attaccando volutamente quelle minoranze che erano state l’elettorato di riferimento del predecessore. Noi, cittadini americani, siamo uniti in un grande sforzo nazionale per ricostruire il nostro paese e recuperare la sua promessa per tutti noi. Insieme, orienteremo il corso dell’America e del mondo per molti, molti anni a venire. Affronteremo sfide. Sarà difficile, ma ce la faremo. […] La cerimonia di oggi ha un significato particolare, perché oggi non stiamo semplicemente trasferendo il potere da un’Amministrazione a un’altra, o da un partito a un altro, ma stiamo trasferendo il potere da Washington per restituirlo a voi, il popolo. Il discorso è proseguito con l’argomento principe delle arringhe populiste: fino a oggi, la classe politica si è arricchita a spese degli elettori. Tutto questo cambia a partire da qui e ora, perché questo momento è il vostro momento. Appartiene a voi. Appartiene a chiunque è riunito qui oggi e chiunque ci sta guardando in tutta l’America. È il vostro giorno. È la vostra festa. E questi, gli Stati Uniti d’America, sono la vostra nazione. Quello che conta non è quale partito controlla il governo, ma se il governo è controllato dal popolo. Il 20 gennaio 2017 sarà ricordato come il giorno in cui il popolo è tornato di nuovo a comandare la nazione. Uomini e donne dimenticate di questo paese non lo saranno più. Se c’è una cosa del programma del nuovo Presidente che lo distingue rispetto alla tradizionale politica del partito repubblicano, è il rifiuto di un impegno attivo, sul piano economico e su quello strategico-militare, nel resto del mondo. La NATO è superata; i trattati transatlantici e transpacifici sono dannosi. Una politica decisamente lontana da quanto accaduto negli ultimi decenni, con effetti ancora imprevedibili sul piano dell’economia globale. Per decenni abbiamo arricchito l’industria estera a spese di quella americana, sovvenzionato gli eserciti di altri paesi mentre permettevamo il triste esaurimento del nostro. Abbiamo difeso i confini delle altre nazioni mentre ci rifiutavamo di difendere i nostri, e speso migliaia di miliardi di dollari oltreoceano mentre le infrastrutture americane cadevano in rovina. […] Siamo riuniti qui oggi per stabilire un ordine che dovrà essere udito in ogni città, in ogni capitale straniera, e in ogni stanza del potere: da oggi in poi, una nuova visione governerà la nostra terra. Da oggi in poi, l’America sarà al primo posto. L’America al primo posto. Ogni decisione su accordi commerciali, tasse, immigrazione, affari esteri sarà compiuta per beneficiare i lavoratori e le famiglie americani. Dobbiamo proteggere i nostri confini dalle devastazioni di altri paesi che fanno prodotti uguali ai nostri, ci rubano le aziende e distruggono i nostri posti di lavoro. Il protezionismo creerà prosperità e forza. “Compra americano, assumi americano” è il mantra della politica economica trumpista, e le polemiche sul presunto razzismo del presidente vanno stemperate perché “che siamo neri o marroni o bianchi, abbiamo lo stesso sangue da patrioti, godiamo delle stesse gloriose libertà e salutiamo la stessa grande bandiera americana”. Allora a tutti gli americani, di ogni città vicina e lontana, piccola e grande, da montagna a montagna, da oceano a oceano, ascoltate queste parole: non sarete mai più ignorati. La vostra voce, le vostre speranze e i vostri sogni definiranno il nostro destino americano. E i vostri coraggio e bontà e amore saranno per sempre la nostra guida. Insieme renderemo l’America di nuovo forte. Renderemo l’America di nuovo ricca. Renderemo l’America di nuovo orgogliosa. Renderemo l’America di nuovo sicura. E, sì, insieme, renderemo l’America di nuovo grande. Prima di lasciarvi, un aggiornamento sulle notizie di cui abbiamo parlato la scorsa settimana. Antonio Tajani è stato eletto Presidente del Parlamento Europeo. Il PPE, quindi, governa le tre principali istituzioni dell’Unione Europea, mentre il PSE è rimasto all’asciutto. A Londra, Theresa May ha annunciato, in modo non perfettamente limpido, che il suo obiettivo è la clean Brexit, ossia la hard Brexit: fuori da Unione e mercato comune, recuperando un ruolo di protagonista a livello globale. Il come è tutto da chiarire. Immagini tratte da:
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Tra un Regno Unito ancora indeciso su come uscire e un M5S che saltella da un gruppo all’altro, Bruxelles rimane prepotentemente in prima pagina
Nel 2017, come nell’anno che l’ha preceduto, si parla molto di Europa. Che la si voglia denigrare o si proponga di cambiarla, l’Unione rappresenta un orizzonte quanto mai vicino, specialmente se teniamo conto che nei prossimi mesi si concretizzerà la Brexit e si svolgeranno le elezioni in Francia, Germania e (forse) Italia, a seguito di campagne elettorali in cui le questioni europee saranno fondamentali.
A Downing Street pare che non ci sia una visione così chiara di come portare avanti l’uscita dall’Unione. La premier Theresa May, chiamata ironicamente Theresa Maybe (“forse”) dall’Economist, non ha ancora chiarito se preferisce una separazione “morbida”, rimanendo nello Spazio Comune Europeo, o una separazione “netta” con la rescissione di tutti i trattati internazionali. Nel primo caso, i britannici si troverebbero a operare in un’area economica senza aver voce in capitolo sulle leggi che la governano, ma perlomeno lascerebbero un significativo canale di comunicazione aperto con il Continente. L’incertezza è tale che l’ambasciatore britannico a Bruxelles, Ivan Rogers, ha rassegnato le dimissioni, parlando di “carenza di una seria esperienza negoziale multilaterale”. In realtà la May sta prendendo tempo. Un po’ come da noi in Italia, dove la politica si è praticamente appisolata in attesa del giudizio della Consulta sull’Italicum, a Londra si sta aspettando una sentenza. Entro pochi giorni, la Corte Suprema è chiamata infatti a esprimersi sul verdetto dell’Alta Corte che chiedeva al Parlamento britannico il voto sulla Brexit. Il parere dei cittadini, non essendo ufficialmente vincolante, non ha valore giuridico, secondo i giudici, per cui è obbligatorio che voti la Camera dei Comuni. I conservatori al governo vorrebbero evitare il passaggio parlamentare, perché l’elettorato si sentirebbe privato della propria sovranità e forse non c’è tutta questa unanimità tra i parlamentari (cosa accadrebbe se a Westminster vincesse il Remain?). La Corte Suprema, dunque, parlerà a breve: secondo alcuni retroscena confermerà l’obbligo di voto in Parlamento. Il resto è tutto da vedere. Ma gli eurodeliri non finiscono qui. Ricordate quando abbiamo parlato della corsa alla presidenza del Parlamento Europeo? Erano ai posti di partenza quattro italiani: Antonio Tajani (Forza Italia, Gruppo del Partito Popolare Europeo), Gianni Pittella (Partito Democratico, Gruppo dell'Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici al Parlamento europeo), Eleonora Forenza (Rifondazione Comunista, Gruppo Confederale della Sinistra Unitaria Europea - Sinistra Verde Nordica) e Piernicola Pedicini (Movimento 5 Stelle, Gruppo Europa della Libertà e della Democrazia Diretta). La notizia è che Pedicini è fuori gioco, a causa di una maldestra strategia politica attuata dal Movimento 5 Stelle su richiesta dell’arrembante liberale belga Guy Verhofstadt.
Verhofstadt, presidente dell’Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa (ALDE), credeva di potersi infilare nella corsa alla Presidenza, mediando fra Popolari e Socialisti. Per farlo, tuttavia, aveva bisogno che il suo gruppo conquistasse un peso più rilevante, in termini di eurodeputati. I 68 liberali erano troppo pochi: perché non accogliere anche i 15 italiani eletti con il Movimento 5 Stelle, attualmente collocati nel gruppo euroscettico di Nigel Farage? In fin dei conti i britannici stanno per uscire dall’Europa. Contava poco, nel suo calcolo aritmetico, il fatto che i pentastellati non condividano larga parte delle idee dei liberali, a partire dall’europeismo. Come molti osservatori italiani hanno raccontato, l’ALDE è il gruppo di Mario Monti e di Romano Prodi. Prima dell’adesione al PSE del Partito Democratico, ne facevano parte anche i centristi del PD e della Margherita.
Eppure, grazie a un accordo firmato segretamente da David Borelli e condiviso sia da Grillo che da Davide Casaleggio, si è arrivati a far votare gli iscritti del Movimento sull’adesione al gruppo ALDE. La scelta era stata presentata per quello che era: un calcolo politico, non un’adesione a principi morali. I liberali puzzavano di europeismo, di “Europa delle banche”, ma garantivano soldi e prebende. Gli iscritti hanno capito, confermando la propria fiducia ai leader del Movimento con una cifra vicina all’80%: non sapevano che Verhofstadt aveva fatto i conti senza l’oste. Poche ore dopo il voto degli attivisti italiani, infatti l’ALDE ha fatto retromarcia, a seguito delle proteste dei suoi eurodeputati: impossibile confrontarsi con gli italiani, che non condividono le proprie posizioni. Il Movimento è rimasto con Farage, evitando il rischio di finire nel gruppo misto, dove non avrebbe diritto di parola e non riceverebbe neppure i fondi per l’attività politica. Questa spericolata manovra – il deputato grillino Carlo Sibilia l’ha definita una “Caporetto” – ha comunque comportato effetti: l’abbandono del partito da parte degli eurodeputati Marco Affronte e Marco Zanni. Il messaggio con cui Farage ricompone l’alleanza accenna ad un referendum sull’Euro da tenersi in Italia: secondo alcuni, è proprio questa la condizione posta dall’inglese per riprendersi gli eurodeputati pentastellati. Era solo una questione di soldi? Non secondo Massimo Giannini di Repubblica: C’è allora una seconda spiegazione, sicuramente più complessa, che è invece di natura strategica. Grillo sa che siamo ormai in pieno ciclo elettorale. [...] I Cinquestelle non se la possono cavare riproponendo ai cittadini il loro “onesto dilettantismo”: può bastare se il tuo orizzonte è l’opposizione, non te ne fai nulla se ti candidi a guidare il Paese. Per questo il Movimento di lotta deve dare almeno qualche segnale di sapersi ripensare come forza di governo. L’alleanza con i liberali in Europa, con tutti i suoi limiti evidenti e le sue contraddizioni patenti, riflette questo tentativo. Un tentativo fallito, per il momento.
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Non succedeva dal 1982, ma la notizia è passata quasi sotto silenzio. Conosciamolo meglio
Il primo gennaio scorso, ha assunto la carica di Segretario Generale delle Nazioni Unite António Manuel de Oliveira Guterres, politico portoghese già Alto Commissario per i Rifugiati dal 2005 al 2015. Si tratta di una notizia importante per noi europei, visto che l’ultimo Segretario Generale del vecchio continente fu l’austriaco Kurt Waldheim, in carica dal 1972 al 1981. Il precedente Segretario, l’ottavo, è stato il sud-coreano Ban Ki-moon, con due mandati iniziati il I gennaio 2007. Guterres ha una storia politica interna alla socialdemocrazia europea: di formazione cattolica, con la Rivoluzione dei Garofani (25 aprile 1974) si è avvicinato al Partido Socialista, di cui è stato Segretario dal 1992 al 2002; ha inoltre rivestito la carica di premier del proprio paese dal 1995 al 2002. Tra il 1999 e il 2005 è stato anche Presidente dell’Internazionale Socialista, l’unione mondiale dei movimenti di ispirazione socialista e laburista. Nessun Segretario dell’ONU prima di lui era già stato capo di governo, ed essendo nato il 30 aprile 1949 è anche il primo ad essere nato dopo l’istituzione delle Nazioni Unite. La sua elezione è avvenuta a seguito di una serie di dibattiti pubblici in cui i rappresentanti dei singoli stati hanno rivolto ai candidati delle domande su come intendevano impostare il proprio mandato. Visto che ci si aspettava l’elezione di un europeo – dopo un Segretario americano (Javier Pérez de Cuéllar, peruviano, tra il 1982 e il 1991), due africani (Boutros Boutros-Ghali, egiziano, tra il 1992 e il 1996, e Kofi Annan, ghanese, tra il 1997 e il 2006) e un asiatico (appunto Ban Ki-Moon) – i candidati erano in prevalenza europei: Srgjan Kerim (macedone), Vesna Pusić (croata), Igor Lukšić (montenegrino), Danilo Türk (sloveno), Irina Bokova (bulgara), Natalia Gherman (moldava), Helen Clark (neozelandese) e ovviamente Guterres. La scelta del portoghese ha confermato la fortuna dei candidati lusitani nelle istituzioni internazionali: il suo successore alla presidenza del Portogallo, José Manuel Durão Barroso, è stato Presidente della Commissione Europea dal 2004 al 2014, e dall’anno scorso è presidente della banca d’affari Goldman Sachs. L’elezione di Guterres avviene in un momento drammatico per l’ONU: la guerra in Siria, in particolare, pone degli interrogativi cui la struttura farraginosa dell’istituzione difficilmente può dare risposta. Dalla sua, l’esperienza al Commissariato per i Rifugiati, coincisa con una fase della storia recente segnata come mai prima dal fenomeno migratorio (in Italia ne conosciamo bene le conseguenze). A seguito dell’insediamento, Guterres ha pubblicato un videomessaggio in cui sintetizza le proprie aspettative per il 2017: «Nel mio primo giorno da Segretario Generale delle Nazioni Unite, una domanda pesa nel mio cuore. Come possiamo aiutare milioni di persone coinvolte nei conflitti, che soffrono profondamente in guerre che non sembrano avere fine? I civili sono schiacciati da una forza letale. Donne, bambini e uomini sono uccisi e feriti, allontanati con la forza dalle proprie case, privati di tutto e resi indigenti. Perfino gli ospedali e gli aiuti umanitari sono colpiti. Nessuno vince in queste guerre; tutti perdono. Miliardi di dollari sono spesi per distruggere società ed economie, alimentando un ciclo di diffidenza e paura che potrebbe durare per generazioni. Intere regioni sono destabilizzate e la nuova minaccia del terrorismo globale ci colpisce tutti. In questo primo giorno dell’anno, chiedo a tutti voi di avere un buon proposito condiviso: mettere la pace al primo posto. Rendiamo il 2017 un anno in cui tutti noi – cittadini, governi, leader – ci sforziamo di superare le differenze. Dalla solidarietà e dalla compassione nelle nostre vite quotidiane, fino al dialogo e al rispetto oltre gli steccati politici, dai cessate il fuoco sui campi di battaglia al compromesso per tavoli negoziali che raggiungano soluzioni politiche: la pace deve essere il nostro obiettivo e la nostra guida. Tutto ciò che ci sforziamo di raggiungere come famiglia umana – dignità e speranza, progresso e prosperità – dipende dalla pace. Ma la pace dipende da noi. Mi rivolgo a voi per unirvi a me nell’impegno per la pace, oggi e ogni giorno. Rendiamo il 2017 l’anno della pace». Le aspettative sono altissime, soprattutto se consideriamo la debolezza dell’ONU nel risolvere le controversie internazionali, ruolo per cui era nata. Ma ci piacerebbe tanto credergli. Immagini
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Barack Obama, a valigie già pronte, conclude il mandato con alcuni atti insoliti. Quali e perché
Fra meno di tre settimane (il 20 gennaio), Donald Trump assumerà la carica di Presidente degli Stati Uniti d’America e il suo predecessore Barack Obama “andrà in pensione”. Una pensione di lusso, considerando che si tratta di un presidente uscente molto giovane: lo aspettano anni di conferenze, autobiografie, discorsi pubblici ben pagati, e forse anche uno o due mandati da first gentleman, se la moglie Michelle riuscirà in ciò in cui Hillary Clinton ha fallito. Di solito, durante gli ultimi mesi di mandato, il presidente uscente non compie scelte molto significative, perlomeno se la situazione lo permette. Non lo consentì quella del 2008, quando George W. Bush fu costretto ad approvare l’Emergency Economic Stabilization Act, un corposo provvedimento legislativo che tentava di limitare le catastrofiche conseguenze della crisi dei mutui subprime, a meno di un mese dalle elezioni. Oggi, la situazione economica americana – che sia o meno merito di Obama – è molto migliorata da allora, per cui non ci saremmo aspettati grandi “colpi di coda”. Eppure, proprio le cronache di quest’ultimo ritaglio di dicembre hanno avuto per protagonista il presidente uscente. Vediamo in che modo. Tra il 21 e il 28 dicembre sono stati approvati due provvedimenti molto significativi in tema ambientale: sono state vietate le trivellazioni per estrarre petrolio o gas naturale in alcune aree dell’Artico e dell’Oceano Atlantico (grazie ad una legge del 1953) e sono state istituite due nuove aree protette in Utah e Nevada. Tenendo conto delle posizioni espresse da Trump a riguardo, si tratta di scelte esplicitamente indirizzate a provocare il presidente eletto; specialmente la prima, approvata congiuntamente al premier canadese Justin Trudeau. Il 23 dicembre scorso, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione, la numero 2334, in cui si parla dei Territori occupati in Palestina, e si definiscono gli insediamenti israeliani una “flagrante violazione” della legge internazionale, “priva di valore legale”. Israele dovrebbe “chiudere gli insediamenti e rispettare gli obblighi da paese occupante previsti dalla quarta Convenzione di Ginevra”. Risoluzioni come questa, capirete, sono poco più che un auspicio, un po’ come i consigli della nonna quando ci dice “non andare forte con la macchina”. L’aspetto significativo di questo voto, tuttavia, riguarda come è avvenuto: gli Stati Uniti non hanno votato contro, facendo saltare tutto grazie al diritto di veto, ma si sono semplicemente astenuti. Gli altri quattordici paesi, vale a dire Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Angola, Egitto, Giappone, Malaysia, Nuova Zelanda, Senegal, Spagna, Ucraina, Uruguay e Venezuela, hanno votato a favore. Israele è stata abbandonata dal suo principale alleato, gli USA, probabilmente per i contrasti emersi tra Benjamin Netanyahu e il Segretario di Stato americano John Kerry durante gli ultimi anni. Obama sapeva, e non lo ha impedito. Del resto, si trattava di un momento propizio: la risoluzione non ha effetti concreti e fra tre settimane si insedia il filo-israeliano Trump. Quale migliore occasione per levarsi un sassolino dalla scarpa? Infine, i fatti di venerdì. Obama ha firmato nuove sanzioni contro la Russia e l’espulsione di 35 diplomatici russi dal territorio americano, con l’accusa di essere membri dei servizi segreti e di aver operato per sabotare le elezioni di novembre. Che ci sia stato l’intervento di Mosca nelle presidenziali 2016 è molto probabile. Meno prevedibile, una reazione così dura, che tuttavia appare ben calcolata. Trump si è dichiarato un ammiratore di Vladimir Putin, e nel giro di poche settimane può annullare il provvedimento. Non è casuale che l’unica ritorsione adottata dalla Russia sia stata la chiusura della scuola anglo-americana di Mosca. Come a dire: “abbiamo capito che era una provocazione”. Un’ultima puntura di spillo prima del cambio della guardia. Negli stessi giorni (27 dicembre), si è svolta alle Hawaii, terra d’origine di Obama, una cerimonia in memoria dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, nel 1941. Per la prima volta, era presente in via ufficiale il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, a ricambiare quanto accaduto il 27 maggio con la visita del presidente USA ad Hiroshima. In entrambi i casi, il maggior rappresentante del paese che ha causato morte e distruzione (il Giappone a Pearl Harbor, gli USA ad Hiroshima) non ha chiesto perdono. Agire e non agire. Punzecchiare, sapendo che le proprie decisioni saranno ribaltate sul breve periodo. Andare in visita e non chiedere scusa. Per un presidente che era stato eletto sull’onda dell’entusiasmo, con lo slogan “Yes, we can”, è un ben misero finale. “Avremmo potuto fare”, semmai. Immagini
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