Di cosa parliamo quando parliamo di foreign fighters e ISIS ![]() Martedì scorso, Bruxelles ha subito il più devastante attacco terroristico della storia del Belgio. Al momento le vittime sono 31, cui vanno sommati tre attentatori suicidi (i fratelli Khalid e Ibrahim el-Bakraoui e Najim Laachraoui). I feriti sono almeno dieci volte di più. Le prime esplosioni si sono verificate alle ore 8.00 circa all’aeroporto di Zaventem-Bruxelles, in corrispondenza della sala d’attesa per le partenze internazionali. Un ordigno è esploso tra il banco d’accettazione di American Airlines e quello di Brussels Airlines; un altro nei pressi dello Starbucks dell’edificio. Per un caso fortuito, una terza bomba inesplosa è stata trovata e fatta brillare successivamente. Un’ora più tardi, in una carrozza della metropolitana nei pressi della stazione di Maelbeek/Maalbeek (a pochi metri dagli uffici della Commissione Europea) è avvenuta la terza esplosione.
![]() L’acronimo ISIS sta per Islamic State of Iraq and Syria, “stato islamico dell’Iraq e della Siria”, termine con cui fino al 2014 era chiamato il territorio compreso tra la Siria nord-orientale e l'Iraq occidentale sotto il controllo di un gruppo terroristico guidato da Abu Bakr al-Baghdadi. A inizio 2014, al-Baghdadi ha troncato ogni rapporto con al-Qaida, organizzazione terroristica cui era affiliato, e si è proclamato “califfo” dello “stato islamico” (IS), togliendo ogni riferimento geografico perché il suo obiettivo è ora la conquista del mondo. Alcuni governi e fonti di informazione usano l’acronimo Daesh, dall’arabo, per due motivi: non è evidente il riferimento all’Islam, così da non urtare i musulmani, ed è ripudiato dal califfato, che punisce con la fustigazione chi ne abbia fatto uso, perché assomiglia a un verbo che significa “pestare, inciampare”. Benché sia impossibile raccontare in poche parole le origini del Daesh, possiamo affermare con certezza che ogni suo sviluppo è successivo alla Seconda guerra del golfo (2003), che pose fine a ventiquattro anni di regime di Saddam Hussein. Il governo imposto dagli americani, di ispirazione sciita, fu visto come usurpatore dalla parte della popolazione irachena di tradizione sunnita. Ai sunniti più intransigenti e radicali si unirono, tra gli altri, molti ex membri del partito Ba’ath (il partito unico, ai tempi di Saddam), epurati da ogni incarico pubblico e dall’esercito su ordine USA. Ma non ci sono solo iracheni tra le file del Daesh: dei 200.000 soldati attualmente arruolati, un numero compreso tra 15.000 (statistica dell’ONU) e 30.000 (secondo la CIA) è di provenienza straniera (foreign fighters, appunto), dei quali almeno un quinto proviene da un paese occidentale, Francia in primis. L’espansione del Daesh fuori dall’Iraq appare impetuosa. La Guerra civile siriana, iniziata nel 2011 con le proteste nei confronti del presidente Baššār al-Asad e tutt’ora in corso, ha aperto enormi spazi ad ovest. La Seconda guerra civile libica, iniziata nel giugno del 2014, ha avuto effetti simili, con l’occupazione del territorio circostante Sirte, la città natale di Mu'ammar Gheddafi, leader libico fino al 2011. Negli ultimi mesi, numerosi gruppi di terrorismo jihadista del mondo hanno dichiarato la propria affiliazione al Daesh. Il più noto è Boko Haram, che opera in Nigeria. Il dramma umanitario che si sta consumando tra Turchia e Grecia, così come sulle coste del mediterraneo, è diretta conseguenza di questa espansione, che costringe popoli interi alla migrazione, dal Medio Oriente come dal Nordafrica. La conquista dei pozzi di petrolio e la “nazionalizzazione” delle banche dei territori conquistati ha fruttato al Daesh una disponibilità finanziaria immensa, dell’ordine di due miliardi di dollari. Nei territori occupati, organizzati in province (wilāyāt) con capitale al-Raqqa (Siria), vige un’interpretazione molto rigida della shariʿah, la legge islamica. A cristiani ed ebrei sono concesse tre opzioni: convertirsi, pagare una tassa (la jizya) o essere condannati a morte. Altri gruppi religiosi, come gli yazidi, non hanno la seconda possibilità, e devono decidere se convertirsi o morire. Le donne yazide sono stuprate e divengono spesso oggetto di una tratta. Gli omosessuali sono lapidati o gettati nel vuoto dagli edifici più alti. Svariati giornalisti e operatori umanitari sono stati catturati e decapitati a favore di obiettivo, in modo da diffondere nel mondo un’immagine terrificante del Daesh. Statue e costruzioni antiche ritenute non consone con la religione vengono sistematicamente abbattute, come accaduto ad agosto 2015 con il sito archeologico di Palmira. Non è facile riassumere le azioni intraprese dalla comunità internazionale contro il Daesh: la sua stessa espansione in luoghi e contesti diversi ha reso necessarie più azioni, coordinate in prevalenza dagli Stati Uniti (ma non vanno dimenticati i bombardamenti russi in Siria). L'articolo di Wikipedia alla voce "Military intervention against ISIL" chiarisce (in inglese) lo stato dell’arte. Ad oggi, non sembrano apparire risultati apprezzabili: spesso i bombardamenti hanno effetti devastanti sui civili, aumentando l’odio nei confronti dell’Occidente. È in questo sentimento anti-occidentale che deriva, secondo molti, il fenomeno dei foreign fighters. Cittadini occidentali, spesso immigrati di seconda o terza generazione, che vedono nel Daesh una realtà positiva, vittima più che carnefice. Le motivazioni sono state indagate in un report realizzato dall’agenzia libanese Quantum, riassunte dall’Espresso in questo modo:
Approfondimenti e fonti:
Immagini tratte da:
Bandiera dell’ISIS, da Wikipedia, di The Islamic State, da: Flag of Islamic State of Iraq.svg, Pubblico dominio Gli attentatori di Zaventem, da Wikipedia Inglese, CCTV system - lemonde.fr, Pubblico dominio, voce "2016 Brussels bombings" Salah Abdeslam, da Wikipedia Inglese, http://www.bbc.com/news/world-europe-35312556, Pubblico dominio, voce "Salah Abdeslam" Territori occupati dal Daesh, da Wikipedia Inglese, di BlueHypercane761 - Lavoro proprio:en:Template:Syrian, Iraqi, and Lebanese insurgencies detailed map, CC BY-SA 4.0, voce "Military intervention against ISIL"
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Aung San Suu Kyi e la lunga strada della democrazia in Birmania ![]() Una nazione dominata per decenni da un regime militare, ma avviata da alcuni anni sulla strada della democrazia, al punto da essere definita dall’Economist il “paese dell’anno” 2015, in quanto “ha reso il nostro mondo un posto migliore”. A pensarci, gli ultimi eventi accaduti in Birmania hanno un che di stupefacente. Riepiloghiamoli. La Birmania (o Myanmar, nome preferito dalla giunta militare) è un paese del sud-est asiatico stretto tra India (a ovest), Cina (a nord) e Thailandia (ad est). Nonostante l’estensione doppia rispetto all’Italia (676 577 km²), ha una popolazione simile: qualcosa più di 50 milioni di abitanti. Alla fine dell’Ottocento, a seguito di tre sanguinose guerre, la Gran Bretagna fece del Siam - la vecchia denominazione - un possedimento coloniale. I birmani subirono la dominazione britannica fino al 1948, quando ottennero l’indipendenza senza aderire al Commonwealth. ![]() A partire dal 1962, il paese è controllato da una feroce dittatura militare, che ha bandito tutti i partiti d’opposizione. Nel 1988, una serie di rivolte studentesche costrinsero il generale Ne Win, leader della giunta militare dai tempi del golpe, alle dimissioni. Alle elezioni del 1990, le prime elezioni libere in trent’anni videro la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), guidata da Aung San Suu Kyi, ottenere l’80% dei seggi. La leader dell’NLD era figlia di un importante politico birmano della fase precedente all’indipendenza, ma il suo successo non poteva essere accettato dallo Stato maggiore dell’esercito, che la arrestò, annullando de facto le elezioni. Aung San Suu Kyi, premiata l’anno successivo con il Nobel per la pace, rimase agli arresti fino al 1995, per tornarvi in modo praticamente ininterrotto tra il 2000 e il 2010, senza poter esercitare il ruolo che gli elettori birmani le avevano attribuito. ![]() Nel 2008, un referendum vide la giunta modificare la legge elettorale del paese, stabilendo un 25% di seggi riservati alle forze armate e l’impossibilità, per chi abbia parenti stretti non birmani, di divenire primo ministro (ricordatevelo). Le elezioni parlamentari del 2010 furono boicottate dalle forze democratiche, e videro l’affermarsi dei militari con oltre l’80% dei voti. Nonostante ciò, Aung San Suu Kyi fu definitivamente liberata, tanto da poter partecipare alle elezioni suppletive del 2012, in cui nonostante l’esiguità della posta in palio (46 deputati su 440) l’NLD conquistò larga parte dei consensi (43 seggi). Alle nuove elezioni generali del 2015, la vittoria di Aung San Suu Kyi, di nuovo libera di guidare il proprio partito, è stata schiacciante, con il 60% dei seggi ottenuti in entrambi i rami del Parlamento. Il 25% dei militari, a questo punto, non sarebbe stato sufficiente ad ostacolarne l’elezione a presidente, ma la clausola dei parenti stranieri cui accennavamo prima ha avuto la meglio. Aung San Suu Kyi è stata sposata con il professore inglese Michael Aris, da cui ha avuto due figli, entrambi cittadini britannici. ![]() Di conseguenza, il 15 marzo scorso il Parlamento birmano ha eletto alla presidenza Htin Kyaw, economista e stretto collaboratore di Aung San Suu Kyi. La Presidentessa mancata ha comunque assicurato che gestirà le politiche dell’NLD (in modo simile a quanto accaduto col Partito del Congresso di Sonia Gandhi in India). In totale, Hitn Kyaw ha ottenuto 360 voti su 652, mentre il candidato dei militari Myint Swe ne ha ricevuti 213, garantendosi la vicepresidenza (che comunque dovrà spartire con un altro membro della Lega Nazionale per la Democrazia, Henry Van Thio). Fonti: economist.com
Immagini tratte da: Cartina della Birmania, da Wikipedia, Pubblico dominio, Proteste del 1988, da Wikipedia Inglese, di Burmese American Democratic Alliance, voce "Myanmar" Aung San Suu Kyi, da Wikipedia, foto di Claude TRUONG-NGOC - lavoro personale, CC BY-SA 3.0, voce "Elezioni parlamentari in Birmania del 2015" Hitn Kyaw, da Wikipedia, di Channel News Asia, CC BY-SA 4.0 Come la Spagna del 2015 si è ritrovata nelle condizioni dell’Italia del 2013. Ma non è detto che ne esca allo stesso modo. Uno stallo degno della migliore tradizione scacchistica, con un re che non può muoversi e un alfiere che non ha abbastanza forze per sostituirlo. A vederla da fuori, l’attuale situazione politica spagnola ricorda quella italiana di tre anni fa, all’indomani delle elezioni politiche del 25 febbraio: nessun partito riesce a formare un governo, e l’unica soluzione possibile è una improbabile coalizione tra forze contrapposte. Vediamo perché. ![]() Il popolo spagnolo ha votato poco prima di Natale 2015, smentendo nei fatti decenni di bipartitismo. Fino ad allora, le Cortes Generales (il Parlamento) avevano sempre visto un solo partito di maggioranza, che fosse il PSOE (Partito Socialista Operaio, di ispirazione socialdemocratica) o il PP (Partito Popolare, di tendenze conservatrici e ispirazione cattolica). In conseguenza di una fortissima crisi economica (la disoccupazione è passata dall’8% del 2007 ad oltre il 20% del 2014) e della perdita di autorevolezza della classe politica, hanno trovato spazio nell’agone politico due partiti di fondazione recente, Podemos e Ciudadanos. I primi, guidati dal carismatico Pablo Iglesias, professore di Scienze Politiche all’Università Complutense di Madrid, sono un movimento di sinistra, critico nei confronti del PSOE è favorevole alla democrazia diretta. Come immaginerete, in molti hanno paragonato Podemos al Movimento Cinque Stelle, anche se l’identità di sinistra degli spagnoli è molto più evidente rispetto al M5S, che si dichiara apertamente “nuovo” rispetto alle idee di destra e sinistra. Ciudadanos (“cittadini”, o “partito della cittadinanza”) è un partito nato a Barcellona in opposizione al nazionalismo catalano. Si definisce di centro-sinistra, anche se molti osservatori lo considerano come una formazione decisamente centrista e liberale. Suo leader è Albert Rivera. I due partiti, pur collocandosi idealmente nello schieramento di centro-sinistra (al punto da non avere preclusioni nell’allearsi ai socialisti del PSOE), hanno idee decisamente divergenti in merito ai rapporti con l’Europa e con i nazionalismi iberici. Al forte europeismo di Ciudadanos si contrappone la visione critica di Podemos, che rifiuta la logica di austerità che ha condizionato le politiche fiscali europee degli ultimi anni. Allo stesso tempo, Ciudadanos è contraria all’indipendenza della Catalogna, mentre Podemos ha sul tema posizioni ambigue ma che non escludono la possibilità di un distacco della regione di Barcellona dal resto del regno. ![]() Alle elezioni di dicembre, i Popolari di Mariano Rajoy, premier uscente, hanno ottenuto più voti di tutti gli altri partiti: 7.236.965, pari al 33.4%. Eppure, non esistendo premi di maggioranza nella legge elettorale spagnola, il loro risultato si è tradotto in appena 123 seggi, insufficienti a formare un governo: il Congreso è costituito da 350 deputati, per cui ne servono 176 per avere la maggioranza. ![]() I socialisti del fotogenico Pedro Sánchez non si trovano in acque migliori, con i loro 90 deputati (20,8% dei voti). A questi si aggiungono i 69 eletti (con varie liste) per Podemos e i 40 di Ciudadanos, senza dimenticare i partiti nazionalisti. Per la prima volta dal 1982, la Spagna pare costretta ad un governo di coalizione. Ma la situazione è meno semplice di quel che sembra: immaginare una coalizione ampia di sinistra che comprenda PSOE, Ciudadanos e Podemos è impossibile, perché i due nuovi partiti si guardano in cagnesco. A ben vedere, la somma di socialisti e uno solo dei due partiti non è sufficiente a raggiungere la quota di 176, il che rende fosche le prospettive, a meno di non ipotizzare sommovimenti imprevedibili di deputati, un po’ come accadde in Italia al momento della formazione del governo Letta, prima, o del governo Renzi, dopo (con partiti di centrodestra che accettano la coalizione con il centrosinistra). ![]() Mercoledì 3 marzo scorso, Sánchez si è presentato al Congreso proponendo un governo di coalizione con Ciudadanos, ottenendo in tutto 130 voti; due giorni dopo, con una soluzione simile, è arrivato a 131 voti. Fino al 3 maggio (60 giorni dal primo tentativo di Sánchez), le Cortes possono riunirsi per superare l’impasse. Dopo, il re Filippo VI scioglierà le Cortes e convocherà nuove elezioni, probabilmente già in giugno. Ad oggi, pare l’esito più probabile. Immagini tratte da:
Pablo Iglesias da Ahora Madrid CC BY-SA 2.0, da Flickr Logo Ciudadanos da Trademarked by Ciutadans. This file, by Jotaele91, da Wikimedia, Pubblico dominio. Mariano Rajoy da European People's Party - EPP Summit, March 2015, Brussels, CC BY 2.0 Immagine campagna elettorale PSOE dal sito www.psoe.es. Filippo VI da User:Ruben Ortega; cropped by MrCharro - Lavoro personale, CC BY-SA 4.0 Piccola guida all'impegnativa ricerca dei candidati alla Presidenza ![]() di Alessandro Ferri ![]() Oggi parleremo di politica americana. Come sapete, martedì 8 novembre 2016 gli elettori statunitensi saranno chiamati a scegliere il quarantacinquesimo Presidente dell’Unione, successore di Barack Obama. Ad oggi non sappiamo ancora chi si contenderà l’elezione, perché i principali partiti politici americani, i Democratici (blu, con il simbolo di un asinello e di tendenze progressiste) e i Repubblicani (rossi, con il simbolo dell’elefante e di tendenze conservatrici) stanno affrontando la campagna per le Primarie. A ben vedere, parlare delle Primarie non è solo un modo per conoscere il leader che avrà, se non le redini (al giorno d’oggi l’influenza degli Stati Uniti è inferiore a qualche anno fa), perlomeno un ruolo determinante nel definire gli assetti geopolitici mondiali. È anche un modo per conoscere un meccanismo raffinatissimo di selezione della classe dirigente che funziona da secoli, mentre da noi iniziative simili accusano già il peso degli anni. Com’è noto, le primarie si svolgono all’inizio dell’anno delle elezioni presidenziali (quindi ogni quattro anni, se i mandati non si concludono in anticipo), secondo un impegnativo calendario che si apre con l’Iowa nel mese di gennaio. Ogni stato assegna, con metodi diversi (caucus, cioè assemblee in cui si dichiara pubblicamente il proprio candidato, primarie, in cui si scrive la propria preferenza su una scheda, come alle elezioni “vere”, o conventions, simili ai congressi locali dei nostri partiti), un certo numero di delegati, calcolato sulla base del numero di abitanti e/o di iscritti al partito. Durante l’estate, i due partiti organizzano delle maestose conventions in cui il candidato che ha ottenuto il maggior numero di delegati, diviene il candidato presidenziale. Non sempre il candidato ritenuto vincente dalla stampa è quello che poi ottiene effettivamente la nomination: Barack Obama, nel 2008, era un misconosciuto senatore di Chicago, e in pochi avrebbero creduto alla sua vittoria sulla potentissima Hillary Clinton, già first lady tra il 1992 e il 2000. Il fatto è che il meccanismo itinerante delle primarie fa sì che candidati meno conosciuti possano acquistare consensi via via che le settimane passano. È un po’ quello che sta accadendo quest’anno: in un primo momento, larga parte degli analisti era convinto in un ampio successo della Clinton tra i Democratici e di Jeb Bush (fratello minore di George W. Bush, presidente tra il 2000 e il 2008, e figlio di George H. W. Bush, presidente tra il 1988 e il 1992) tra i Repubblicani. A poco più di un mese di distanza dall’inizio delle primarie, il ritiro di Jeb Bush, incapace di attirare consensi nonostante gli ingenti finanziamenti ricevuti, ha reso impossibile lo scenario di una sfida Bush-Clinton per la presidenza, come nel 1992. ![]() Ad emergere con forza tra i Repubblicani sono stati tre candidati: il magnate Donald Trump, il candidato della destra evangelica Ted Cruz e il leggermente più moderato Marco Rubio. Il fatto che i due oppositori di Trump siano entrambi figli di esuli cubani, lascia capire l’importanza della comunità latina negli USA. Benché ricchissimo, Trump è riuscito sin qui a condurre una campagna a costi contenuti, in virtù della sua straordinaria abilità di creare scandalo e di occupare i media, senza aver bisogno di acquistare spot elettorali. Il successo della sua candidatura, avversata da influenti esponenti del suo partito (nonché da Papa Francesco), contraddice l’usuale meccanismo delle primarie americane, ossia la tendenza a selezionare il candidato più moderato, perché in grado di mettere d’accordo la maggior parte del partito. Trump è orgogliosamente estremista, e propone perfino di “risolvere” la questione dell’immigrazione attraverso la costruzione di un muro lungo la frontiera messicana… da far pagare interamente al Messico. ![]() L’inversione di tendenza in casa repubblicana ha avuto effetti anche tra i Democratici: la strada di Hillary è stata accidentata, e alcuni hanno paventato la possibilità che si ripeta per lei la débâcle del 2008. A contrapporsi alla moglie dell’ex presidente Clinton è un anziano senatore del Vermont, Bernie Sanders, che rivendica con orgoglio l’adesione al socialismo (cosa incomprensibile ai più, in terra di capitalismo) e riforme avanzatissime, come un sistema sanitario nazionale alla maniera europea e l’Università gratuita. Il fatto che l’eventuale candidatura di Sanders appaia agli analisti come assai rischiosa (perfino contro Trump), non ha impedito alla base democratica di seguirlo con passione, al punto che ancora oggi la moderata Hillary non può dirsi al sicuro. Immagini tratte da:
Barack Obama, ritratto ufficiale di Pete Souza, da Wikipedia, pubblico dominio. Donald Trump, di Michael Vadon - Own work, da Wikipedia CC BY-SA 4.0 Bernie Sanders, di Michael Vadon - US Senator of Vermont Bernie Sanders in Conway NH on August 24th, da Wikipedia, CC BY-SA 2.0 Logo Hillary for America, da Hillary for America - hillaryclinton.com, da Wikipedia, pubblico dominio. ![]() “L’arte è comunicazione”. Alla veneranda età di 75 anni, con una carriera di più di mezzo secolo alle spalle ma forgiato nell'animo dalla freschezza di un ragazzino il grande fotografo nostrano Oliviero Toscani non avrebbe potuto impersonare meglio questa realtà come fatto durante il workshop, che si è tenuto a Pisa lo scorso venerdì 4 marzo all'interno della suggestiva location della Sala degli Arazzi di Palazzo Reale. Patrocinato dalla neonata Alma Artist Academy, l'Accademia di Belle Arti con sede in via Santa Maria, l'incontro con il maestro milanese è avvenuto a margine di un lungo Open Day che ha aperto i battenti sin dalle 9 del mattino. Anche senza l’ausilio dell’arte che più gli appartiene, la fotografia, Toscani è riuscito a rappresentare con la potenza delle sue parole la situazione odierna dell’arte italiana. “Siamo in un momento di menopausa culturale tremenda” egli ha tuonato ponendo l'attenzione su un'Italia attuale governata dalla mediocrità, da un potere che guarda soltanto al profitto, dove tutto è omologazione privata di quella fondamentale sovversione che alimenta lo spirito dell'artista. Gli artisti, gruppo ristretto di pochi nella società, posseggono una naturale inclinazione a sfidare il “già fatto”, a costo di remare contro i dettami impartiti dal creativo tout court, ossia Dio. Secondo la sua esperienza, le due caratteristiche basilari che fanno un vero artista corrispondono alla sincerità nell'esprimere se stessi senza lasciarsi manipolare dall'esterno e alla perseveranza nel mettere in dubbio schemi e situazioni apparentemente indistruttibili. ![]() Quale significativo aiuto può giungere allora in tal senso dalla frequentazione di scuola, di un’accademia? Nient'altro che lo stimolo a portare avanti il coraggio di dubitare, perché non c’è creatività senza insicurezza. “La creatività è un surplus di energia, intelligenza e sensibilità. È quella possibilità che sta tra il vostro cuore e il vostro cervello”. La creatività deve essere una genesi, bisognosa di energia e discussione continua, deve essere una forza innovatrice e disturbante, visionaria e svincolata da soffocanti norme di mercato. E d'altra parte l’arte, “la più grande forma di comunicazione”, ha l'obbligo di andare aldilà dei profitti e degli interessi economici del committente, che al termine di un lavoro riuscito riceve un arricchimento spirituale. Come suo fine ultimo l'arte deve documentare la condizione umana, perché colui che si limita all’estetica non può essere ritenuto un artista, ma solo un mediocre. E lungo questa direzione la fotografia diventa memoria storica della realtà, uno strumento dalle potenzialità enormi ma oggi abusate in modo assurdo. Toscani si è rivolto in primis ai giovani puntando in particolare il dito contro la “tossicodipendenza tecnologica” che rischia di ammazzare sul nascere la creatività al pari del potere politico ed economico che piega l'arte e gli artisti ai suoi guadagni senza tutelarli in alcuna maniera. Immagini tratte da: immagini proprie degli autori
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Novembre 2020
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