di Giulia Cartei Negli ultimi tempi si sente molto parlare della crisi economica dovuta al Corona virus, degli impatti che avrà sull’economia reale e delle politiche più idonee per fronteggiarla, avanzando spesso parallelismi con la crisi finanziaria nata negli USA nel 2006-2007 e culminata con il default della banca di investimento Lehman Brothers avvenuta nel 2008. Ma ci sono veramente tutte queste similitudini con la situazione odierna? In realtà si tratta di due crisi causate da shock di natura completamente diversa, le quali richiedono dunque soluzioni diverse. Cerchiamo di analizzarle entrambe evidenziandone i tratti principali senza eccedere con i tecnicismi… La crisi del 2008 nota come crisi “sub-prime” è stata causata da uno shock di tipo finanziario, legato alle operazioni di cartolarizzazione, con cui le banche immettevano sul mercato strumenti finanziari, detti derivati, che traevano il loro valore da strumenti sottostanti, rappresentati in questo caso dai mutui concessi agli americani per l’acquisto delle case. In altre parole, la cartolarizzazione (fig.1) è un’operazione, che consente alla banca di creare, mediante delle società veicolo (SPV), degli strumenti finanziari per vendere mutui sul mercato. Ciò consente di smobilizzare le voci dell’attivo patrimoniale ottenendo subito liquidità, mediante la vendita sul mercato del contratto derivato, che incorpora il mutuo, anticipando così il rientro del capitale prestato. Fig.1 : operazione di cartolarizzazione Dunque, se la cartolarizzazione è un’operazione lecita con cui le banche possono recuperare liquidità e finanziare il sistema economico o effettuare investimenti e ricapitalizzazioni, cosa non ha funzionato in questo meccanismo? Il problema è legato in primis alla natura dei soggetti finanziati. Infatti, già a partire dal 2003 era aumentato significativamente il mercato dei mutui subprime, ossia la concessione di prestiti ad alto rischio erogati a soggetti con uno scarso merito creditizio. Allo sviluppo del mercato sub-prime ed alla cartolarizzazione di tali mutui in titoli di debito da vendere sul mercato, si aggiunse una dinamica crescente dei tassi di interesse, dovuta alla politica monetaria della FED (Banca Centrale americana), che a partire dal 2004, in risposta alla ripresa economica statunitense, iniziò ad alzare i tassi di interesse, facendo aumentare gli importi delle rate da rimborsare. Ciò rese sempre più difficile per i debitori “sub-prime” restituire il debito e si verificarono numerosi casi di insolvenza. In tale contesto, la domanda di immobili si ridusse notevolmente facendo scoppiare la bolla immobiliare, la quale causò un crollo dei prezzi degli immobili e la conseguente contrazione del valore delle ipoteche a garanzia dei mutui cartolarizzati, che erano stati venduti sul mercato sotto forma di titoli derivati. Le istituzioni finanziarie più coinvolte nell'erogazione dei mutui subprime registrarono pesanti perdite. A partire da luglio 2007 e per tutto il 2008, inoltre, si susseguirono vari declassamenti del merito di credito (downgrading) dei titoli cartolarizzati da parte delle agenzie di rating. Tali titoli, ormai ampiamente diffusi sul mercato, persero ogni valore e diventarono illiquidabili, costringendo le società veicolo a chiedere fondi alle banche che li avevano emessi e ne avevano garantito linee di liquidità. In tale situazione, molte banche subirono perdite pesanti, le quali portarono alcuni tra i maggiori istituti di credito statunitensi sull’orlo fallimento, evitato grazie all'intervento del Tesoro americano. Tuttavia, la banca di investimento Lehman Brothers, non ricevette sostegni e fu fatta fallire. La decisione delle Autorità americane di lasciare fallire una grande istituzione finanziaria come Lehman, con un'ampia e rilevante operatività anche fuori dagli Usa e ritenuta “too Big too Fail,” innescò una fase di forte instabilità e sfiducia degli operatori, e alimentò un clima di fortissima tensione e incertezza su tutti i mercati mondiali. Tale situazione generò una nuova drastica riduzione della liquidità e un aumento dei tassi a breve termine, che costrinse le Banche Centrali dei vari Stati ad adottare politiche monetarie espansive di immissione di liquidità e taglio dei tassi di interesse, che la teoria economica ci insegna essere le più efficaci per curare gli shock di natura finanziaria. Dunque come abbiamo appena visto le cause della crisi del 2008 sono di natura finanziaria, quindi ben diverse dalle cause della crisi attuale, dovuta ad uno shock sanitario, dovuto alla pandemia e seguito da un altro shock di tipo reale e simmetrico, che per effetto del lockdown ha colpito sia il lato della domanda sia dell’offerta (calo dei consumi e blocco di gran parte della produzione). Tali shock hanno avuto anche delle ripercussioni a livello finanziario, scatenando reazioni di panic selling sui mercati, preoccupati per la stabilità e solvibilità del sistema e per la possibile contrazione della liquidità. Come se non bastasse, la diffusione della pandemia è avvenuta in un contesto macro-economico, che già a inizio 2020 mostrava i primi segni di debolezza e rallentamento della crescita economica, accompagnata dai segnali dell’imminente shock petrolifero, dovuto alle tensioni tra Russia, Arabia Saudita e USA, che hanno portato al fallimento dell’OPEC (cartello per la regolazione della produzione di petrolio) e conseguente crollo del prezzo del petrolio, il quale ha toccato nuovi minimi storici (persino valori negativi nei contratti future). Si tratta dunque di una situazione complessa, in cui si è verificata la convergenza di shock di natura reale: diffusione del corona virus, lo shock petrolifero e il lockdown, i quali hanno causato una paralisi economica paragonabile ai periodi post-bellici. Quindi se alla base della crisi dei sub-prime e della crisi-Covid vi sono cause di natura completamente diversa, è corretto fare dei parallelismi in termini di tempi di ripresa e di misure da adottare? Direi di no, non solo per la natura degli shock ma anche per le differenze della situazione macro-economica ed elementi strutturali del mercato finanziario e dell’economia reale. Quindi quali politiche adottare in caso di shock di natura reale? In questo caso la teoria economica insegna che la misura più efficacie è la politica fiscale, la quale consente di accumulare debito pubblico al fine di finanziare investimenti strutturali (infrastrutture, sanità, istruzione...) per far ripartire l’economia, far crescere il PIL e l’occupazione. Si tratta di misure note in letteratura come politiche “Keynesiane” dovute all’economista John Maynard Keynes e adottate, ad esempio, dal presidente degli USA Roosvelt nell’ambito del “New Deal” per la ripresa post crisi del 1929. Infatti, in situazioni di shock reale, la politica monetaria espansiva (taglio dei tassi, immissioni di liquidità e ogni altra misura adottabile dalla BCE) è necessaria per garantire liquidità al sistema e avere effetti “sedativi” dei mercati nell’immediato, ma stand-alone non è sufficiente per uscire da crisi di natura reale. Se ne deduce che la “cura” da adottare per la crisi Covid è un mix di due farmaci: la politica monetaria espansiva, messa in atto da tutte le banche centrali dei diversi Paesi, per garantire liquidità al sistema, la quale deve essere affiancata dlla politica fiscale, che per l’intensità della crisi che stiamo vivendo, dovrebbe essere adottata in modo uniforme a livello comunitario. Infatti, gli effetti della pandemia sono così profondi sui sistemi economici che le politiche fiscali dei singoli Stati risultano insufficienti per contrastare degli squilibri paragonabili persino ad un evento bellico. In altre parole, per contrastare un evento straordinario servono misure altrettanto straordinarie, e l’unica via percorribile è il raggiungimento di un accordo celere da parte del Consiglio Europeo, che dovrebbe metter da parte il rigore e i vincoli di bilancio per consentire la ripartenza economica. Ad oggi purtroppo tra i Paesi europei vi è uno scontro totale sulle misure da adottare in particolare su Corona-Bond e MES (fondo salva Stati soggetto a condizionalità). Il Consiglio è diviso in due blocchi: da un lato Italia, Francia, Paesi del Sud-Europa, ma anche Belgio, Irlanda e Lussemburgo favorevoli ai Covid-Bond, dall’altro Germania, Austria, Olanda e Finlandia (fig.2), che si rifiutano di approvare uno strumento di condivisione del debito come i Covid-Bond e propongono di ricorrere al MES. Le posizioni dei due blocchi sembrano essere inconciliabili e sta spuntando un’ulteriore ipotesi, i cosiddetti recovery bond, che al momento sembrano la soluzione più probabile. Si tratta di emissioni di titoli comuni, garantiti direttamente dal bilancio dell’Unione Europea, mediante un fondo specifico, denominato Recovery fund. Tali strumenti avrebbero lo scopo di finanziare la ripartenza dell’economia dei vari Paesi, tramite la condivisione a livello europeo dei soli costi futuri legati all’emergenza Covid-19, ma non dei debiti pregressi come previsto dai Corona-Bond. La decisione che il Consiglio è chiamato a prendere è vitale non solo per la ripresa dalla crisi economica ma anche per mantenere gli equilibri geopolitici. Inoltre, rappresenta l’opportunità per l’Europa di dimostrarsi una vera e propria Unione e non, come direbbe Metternich, una semplice espressione geografica. La dimostrazione di unitarietà è un’occasione che l’Europa non può perdere, la disgregazione è un rischio che non possiamo correre, se non vogliamo perdere ulteriore competitività verso USA e Cina. In fondo, per metter da parte le divergenze, basterebbe ricordarci che l’Europa è convenuta a tutti, regalandoci un’era di pace dopo un ‘900 segnato da due conflitti mondiali.
0 Commenti
|
Details
Archivi
Novembre 2020
Categorie |