Quanto sta accadendo in Turchia nelle ultime settimane è destinato a finire nei libri di storia. Difficilmente cambiamenti così radicali passeranno sotto silenzio, ma anzi sono destinati a far rumore. Forse più di quello che possiamo udire noi contemporanei, che apprendiamo distrattamente frammenti di notizie senza riuscire a misurarne la portata. Volendo cercare un filo da riavvolgere occorre partire probabilmente dalle proteste del 2013 contro la costruzione di un centro commerciale nel parco Gezi di Istanbul. Una protesta pacifica e di stampo ecologista si trasformò ben presto in una contestazione del governo del Presidente Erdogan, che tentò di reprimere con la forza la manifestazione. Da lì in poi una escalation di autoritarismo ha inebriato il Sultano, che si è spinto fino alla chiusura di alcuni quotidiani d’opposizione nel solco del più classico dei regimi dittatoriali. Ma per ora noi la chiameremo democrazia. Il delirio di onnipotenza del governo turco ha raggiunto l’apice a seguito del tentato, presunto, ambiguo golpe del luglio 2016, operato da una frangia delle forze armate del Paese, cui è seguita la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale. Circa 150 morti, quasi 3000 arresti e 2500 tra magistrati e insegnanti rimossi dall’incarico. Il Presidente Erdogan ha assunto poteri straordinari consacratisi nel referendum costituzionale del 16 aprile 2017 col quale è stato di fatto sostituito il sistema parlamentare con un sistema presidenziale forte. Il quesito referendario ha ottenuto una risicata maggioranza, oltrepassando di poco la soglia del 50%; per tale motivo sono stati avanzati forti dubbi di brogli elettorali, stante la fortissima pressione mediatica e politica che il governo ha esercitato nei giorni precedenti e soprattutto il caso, sollevato dai partiti d’opposizione, delle schede elettorali non recanti il timbro ufficiale. I tribunali hanno tuttavia respinto questa ricostruzione dei fatti, e le opposizioni hanno minacciato di ricorrere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che invero non ha competenza in Turchia poiché l’adesione del Paese venne sospesa all’indomani del golpe del luglio 2016. Una situazione che, insomma, traccia una linea di demarcazione nettissima tra la struttura statale del Paese di mezzo, epico ponte geografico tra Europa e Asia, e la democrazia. Nello specifico, la riforma della Costituzione approvata dal referendum ha come primo effetto quello di sovrapporre le cariche di Premier e di Capo dello Stato, con maggiori poteri a quest’ultimo che potrà nominare personalmente i ministri, alcuni alti funzionari pubblici e 3 membri del Consiglio Superiore della Magistratura, oltre a sottoporre la legge di bilancio al Parlamento. Il Parlamento, inoltre, si vede ridurre i margini di controllo sull’operato dell’esecutivo attraverso nuovi ostacoli ai suoi poteri di vigilanza. In buona sostanza stiamo assistendo a un accentramento dei poteri statali in un unico ruolo, attualmente ricoperto da Erdogan, palesando in maniera preoccupante la reversibilità del sistema democratico, monito per tutti i Paesi ‘evoluti’ che non basta aver raggiunto uno standard accettabile di democrazia ma occorre mantenerlo. In periodi come quello attuale, sferzato dal terrorismo internazionale e dalla crisi economica, la storia insegna che il populismo cede facilmente il passo all’autoritarismo, anticamera di conflitti sanguinosi. La Turchia rappresenta anche geograficamente il primo Paese di frontiera, al confine tra la civile Europa e la barbarie delle guerre mediorientali: è stato il primo a cadere vittima dell’uomo forte al comando, che sa come, dove, cosa e quando risolvere i problemi, per quanto grandi siano, calpestando elementari diritti umani proprio come in quei Paesi martoriati da guerre e terrorismo. Calpestando i diritti di Gabriele Del Grande, ad esempio, giornalista italiano detenuto da ormai 13 giorni nel Paese turco senza un capo d’imputazione, colpevole di provenire dalla Siria, dove era andato a intervistare profughi di guerra. Il clima è tesissimo e la comunità internazionale sta prendendo pericolosamente tempo, conscia del fatto che Erdogan è diventato ben più di un Presidente di uno Stato di frontiera, bensì è a tutti gli effetti il capo indiscusso di uno Stato dove la libertà ha subìto una restrizione inaccettabile, ma effettiva. E per ora, noi, la chiameremo col suo nome: dittatura.
Immagine tratta da vignetta di Joep Bertrams
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“Mi sono rotto il cazzo della sicurezza come fiera della forca, sarebbe bello bruciassero meno fabbriche e crollassero meno scuole e scippassero più vecchiette” ha scritto Alberto Cazzola, cantante de Lo Stato Sociale. Un verso sarcastico che circoscrive però un problema sentito dalla società moderna, ovvero la sicurezza. O meglio, la percezione della sicurezza. I due concetti divergono in maniera piuttosto netta, specialmente negli ultimi anni. È notizia delle ultime ore che il Questore di Milano Marcello Cardona abbia ammesso di essere sommerso dalle richieste di concessione di porto d’armi, che vengono puntualmente negate. Non è difficile capire il motivo di un numero così alto di cittadini spaventati dall’aumento della criminalità: negli ultimi anni abbiamo assistito a un’esplosione delle notizie di cronaca riprese dai mass media. Notizie crude, bagni di sangue, rapine violente. E poi l’annosa questione della legittima difesa e dei suoi limiti legali, su cui non ci soffermeremo in questa sede ma che costituisce naturale corollario della smania di difendersi in modo sempre più libero, forse fino al punto di offendere. Tuttavia, questa escalation di terrore mediatico si scontra con la realtà e con l’aritmetica. Una rapida occhiata alle statistiche giudiziarie dell’Istat delinea un quadro ben diverso da quello percepito: negli ultimi anni i reati sono costantemente calati. Tra il 2014 e il 2015 (gli ultimi anni per i quali siano disponibili statistiche complessive) sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria circa 200mila reati in meno. Anche i reati che creano più allarme sociale, quali furti e rapine, sono in costante decremento, soprattutto queste ultime. Eppure la sensazione di insicurezza è capillarmente diffusa nella società moderna. Un ruolo enorme è svolto dai social media: il costante profluvio di informazioni microscopiche, vaghe, frammentate, talvolta completamente false aumenta lo scollamento tra quanto percepito e il reale status quo. Tuttavia questo argomento ci porterebbe lontano, a discutere sull’analfabetismo funzionale, che non può essere spiegazione esauriente del problema in oggetto. Argomento più pertinente, invece, che contribuisce ad aumentare una sensazione di scarsa tutela del cittadino, è il funzionamento dell’apparato giudiziario. Secondo una diffusa opinione, suffragata da un recentissimo sondaggio apparso su La Repubblica nelle ultime ore, il sistema giudiziario italiano è visto come scarsamente indipendente: oltre il 60% degl’intervistati lamenta la mancanza di terzietà degli organi giudicanti, e solo il 2% è molto soddisfatto della giustizia (in Danimarca è l’86%, in ossequio all’esterofilia del “fuori è meglio” sempre e comunque). Trattando di sicurezza, circoscriveremo l’analisi al funzionamento del sistema penale. Anche qui, infatti, la popolazione denuncia carenze enormi che non sembrano essere così fondate. Ad esempio siamo portati a pensare che i processi durino troppo: ciò è indiscutibilmente vero nel sistema giudiziario civile e amministrativo, mentre è del tutto falso per ciò che riguarda quello penale. I tre gradi di giudizio si svolgono, in media, in tre anni e mezzo, poco oltre la media europea, equivalente al periodo medio di tempo del solo processo di primo grado nel settore civile. Ciò significa che i reati vengono perseguiti eccome, in barba alla teoria un po’ qualunquista secondo cui nel nostro Paese delinquere conviene. E in barba a chi dice che in galera non ci va mai nessuno: il problema del sovraffollamento carcerario dovrebbe bastare, di per sé, a smentire quest’altro assunto. Anzi, probabilmente nel nostro Paese si va in galera un po’ troppo facilmente: circa un terzo dei detenuti non ha una condanna definitiva ma è in attesa di giudizio. Tutti questi dati messi in fila possono confondere, ma una lettura sistematica ci consente di affermare che il nostro Paese è ben più sicuro di quanto non ci appaia, che delinquere non conviene affatto, che in galera si va eccome, forse addirittura troppo. Le spinte populiste degli ultimi tempi hanno contribuito senza dubbio ad accrescere le paure dei cittadini, sempre più scollati dalla realtà, non solo in tema di sicurezza ma anche di immigrazione; per citare un caso clamoroso, gli extracomunitari nel nostro Paese sono il 5,8% della popolazione ma un sondaggio della Ipsos nel 2016 ha svelato che gli italiani suppongono siano il 30%, ovvero oltre un quintuplo del reale. Il vero dramma, in questo dedalo di numeri e statistiche, è la constatazione che ci si affida più alle notizie apprese di sfuggita in un telegiornale o alle flash news dei social piuttosto che dei propri stessi occhi. La lamentela perenne sta sostituendo il calcio come sport nazionale e stiamo giocando una partita in cui, pur avanti nel punteggio, continuiamo a credere di essere sempre in fondo. Finendo così per starci davvero. Immagine tratta da pinterest.com Chi scrive, esattamente come chi legge, non ha alcuna prova certa e inoppugnabile che il governo del Presidente siriano Bashar Al-Assad sia diretto responsabile dell’attacco del 4 aprile scorso, compiuto con armi chimiche nella provincia di Idlib nella Siria nord-occidentale, che ha causato oltre 70 morti civili di cui circa 20 bambini. Ci sono però indizi gravi, precisi e concordanti sulla responsabilità del governo centrale, tale che sia possibile attribuirgli con discreto margine di sicurezza la paternità dell’attacco. Innanzitutto i precedenti: è stato accertato da organizzazioni internazionali (l’Onu) che nell’agosto del 2013, nell’aprile 2014 e nel marzo 2015 in Siria si sono verificate operazioni di guerra attraverso l’uso di armi chimiche; si è trattato di missili carichi di gas sarin, una neurotossina che paralizza il sistema nervoso, e bombe al cloro, che provoca morte per asfissia. Gli attacchi, compreso quello recente, sono sempre avvenuti sul territorio controllato dai ribelli, i gruppi islamisti che puntano a sovvertire il governo legittimo di Assad. Tale eventualità sembrerebbe deporre con una certa ragionevolezza per la tesi che vuole il Governo responsabile dei massacri. Per loro natura le armi chimiche, quelle batteriologiche e quelle radioattive hanno effetti incontrollati sul territorio circostante, non è possibile definire con esattezza il loro raggio d’azione, ed è questo il motivo – ipocrita ma comprensibile – per il quale il loro uso è sanzionato come crimine di guerra. Appare dunque inverosimile che possano essere gli stessi insorti a utilizzare tali armi nel loro stesso territorio; il terrorismo, invero, non segue criteri logici, ma punta ad ingenerare irrazionale paura nei civili per renderli fragili e manovrabili. Tuttavia per quanto detto poc'anzi, una simile strategia politico-militare sarebbe sconclusionata se portata avanti con armi non convenzionali, stante la possibilità per i carnefici di danneggiarsi da sè. Infatti esse possono avere effetti sinergici imprevisti, avvelenare falde acquifere o la stessa aria: quale organizzazione, per quanto criminale, punterebbe a difendere o conquistare territori avvelenati? Inoltre le armi chimiche hanno canali differenti dalle armi “comuni”: la loro produzione è controllata (in virtù della Convenzione Internazionale sulle armi chimiche del 1997) e dunque la loro circolazione è ben più ardua dei kalashnikov onnipresenti negli scenari di guerra e guerriglia da 30 anni a questa parte in Africa e in Medioriente. Pare quindi molto difficile che i ribelli possano accedervi; tuttavia secondo la rivista Bloomberg “non è da escludere che i ribelli possano avere accesso ai depositi militari”. Un’ipotesi da prendere in considerazione, ma che tuttavia si scontra con la logica di utilizzare tali strumenti di sterminio umano ed ambientale sul proprio territorio. Inoltre le testimonianze dell’attacco del 4 aprile sono univoche nel dichiarare che l’attacco è piovuto dall’alto a opera dell’aviazione militare; la difesa isolata del Presidente Assad – sostenuta solo dall’alleato russo in sede di Consiglio di Sicurezza dell’Onu – ha invece dichiarato che è stato un attacco convenzionale su alcuni depositi militari dei ribelli, contenenti armi chimiche, a perpetrare la strage. Le autopsie eseguite in Turchia su alcune vittime (alla presenza di delegati dell’Oms) hanno appurato che è stato usato del cloro nell’attacco: le immagini dei corpi spastici e schiumanti sono lì a testimoniarlo. La tragedia siriana pare infinita, l’Unicef ha sentenziato che nell’attacco del 4 aprile nella provincia di Idlib “l’umanità è morta”. Morta in un esperimento sbagliato, proprio come noi, idioti, che moriamo di paura ogni giorno che cambiamo canale per sentirci meno colpevoli, meno coinvolti. Meno umani. Immagine tratta da www.tgcom24.mediaset.it
Consegnata la lettera di notifica dell'articolo 50 del trattato di Lisbona che dà il via all'operazione Brexit. Intanto la Scozia vuole un nuovo referendum per staccarsi dalla Corona.
Ci sono voluti ben 9 mesi, ma alla fine Brexit sarà. Dopo tutto questo tempo qualcuno aveva sperato in possibili ripensamenti dell'ultima ora, dato che il parlamento avrebbe dovuto approvare quanto il referendum dello scorso giugno aveva sancito. In effetti, nel corso di questi mesi, diverse sono state le manifestazioni, i dibattiti e i talk show in Inghilterra (e non solo) che contestavano la decisione popolare, evidenziandone rischi e difetti per il popolo anglosassone, ma non hanno prodotto gli effetti sperati. Mercoledì 29 marzo, l'ambasciatore britannico all'UE, Tim Barrow, all'indomani dell'approvazione referendaria del parlamento, ha presentato la lettera di notifica al presidente del consiglio europeo, Donald Tusk, così come previsto dal trattato di Lisbona. La lettera, firmata dal premier Theresa May, ha dato il via all'iter burocratico che sancirà l'uscita definitiva della Gran Bretagna dall'UE tra due anni.
Dopo i grandi dibattiti in seguito al risultato del referendum, altri se ne sono aggiunti dopo la consegna della lettera. Com'era prevedibile, diverse sono stati le reazioni. Theresa May ha parlato di scelta storica, dichiarando di aver voluto credere nel suo popolo e sostenendo che i giorni migliori per la Gran Bretagna arriveranno dopo la Brexit. Di orientamento completamente opposto le dichiarazioni dei più importanti capi di stato che fanno parte dell’UE (almeno per il momento). La cancelliera tedesca Angela Merkel ha dichiarato come sperasse che questo giorno non arrivasse mai; il Presidente francese Hollande ha previsto giorni difficili per la Gran Bretagna dopo l'uscita dall' UE e il premier italiano Gentiloni ha auspicato che questo shock rappresenti un'opportunità di rilancio e risveglio per l'Europa. Non poteva poi mancare la reazione di Bruxelles che, a dirla tutta, è stata meno diplomatica rispetto a quella dei suoi partners. Infatti, il presidente della commissione europea Jean Claud Juncker, ha predetto che un giorno i britannici rimpiangeranno la loro scelta perché, a parer suo, l'unione è il miglior posto dove stare nel mondo. Ancora più duro è stato il commento del presidente del consiglio Tusk che non solo ha ribadito che a perderci saranno i britannici, ma ha sottolineato come non ci saranno negoziazioni di nessun genere. L'uscita della Gran Bretagna sarà totale, neanche la sicurezza sarà moneta di scambio e, soprattutto, dovrà rispettare gli impegni finanziari presi fino a oggi con tutti i 27 paesi dell'UE. Il premier May sembra aver percepito una certa ostilità di Bruxelles da parte dell'ex partner e ha anche ribadito che la Gran Bretagna non farà parte del mercato comune perché con il referendum sulla Brexit il regno si è riaggiudicato il pieno controllo sui confini e la piena sovranità. Intanto è proprio su queste ultime tematiche che la Scozia, per voce del suo premier Nicola Sturgeon, è tornata a richiedere a gran voce e ufficialmente un nuovo referendum per l'indipendenza dalla Corona britannica. Ricorderete che nel 2014 ci fu già un referendum in Scozia dove si votò per la permanenza, ma oggi, dopo la Brexit, le condizioni sono cambiate per il premier scozzese. In effetti nella regione scozzese il no alla Brexit fu piuttosto netto e ora, in nome di quella piena sovranità che ha portato la Gran Bretagna all'uscita dall'UE, la Scozia pretende di avere la stessa opportunità.
Questa ondata scozzese di europeismo è comunque in netto contrasto con quello che succede in tutta Europa. Se da una parte in Olanda la vittoria del liberale europeista Rutte nei confronti del populista e antieuropeista Wilders ha dato ossigeno all'UE, dall'altra i prossimi appuntamenti elettorali rischiano di minare seriamente la credibilità della stessa. Le elezioni, prima in Francia poi in Germania e, chissà, magari anche in Italia, ci diranno molto sull'effetto che la Brexit ha avuto sull'intera Europa.
Immagini tratte da: -http://www.ansa.it/sito/notizie/speciali/2017/03/28/brexit-may-e-un-momento-storico.-scozia-chiede-referendum-bis-su-indipendenza_5bf3663a-e90d-4c6b-85f5-b29f68604629.html -http://www.repubblica.it/esteri/2017/03/31/news/brexit_tusk_sicurezza_non_sara_moneta_di_scambio_-161859241/ |
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Novembre 2020
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