![]() Il 22 aprile scorso i grandi della Terra si sono riuniti a New York per firmare il patto di Parigi sul clima. L'accordo, raggiunto nel corso della XXI Conferenza ONU sul clima (COP21) tenutasi nella capitale francese nel dicembre del 2015, segna una tappa importante nella definizione di una politica ecologica internazionale: per la prima volta i rappresentanti di 175 nazioni hanno approvato e sottoscritto un accordo vincolante per limitare i mutamenti ambientali dovuti all'attività umana. Tra le misure approvate spicca l'impegno a mantenere l'aumento delle temperature entro la soglia dei 1,5 gradi. Un obiettivo di sicuro non facile, ma che potrebbe aiutare ad arginare l'ondata di cambiamenti climatici (anche drastici e, in alcune zone, catastrofici) degli ultimi decenni. I Paesi più industrializzati, inoltre, costituiranno un fondo di 100 miliardi di dollari all'anno per contribuire allo sviluppo di tecnologie e metodi di produzione energetiche non inquinanti (una sorta di risarcimento per i danni finora provocati e di presa di coscienza delle proprie responsabilità); verranno inoltre erogati fondi per le zone più colpite dall'aumento delle temperature, e che fin troppo spesso coincidono con le aree più povere del pianeta. Se il trattato di Parigi è sicuramente un evento di primaria importanza, c'è da chiedersi se non sia ormai troppo tardi per evitare che la situazione climatica mondiale precipiti verso un punto di non ritorno. Le misure approvate dovrebbero entrare in vigore a partire dal 2020: altri quattro anni di attesa rischiano di essere fin troppi. L'accordo arriva infatti dopo vent'anni di promesse non mantenute e di continui rimandi. L'ultima conferenza sul clima, tenutasi a Copenaghen nel 2009, si era conclusa dopo mesi di trattative con un nulla di fatto, a causa dell'opposizione delle potenze industriali emergenti (Cina e India su tutte). Secondo più voci, il mantenimento delle temperature entro i 1,5 gradi, se costituiva un obiettivo perfettamente raggiungibile solo una decina di anni fa, rischia adesso di rivelarsi un'utopia. E persino un aumento così contenuto potrebbe non bastare per arginare l'acidificazione degli oceani, l'aumento delle zone desertiche e il progressivo ritiro delle calotte polari e delle foreste pluviali. L'accordo raggiunto, in poche parole, non sembra abbastanza per fermare i processi di cambiamento climatico tuttora in corso. Il vero problema, però, risiede nella volontà (politica) e nella possibilità (tecnica) di abbandonare gradualmente ma definitivamente i combustibili fossili. Una transizione non certo facile, a cui si oppongono forti interessi economici e limiti tecnologici, ma di cui ormai non si può più fare a meno. Da questo punto di vista spetterà a USA e Cina (che da sole producono più di un terzo delle emissioni di anidride carbonica mondiali) fare quanto più possibile per guidare la transizione. Senza contare che Paesi emergenti come il Brasile e l'India (che ha basato la propria recente industrializzazione quasi interamente sull'uso di combustibili fossili), pur avendo sottoscritto gli accordi internazionali, troverebbe difficoltà enormi nel passaggio a fonti di energia pulita. La firma dei patti di Parigi è indice di una (tardiva, ma ormai inevitabile) presa di coscienza di un problema che ci riguarda tutti. Stavolta, però, i leader mondiali dovranno rendersi conto che il tempo delle promesse e dei proclami è finito: una politica energetica sostenibile non è più un optional o uno slogan elettorale, ma una necessità fin troppo pressante. Immagini tratte da:
Palazzo Nazioni Unite, da Wikipedia inglese, di Steve Cadman, CC BY-SA 2.0, voce Midtown_Manhattan Logo COP21, da Wikipedia inglese, Fair Use, voce 2015 United Nations Climate Change Conference Tabella emissioni CO2, da Wikipedia inglese, di Chris55, CC BY-SA 4.0, voce 2015 United Nations Climate Change Conference
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Il declino della donna più potente del Brasile: corrotta o vittima di un «gioco del trono»?
Con i fatti brasiliani di questi ultimi giorni, è tornata di moda la parola impeachment, che non si sentiva pronunciare dai tempi dello scandalo Lewinski (1998), quando il Presidente USA Bill Clinton andò molto, molto vicino a perdere il posto. ![]()
L’impeachment è, in poche parole, una procedura tipica dei sistemi istituzionali anglosassoni che consente di mettere in stato d’accusa un governante che abbia compiuto atti illeciti nell’esercizio delle proprie funzioni. Non è una cosa così immediata per noi, che abbiamo l’immunità parlamentare dentro la Costituzione (articolo 68), ma è ritenuta un utile contrappeso allo strapotere dei presidenti in sistemi presidenziali come quello statunitense o, appunto, quello brasiliano. Negli USA ci si è andati vicini nel 1974 (scandalo Watergate, ma Nixon si dimise prima) e nel 1998 (affaire Lewinski, appunto, ma Clinton fece un discorso pubblico alla nazione in cui ammise di aver tradito la moglie e di aver spergiurato durante le indagini, riconquistando l’affetto degli americani), anche se di fatto la procedura non è stata messa in pratica. In Brasile, invece, siamo molto avanti: due domeniche fa (17 aprile), oltre i due terzi dei deputati della Câmara dos Deputados hanno votato l’impeachment nei confronti della Presidente Dilma Rousseff, accusata di aver truccato i bilanci statali. Domani (26 aprile) si riunirà una commissione bicamerale di 21 membri, che entro 12 giorni dovrà decidere se far votare anche il Senado Federal. In caso di voto favorevole del Senado, Dilma sarà sospesa per sei mesi, nel corso dei quali potrà difendersi di fronte alla Corte Costituzionale. Al termine dei sei mesi, l’ultimo e definitivo voto del Senado: se almeno 54 senatori su 81 voteranno contro di lei, la procedura si concluderà con la sua decadenza da Presidente e l’indizione di nuove elezioni nel breve periodo. Proprio negli stessi mesi in cui il Brasile, paese ospitante dei giochi olimpici 2016, si troverà sotto gli occhi dei mass media di tutto il mondo, la sua Presidenta sarà in “quarantena”. Ma è davvero la stessa Dilma che al momento dell’elezione fu definita “la Giovanna D'Arco carioca”, a causa del suo coraggio e della sua tenacia?
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Questa storia di ascesa e caduta inizia il primo gennaio 2003, quando venne proclamato Presidente del Brasile l’ex sindacalista Luís Inácio Lula da Silva, fondatore e leader del Partido dos Trabalhadores (“partito dei lavoratori”). Come il quasi omonimo Lulù (Gian Maria Volonté), protagonista de La classe operaia va in paradiso di Elio Petri, Lula si era avvicinato al sindacalismo e alla politica dopo aver perso il mignolo in un incidente nella fabbrica di automobili in cui lavorava. All’epoca, è bene ricordarlo, il movimento operaio brasiliano era oggetto di una dura repressione da parte della dittatura militare (1964-1985). Fu proprio in quegli anni che Lula si costruì l’immagine di politico “dalla parte della gente” che l’avrebbe portato, dopo tre tentativi falliti (presidenziali del 1989, del 1994 e del 1998) a conquistare la presidenza del proprio paese. Le elezioni del 2002, che lo videro trionfare con il 61,3% dei voti, furono la premessa a due mandati in cui il suo consenso fu sempre altissimo. In particolare, il suo governo si propose di affrontare il problema della fame e della povertà estrema, istituendo programmi come Bolsa Família (“borsa famiglia”, ossia un contributo economico per le famiglie che mandano i figli a scuola e li fanno vaccinare), Fome Zero (“fame zero”) e Luz para todos (“luce per tutti”, per dotare ogni abitazione dell’energia elettrica). Dal punto di vista politico, Lula cercò di mediare tra le forze sociali, attraverso riforme molto caute che convincessero sia i potentati economici sia i sindacati, e garantendosi in particolare l’appoggio delle masse più povere (lulismo). Il successo di una simile politica, fondata su ampie spese da parte dello stato, trovò conferma alle elezioni del 5 ottobre 2010, quando fu eletta Dilma Rousseff, pupilla del Presidente uscente.
Socialista di formazione (durante la dittatura passò due anni in prigione e subì diverse torture), Dilma ha tentato di riproporre le politiche luliste, ma senza il carisma del predecessore, né la stessa congiuntura economica favorevole. Dall’estate 2015 soffia sul Brasile un vento di protesta simile a quello degli Indignados spagnoli. Ad aver innescato le proteste popolari, un vasto giro di tangenti versate dai dirigenti della principale azienda petrolifera del paese, Petrobras, agli esponenti della coalizione di governo. Benché gli inquirenti non abbiano accusato direttamente la Rousseff, le opposizioni sono convinte della sua colpevolezza, in quanto ministra dell’energia tra il 2003 e il 2005 e Ministro-Chefe da Casa Civil da Presidência da República - praticamente il primo ministro - negli anni successivi. La crisi politica si è intrecciata con i problemi di un paese che è cresciuto notevolmente prima del 2010 (al punto da far parte con Russia, India, Cina e Sudafrica dei BRICS, ossia le economie emergenti), senza essere in grado di trasformare questa crescita in fattori di sviluppo strutturale. Ad oggi, il Brasile è in recessione e la disoccupazione è al 10%. Dall’estate 2015, il paese è percorso da affollatissime manifestazioni che chiedono a gran voce le dimissioni della Presidenta. Con un consenso ai minimi storici (sotto il 10%), paiono lontanissimi i tempi in cui Lula veleggiava sopra l’80%.
Ad aiutare gli anti-governativi, la storica sentenza del Tribunal de Contas da União (Corte dei conti), che il 7 ottobre ha respinto il bilancio statale del 2014 per irregolarità (non accadeva dagli anni ‘30). Il governo avrebbe utilizzato per alcuni programmi sociali dei fondi pubblici non dichiarati, per un totale di 106 miliardi di real (circa 24 miliardi di euro). Il Partito dei Lavoratori avrebbe agito così per mostrare agli elettori, in occasione delle presidenziali di quell’anno, un’immagine più pulita e attraente dei bilanci pubblici. La strada per l’impeachment è divenuta obbligata, spingendo anche molti esponenti della coalizione di governo a scaricare la Rousseff.
Il clima di sfiducia nei confronti della classe politica è tale che anche l’intoccabile Lula è stato oggetto di indagine per alcune regalìe connesse all’affare Petrobras (ristrutturazioni e mobili di pregio, che a molti giornalisti sono sembrati un po’ poco, per un ex Presidente). Il 4 marzo è stato fermato per un interrogatorio di oltre quattro ore, che ha spinto Dilma a cercare la via migliore di difenderlo: nominarlo ministro. In tal modo, le accuse sarebbero state discusse dal Supremo Tribunal Federal (la Corte Suprema) invece che dal tribunale di Curitiba. Questo comportamento ha solo contribuito a gettare benzina sul fuoco, in quanto nei giorni successivi all’annuncio si sono moltiplicate le manifestazioni di protesta e sono state depositate decine di ordinanze (50 nei tribunali ordinari, 13 alla Corte Suprema) per ottenere l’annullamento della nomina, avvenuto il 18 marzo.
Ma non tutti i brasiliani sono convinti della colpevolezza di Dilma. C’è chi, come il noto cantautore Caetano Veloso (nel video qui sopra), ritiene che questa sia una lotta per il potere, in cui loschi personaggi, non meno corrotti di quelli al governo, vogliono conquistarsi la presidenza senza passare per le urne, approfittando della debolezza della Presidenta. Un golpe, insomma, visto che almeno 37 dei 65 parlamentari che hanno fatto parte della commissione che ha aperto l’istruttoria dell’impeachment hanno pendenze con la giustizia. Tra di loro, anche il potente presidente della Camera Eduardo Cunha, acerrimo nemico della Rousseff. È stata Dilma stessa ad affermare in un’accorata lettera ad un quotidiano nazionale:
É golpe! Não temo investigação de qualquer natureza sobre minha conduta. Jamais me opus ou criei obstáculos a qualquer investigação, sobre quem quer que seja.
Não sou suspeita, não sou investigada, não sou ré, mas querem me derrubar por meio de um impeachment ilegal. Querem me submeter a uma das maiores injustiças que se pode cometer contra alguém: condenar um inocente. Querem condenar uma inocente e salvam corruptos. È un golpe! Non temo indagini di alcuna natura sulla mia condotta. Non mi opposi mai né creai ostacoli a qualsiasi indagine, su qualsiasi cosa. Non sono sospettata, non sono sotto indagine, non sono condannata, ma vogliono destituirmi attraverso un impeachment illegale. Vogliono sottopormi ad una delle più grandi ingiustizie che si possano fare a qualcuno: condannare un’innocente. Vogliono condannare un’innocente e salvano dei corrotti.
Vista da fuori, senza parteggiare aprioristicamente per il governo o i suoi nemici (molti dei quali interni), sembra il nostro 1992. Corruzione endemica, crisi economica, lotta di potere che passa anche dalle aule di tribunale. Da noi finì con un maquillage della classe politica che ne ha mantenuto i peggiori istinti. Chissà se sarà così anche dall’altra parte del mondo.
Fonti e approfondimenti:
- Per chi non ha idea di cosa fosse lo scandalo Lewinski, http://www.ilpost.it/2011/01/22/la-storia-di-bill-clinton-e-monica-lewinsky/; - Il trafiletto in cui Dilma è definita “la Giovanna D’Arco carioca”: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/12/09/dilma-rousseff-la-giovanna-arco-carioca-casa.html?ref=search; - Per saperne di più sul “lulismo”, https://en.wikipedia.org/wiki/Lulism; - Lo scandalo Petrobras in 5 comodi punti (Internazionale): http://www.internazionale.it/notizie/2015/03/17/lo-scandalo-petrobras-in-cinque-punti; - Dettagliati appunti sul declino economico del Brasile, http://www.economist.com/blogs/graphicdetail/2016/04/economic-backgrounder; - Sulle manifestazioni contro Dilma, http://www.ilpost.it/2015/08/17/200-manifestazioni-contro-dilma-rousseff/; - Sulla sentenza della Corte dei conti, http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2015-10-08/brasile-corte-conti-inchioda-rousseff-truccato-bilancio-stato-2014-113007.shtml?uuid=ACCcoOCB; - Per chi legge il portoghese brasiliano, l’agguerrita lettera della Rousseff al Fohla de S. Paulo, http://www1.folha.uol.com.br/poder/2016/04/1761562-democracia-o-lado-certo-da-historia.shtml; - Un documentatissimo articolo di Diego Corrado sulla faccenda Lula (e non solo), http://www.linkiesta.it/it/blog-post/2016/03/30/brasile-una-road-map-per-comprendere-la-crisi/24061/; - Sulla incredibile resistenza alla nomina di Lula a ministro, http://www.lastampa.it/2016/03/18/esteri/brasile-annullata-la-sospensione-della-nomina-lula-ministro-Ond7pOhAmCBde2V7Gna9UP/pagina.html Immagini tratte da: Manifestazione a San Paolo contro la corruzione e il governo del 13 marzo 2016, da Wikipedia spagnola, foto di Rovena Rosa - Agenzia Brasil, CC BY 3.0 br, voce "Proceso de destitución de Dilma Rousseff" La situazione economica brasiliana dall’Economist, http://www.economist.com/blogs/graphicdetail/2016/04/economic-backgrounder. Dilma Rousseff, da Commons Wikipedia, foto di Roberto Stuckert Filho (Presidenza della Repubblica) - Agenzia Brasil, CC BY 3.0 br, voce "Dilma Rousseff" Lula, da Wikipedia italiana, foto di Ricardo Stuckert (Presidenza della Repubblica) - Agenzia Brasil.Questa foto è stata modificata digitalmente (ridimensionamento e riduzione del rumore) ad opera di Lycaon., CC BY 3.0 br, voce "Luiz Inácio Lula da Silva" Si è chiusa ieri sera alle 23,00 la possibilità di votare per il referendum abrogativo riguardo la proroga delle concessioni di estrazione di idrocarburi entro le 12 miglia marine. Fin da subito il dubbio non era tanto sulla percentuale del sì o del no, ma sul raggiungimento del quorum. Il referendum infatti avrebbe avuto risultato valido solo al raggiungimento del 50 % di votanti. Questa volta ha votato solo il 31, 19% degli aventi diritto; rimane quindi tutto invariato per quanto riguarda le proroghe già esistenti. Da notare che tra le regioni con la percentuale di votanti più bassa ce ne sono tre che hanno richiesto il referendum: Campania 26,13%, Calabria 26,70%, Sicilia 28,41%. Qualcosa non ha funzionato; seguendo varie fonti, informatiche e non, nell'era dell'informazione facile probabilmente questo risultato non si può imputare alla disinformazione. Le sue radici sono infatti più profonde. Se escludiamo il referendum del 12 e 13 giugno 2011, è dal 1997 che in Italia non viene raggiunto il quorum. Probabilmente questo non è un segno positivo, indice di un popolo che non si esprime, rinunciando a quel diritto e dovere di ogni cittadino, che oggi si dà forse un po' troppo per scontato. Sarebbe importante ricordare che in Italia il suffragio universale maschile si è avuto soltanto nel 1918, mentre quello femminile nel 1945, con grave ritardo rispetto a molti altri paesi. Si sono svolti dibattiti, manifestazioni e proteste, si sono scritti saggi, trattati e opuscoli riguardo questo diritto che da quasi 20 anni non sembra rientrare tra le priorità dei cittadini italiani. Giusto ammettere con rammarico una sconfitta, che sia per un motivo o per un altro, ma forse sarebbe una reazione troppo fine a se stessa. Sarebbe giusto interrogarsi sul perché di questa scelta, o non scelta, come si preferisca interpretarla. Credo che le motivazioni che abbiano spinto a non votare siano molteplici, alcune che sconcertano per la loro banalità per non parlare di vero e proprio menefreghismo e disinteresse, altre forse più ragionate e complesse. In ogni caso quest'Italia bloccata, bloccata anche, se non soprattutto, da se stessa continua a non prendere una decisione; delega, sceglie di non scegliere, ma è veramente questo il modo più efficace per superare questo stato di empasse che si protrae anche da troppo tempo? Link per i risultati del referendum: - http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04/18/referendum-trivelle-risultati-si-al-86-ma-non-ce-quorum-affluenza-al-32-solo-la-basilicata-supera-il-50/2645416/ Immagini da:
- Mappa delle concessioni da: https://catchy.cartodb.com/viz/13633cac-f72b-11e5-80db-0ecd1babdde5/public_map Un po’ di chiarezza sul Referendum di domenica prossima Dopo il “viaggio” a Cuba della scorsa settimana, ho deciso di rimanere in Italia per questa nuova finestra sull’attualità. L’argomento è davvero attuale, perché tra le 7 e le 23 di domenica 17 aprile 46.887.562 cittadini italiani, nonché 3.898.778 residenti all’estero, sono chiamati a votare al referendum “sulle trivelle”. Cerchiamo di capire cos’è, e quali sono le possibilità che ha un elettore. Anzitutto, è un referendum abrogativo, vale a dire uno strumento previsto dall’articolo 75 della Costituzione per permettere ai cittadini di esprimersi direttamente su una legge. Il cittadino può votare Sì o No. Votando sì, intende abrogare, ossia annullare una legge o parte di essa, votando no intende lasciare la situazione così com’è. I referendum abrogativi, per essere validi, richiedono la partecipazione al voto di almeno la metà più uno degli aventi diritto (il famoso quorum), ossia oltre 25 milioni e mezzo di elettori. Non è una cosa così scontata: va ricordato che, negli ultimi vent’anni, su 28 quesiti posti agli italiani, solo 4 (i referendum su nucleare e acqua pubblica del giugno 2011) hanno raggiunto il risultato. Gli altri 24 sono stati dichiarati nulli. Quest’anno saremo chiamati a votare anche un’altra volta, prima di Natale, per approvare o meno le riforme costituzionali del governo. Si tratterà di un referendum costituzionale (articolo 138), “parente stretto” dell’abrogativo ma in cui non è necessario il quorum. Se andrete a votare (perché c’è anche l’opzione dell’astensione, ne parliamo tra un attimo), il solerte scrutatore vi consegnerà assieme alla matita, una scheda gialla con scritto: Volete voi che sia abrogato l'art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, "Norme in materia ambientale", come sostituito dal comma 239 dell'art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208, "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)", limitatamente alle seguenti parole: "per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale"? Messa così, non è esattamente una cosa facile da spiegare. Andiamo allora a leggere questo comma 17 del decreto legislativo 152 (in grassetto la parte che verrebbe eliminata): Ai fini di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, all'interno del perimetro delle aree marine e costiere a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale, [...] sono vietate le attività di ricerca, di prospezione nonché di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare [...]. Il divieto è altresì stabilito nelle zone di mare poste entro dodici miglia dalle linee di costa lungo l'intero perimetro costiero nazionale e dal perimetro esterno delle suddette aree marine e costiere protette [...]. I titoli abilitativi già rilasciati sono fatti salvi per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale. In parole povere, dal 2006 non è più possibile cercare o estrarre idrocarburi liquidi e gassosi (petrolio e gas) entro le 12 miglia marine delle acque del nostro paese (circa 22 chilometri). Tuttavia, chi aveva già ottenuto concessioni (i “titoli abilitativi già rilasciati”) può ancora farlo. Il punto è: “per quanto?”. Il decreto del 2006 dice “per la durata di vita utile del giacimento”, cioè finché ci sarà gas o petrolio da estrarre; i promotori del referendum vorrebbero cancellare quella riga, in modo che l’estrazione si concluda quando finiscono le singole concessioni. Ad oggi, ci sono in Italia 130 impianti di estrazione di idrocarburi. Di questi, 48 si situano entro le 12 miglia marine dalla costa, molti dei quali in Emilia Romagna. Ne ricaviamo il 17,6% del gas italiano e il 9,1% del petrolio italiano (nel senso di “estratto in Italia”: i nostri consumi sono ovviamente molto più alti). Cosa succede se vince il Sì Tenendo conto delle concessioni esistenti, una vittoria del Sì provocherebbe la chiusura di tutti i 48 impianti entro il 2030. Non succederebbe niente agli altri 82 impianti oltre le 12 miglia, che non sono interessati dal quesito. Cosa succede se vince il No In pratica, i 48 impianti verranno dismessi quando non saranno più produttivi. Se ciò accadrà nel breve o nel lungo periodo, è tutto da vedere. ![]() Le ragioni del Sì La nota organizzazione ambientalista Greenpeace ha proposto le seguenti motivazioni a favore del sì:
Tra i partiti più grandi, si sono espressi a favore del sì il Movimento 5 Stelle, Forza Italia, Sinistra Italiana, Lega Nord, Fratelli d’Italia - Alleanza Nazionale e i Verdi. Le ragioni di chi vota No È più difficile conoscerle, anche perché la maggior parte di coloro che non sono favorevoli al Referendum invitano più o meno esplicitamente direttamente all’astensione (vedi). Principale esponente del fronte del No è l’ex Presidente del Consiglio e Presidente della Commissione Europea Romano Prodi, che ha affermato: «Se dovessi votare al referendum, voterei no, e lo farei per mantenere gli investimenti fatti. Su questo non ho alcun dubbio, anche perché è un suicidio nazionale quello che stiamo facendo. È un tema importantissimo. Ci ho riflettuto bene e devo dire che mi sono sempre schierato sull'assoluta necessità di avere, ovviamente nella massima sicurezza, una produzione nazionale di idrocarburi, come hanno tutti i Paesi. Se non lo facciamo noi, nello stesso mare lo fanno altri». Successivamente, il politico ed economista bolognese ha confermato la propria intenzione di recarsi alle urne, affermando che «se uno è chiamato a votare, va a votare. Io sono un vecchio democratico». ![]() Le ragioni di chi non vota Come in ogni consultazione democratica, il cittadino può rifiutare di recarsi alle urne, contribuendo al mancato raggiungimento del quorum. A questo obiettivo punta il Comitato “Ottimisti & Razionali - NON VOTO” presieduto da Gianfranco Borghini, già deputato per il PCI e il PDS. Secondo O&R, «il catastrofismo non aiuta a crescere e a costruire il futuro. Il progresso avanza solo con lo sviluppo». L’obiettivo del comitato è dunque «contrastare paure, allarmi ingiustificati, luoghi comuni. E difendere davvero l’ambiente con il lavoro, e grazie alla ricerca, alla scienza e alla tecnica». Le ragioni del non voto sono state riassunte nei seguenti punti:
Ma il clima di incertezza non riguarda solo i Democratici. Alle tre posizioni che abbiamo presentato, infatti, si aggiunge l’inedito pilatismo della Conferenza Episcopale Italiana, espresso nelle ermetiche frasi di Monsignor Nunzio Galantino: «Non c'è un sì o un no da parte dei vescovi al referendum; il tema è interessante e che occorre porvi molta attenzione. Gli slogan non funzionano; bisogna piuttosto coinvolgere la gente a interessarsi alla questione. Il punto, quindi non è dichiararsi pro o contro alle trivelle, ma l'invito a creare spazi di incontro, di confronto». E voi, lettori del Termopolio, cosa farete domenica? Mi auguro che questa lunga incursione negli accidentati terreni della politica nazionale abbia risposto ai vostri dubbi. Fonti e approfondimenti
Immagini tratte da:
- Manifesto Comitato “NO TRIV” da: http://www.notriv.com/materiali/; - Logo Comitato “O&R - NON VOTO”, da: https://www.facebook.com/nonsprecareenergia/photos/pb.987465701337346.-2207520000.1460296224./99868328688225/?type=3theater; - Mappa delle concessioni da: https://catchy.cartodb.com/viz/13633cac-f72b-11e5-80db-0ecd1babdde5/public_map
Obama a Cuba, in attesa del dopo-Castro
Non vi suona strano, sentire un inglese che pronuncia lo spagnolo? Eppure questo breve video ha un che di storico. Con queste poche frasi, infatti, Mick Jagger ha preannunciato al popolo cubano il primo concerto dei Rolling Stones all’Avana (25 marzo scorso). “Storico” nel vero senso del termine: a lungo la musica occidentale è stata proibita in terra cubana, in quanto incompatibile con gli ideali del socialismo reale. Altri artisti rock (Manic Street Preachers, Audioslave, anche i nostri Nomadi) si sono esibiti a Cuba prima del gruppo inglese, ma non si è mai trattato di un evento di simili proporzioni. Come possiamo spiegare infatti un concerto che ha portato alla Ciudad Deportiva della capitale 250.000 persone, tra cui Alejandro, figlio di Fidel? La risposta è la stessa che sta dietro alla recente visita di Barack Obama (dal 20 al 22 marzo): il regime è vecchio, vecchissimo. Dall’8 gennaio 1959, quando Fidel Castro, Ernesto Guevara e il Movimento del 26 Luglio entrarono in armi all’Avana, instaurando il nuovo regime socialista, sono passati 57 anni. All’epoca il Presidente del Consiglio italiano era il senatore Adone Zoli (DC) e il Presidente degli Stati Uniti era Dwight Eisenhower, l’eroe dello sbarco in Normandia. In Francia era appena nata la Quinta Repubblica, col generale De Gaulle presidente e in Gran Bretagna… in Gran Bretagna c’era sempre la regina Elisabetta II, ieri come oggi. ![]()
Oggi Fidel ha quasi novant’anni (li compirà ad agosto), e da dieci ha lasciato ogni incarico (“Presidente del Consiglio di Stato” e “Comandante in capo”) al fratello Raúl, di cinque anni più giovane. Appare evidente ai più che la parabola politica della Rivoluzione Cubana è giunta al capolinea, e i Castro si trovano nella situazione di dover negoziare un’uscita di scena indolore e il più possibile conveniente per i cubani.
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La visita di Obama, prima per un Presidente USA dal 1928, nasce dall’esigenza di consolidare i rapporti tra le due nazioni, in vista della prossima scadenza di mandato dello statunitense. Cuba è oggetto, dal 1962, del Bloqueo, ossia l’embargo commerciale, economico e finanziario da parte degli Stati Uniti, sino ad allora il principale partner commerciale dell’isola. È stato proprio Obama a voler riaprire la questione, autorizzando nel 2009 i voli commerciali tra i due paesi e le rimesse da parte della comunità cubana in Florida verso i propri parenti sull’isola (fino a una cifra annuale che ad oggi è di 3000 dollari). Negli ultimi mesi, i progressi sono stati ancora maggiori, con la riapertura delle rispettive ambasciate (americana all’Avana e cubana a Washington), la ripresa del servizio postale diretto, la fine della discriminazione cambiaria nei confronti del dollaro e la concessione dei visti turistici ai singoli cittadini statunitensi, che prima dovevano o viaggiare in gruppo o fare scalo in altri paesi. Appare chiaro che questi provvedimenti, giustificati come un modo per poter rendere il popolo cubano meno dipendente dal regime, intendono creare i presupposti per rapporti commerciali futuri. Se è improbabile pensare alla Cuba di domani come al cinquantunesimo stato dell’Unione, è comunque ipotizzabile che alla scomparsa del castrismo, l’isola entri nel sistema del mercato libero, e gli Stati Uniti non vogliono perdere l’occasione.
Il percorso di avvicinamento tra i due Stati sarà molto lungo. Troppe, le differenze, a partire da quella tra l’efficiente sistema sanitario dell’isola e il complesso sistema di assicurazioni private del paese continentale. A rimanere in sospeso sono soprattutto due questioni: da parte cubana, quella degli oppositori politici, da parte americana, l’embargo.
Per quanto riguarda il primo punto, il sito di Amnesty International ricorda che la Commissione Cubana per i diritti umani e la riconciliazione nazionale (CCDHRN), una ONG che si occupa del dissenso anticastrista, ha documentato per il 2015 oltre 8600 arresti nei confronti di oppositori politici. Neppure sul fronte statunitense si vedono grandi cambiamenti: nonostante le intenzioni di Obama, l’abolizione dell’embargo appare ancora improbabile, in quanto dovrebbe essere votata dal Congresso, a maggioranza repubblicana (il fatto che due tra i più importanti partecipanti alle Primarie repubblicane 2016, Rubio e Cruz, siano di origini cubane, lascia capire quanto contino gli anti-castristi nel partito dell’elefante). Già, Barack: you can’t always get what you want.
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Novembre 2020
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