Professore di Igiene e Medicina Preventiva all’Università di Pisa dal 2016, precedentemente ha lavorato come ricercatore e professore associato presso l’Università di Bari oltre ad aver concluso un’esperienza di circa dieci anni a Stoccolma presso l’ECDC (Centro Europeo per la Prevenzione delle Malattie), l’agenzia dell’Unione Europea preposta al monitoraggio delle malattie infettive. Nel tempo libero è stato co-autore di un capitolo della sesta edizione di ‘Vaccines’, un bignami di sole 1500 pagine dal costo di 500 dollari scritto da tre medici statunitensi (non sappiamo se prezzolati da Big Pharma o meno). Un tale curriculum, dicevamo, non osta alla linearità dell’esposizione del professore, che si dimostra una persona disponibile oltre quanto fosse lecito attendersi.
Professore, iniziamo dalle basi più elementari. Che cos’è un vaccino? Un vaccino è un prodotto biologico: in esso sono contenuti gli antigeni, ovvero microrganismi o parti di essi che, una volta somministrati ad un soggetto, ingenerano la risposta immunitaria del suo corpo. […] Non sarebbe il caso di rendere coercitivo l’obbligo di vaccinazione per il personale medico, impedendo ai non vaccinati di lavorare in strutture sanitarie, e ancor più per i bambini, subordinando l’accesso a scuole e asili al corretto adempimento delle vaccinazioni? L’obbligo è declinabile in differenti modi. In Australia ad esempio è prevista l’esclusione dall’assicurazione sanitaria per chi sceglie di non vaccinarsi. Loro dicono: non ti vaccini? Allora ti curi a pagamento da solo. È una coercizione indiretta che però funziona. Negli Stati Uniti ci si può sottrarre alla vaccinazione dichiarando espressamente al medico la volontà di non vaccinarsi e i motivi di tale scelta, ed è impedito l’accesso alle scuole per i bambini non vaccinati. Diventa così impossibile sottrarvisi. Bisogna parlare quindi di incentivi e disincentivi, non di obbligo. Perché i genitori non vaccinano i bambini? Io non credo che si possa ridurre tutto alla diffusione di Internet. No, infatti non è solo quello. Premettiamo: la stragrande maggioranza dei genitori vaccina i propri figli, siamo comunque intorno al 90%. …però colpisce la diminuzione degli ultimi anni, dal 95% al 90%. Non è assurdo? C’è un motivo sociologico. Abbiamo genitori molto informati che però vivono un periodo storico di enorme sfiducia nelle istituzioni, che travolge tutto ciò che viene visto come “sistema”, e quindi indistintamente professori, medici, politici. […] Quali sono i reali rischi di un vaccino? I rischi sono ben conosciuti dalla scienza. In un soggetto sano, come ogni medicinale, un vaccino ha degli effetti collaterali molto accettabili. […] L’argomento dei vaccini è tristemente importante: è singolare che uno dei traguardi migliori della scienza medica, che insieme agli antibiotici ha contribuito a raddoppiare l’aspettativa di vita nel mondo nell’ultimo secolo, sia messo oggi in discussione. Ci sono esempi, però, che parlano da soli: forse molti ignorano che a causa del vaiolo, nel XX secolo, sono morte oltre 300 milioni di persone. A seguito di una massiccia campagna di vaccinazione portata avanti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’ultimo caso al mondo registrato si è avuto nel 1977. Da allora la malattia è stata eradicata, ovvero è letteralmente scomparsa dalla faccia della Terra, primo caso nella storia. Oggi, infatti, il vaccino contro il vaiolo non esiste più. E questo è forse lo scopo ultimo, fondamentale, di un vaccino: serve a fare a meno di esso. Per approfondire maggiormente la questione, a questo link troverete la versione integrale dell'intervista.
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La caratteristica più notevole del Professor Lopalco è senza dubbio la chiarezza, dono piuttosto raro tra gli addetti ai lavori. Professore di Igiene e Medicina Preventiva all’Università di Pisa dal 2016, precedentemente ha lavorato come ricercatore e professore associato presso l’Università di Bari oltre ad aver concluso un’esperienza di circa dieci anni a Stoccolma presso l’ECDC (Centro Europeo per la Prevenzione delle Malattie), l’agenzia dell’Unione Europea preposta al monitoraggio delle malattie infettive. Nel tempo libero è stato co-autore di un capitolo della sesta edizione di ‘Vaccines’, un bignami di sole 1500 pagine dal costo di 500 dollari scritto da tre medici statunitensi (non sappiamo se prezzolati da Big Pharma o meno). Un tale curriculum, dicevamo, non osta alla linearità dell’esposizione del professore, che si dimostra una persona disponibile oltre quanto fosse lecito attendersi. Professore, iniziamo dalle basi più elementari. Che cos’è un vaccino? Un vaccino è un prodotto biologico: in esso sono contenuti gli antigeni, ovvero microrganismi o parti di essi che, una volta somministrati ad un soggetto, ingenerano la risposta immunitaria del suo corpo. La differenza tra il vaccino e la malattia vera e propria è che il primo simula la malattia, induce il corpo a rispondere ad una malattia - che non c’è - per mettere in condizione l’organismo di essere già pronto alla reazione qualora entrasse in contatto con la malattia vera, “selvaggia”. Pertanto dire che con il vaccino viene somministrata la malattia nell’organismo del ricevente è del tutto sbagliato, un luogo comune privo di fondamento: ad essere somministrato è un antigene, non il virus o il batterio causa della malattia. Sappiamo che esistono dei vaccini obbligatori ed altri che non lo sono. Quali sono quelli obbligatori e perché per alcuni è previsto un regime differente? I vaccini obbligatori oggi, per legge, sono tre: per la difterite, per il tetano e per la polio. Il motivo per cui questi sono obbligatori è un motivo puramente storico. La loro obbligatorietà è molto risalente nel tempo, intorno agli anni ‘50/’60, periodo in cui era mediamente diffusa l’incidenza di simili patologie. Nel ’91 è stata introdotta l’obbligatorietà anche del vaccino contro l’epatite B. Accanto a questi vi è una importante sequela di vaccini fortemente raccomandati, ma la cui eventuale evasione non comporta alcuna sanzione: sono i vaccini contro pertosse, morbillo, rosolia, parotite ed emofilus. E’ molto discutibile lasciare che alcuni di questi non siano obbligatori. Ad esempio la polio è una malattia quasi del tutto eradicata ma continua la vaccinazione obbligatoria, mentre l’emofilus è attualmente circolante con conseguenze pericolosissime: un bambino non vaccinato colpito dal virus potrebbe sviluppare la meningite e morire. Questo dualismo tra vaccini raccomandati ed obbligatori è finto, inutile o addirittura dannoso. Dunque dalle sue parole pare di capire che occorra un ripensamento della legislazione in materia. Assolutamente si. Le leggi sulle vaccinazioni sono obsolete e frammentarie. Sarebbe auspicabile un Testo Unico che regoli integralmente la materia e che superi questo dualismo artificioso tra vaccinazioni obbligatorie e raccomandate. L’obsolescenza della materia è tangibile: si pensi al neonato che fa il vaccino contro la pertosse, ma il medico che gli somministra il vaccino non è vaccinato poiché 30-40-50 anni fa tale vaccino non esisteva. E’ recente il caso di un’infermiera di un reparto di oncoematologia che ha contratto la varicella. La varicella di per sé è una malattia piuttosto banale, ma contratta da un bambino immunodepresso è mortale. Alla luce di quanto lei sta affermando non sarebbe il caso di rendere coercitivo l’obbligo di vaccinazione per il personale medico, impedendo ai non vaccinati di lavorare in strutture sanitarie, e ancor più per i bambini, subordinando l’accesso a scuole ed asili al corretto adempimento delle vaccinazioni? L’obbligo è declinabile in differenti modi. In Australia ad esempio è prevista l’esclusione dall’assicurazione sanitaria per chi sceglie di non vaccinarsi. Loro dicono: non ti vaccini? Allora ti curi a pagamento da solo. E’ una coercizione indiretta che però funziona. Negli Stati Uniti ci si può sottrarre alla vaccinazione dichiarando espressamente al medico la volontà di non vaccinarsi e i motivi di tale scelta, ed è impedito l’accesso alle scuole per i bambini non vaccinati. Diventa così impossibile sottrarvisi. Bisogna parlare quindi di incentivi e disincentivi, non di obbligo. Perché i genitori non vaccinano i bambini? Io non credo che si possa ridurre tutto alla diffusione di Internet. No, infatti non è solo quello. Premettiamo: la stragrande maggioranza dei genitori vaccina i propri figli, siamo comunque intorno al 90%. …però colpisce la diminuzione degli ultimi anni, dal 95% al 90%. Non è assurdo? C’è un motivo sociologico. Abbiamo genitori molto informati che però vivono un periodo storico di enorme sfiducia nelle istituzioni, che travolge tutto ciò che viene visto come “sistema”, e quindi indistintamente professori, medici, politici. Questi individui, sfiduciati, trovano in internet una quantità di informazioni spropositata che risponde alla loro disaffezione verso tutto quel che viene visto come istituzione, si auto-convincono delle loro opinioni finendo col ritenerle vere. Internet agisce come un amplificatore della sfiducia di questo periodo storico, è diventata la cassa di risonanza di un malanimo che ha le sue radici in tutt’altro, principalmente la crisi economica, ma che finisce col travolgere anche la scienza. E così si mescola la realtà con il complotto permanente, tutto diventa corrotto, pagato da Big Pharma, veicolato dalle lobby. Qual è la soglia di sicurezza? Il cosiddetto “effetto-gregge” a quale percentuale statistica risponde? Innanzitutto l’immunità di comunità – è abbastanza fastidiosa definirla “di gregge” – dipende dalla contagiosità della malattia. Ad esempio il morbillo, che si trasmette con molta facilità, richiede la più alta copertura possibile [è notizia recente un aumento, in Toscana, dei casi di morbillo: la percentuale di bambini vaccinati è scesa all’88%, ndA]. Esistono invece malattie come il tetano che non sono trasmissibili, quindi non si può definire alcuna soglia di copertura. Molto spesso la soglia del 95% è solo un obiettivo di sanità pubblica, rappresenta l’obiettivo concretamente realizzabile nelle campagne di vaccinazione. Il restante 5% è costituito da soggetti che non possono essere vaccinati o perché troppo piccoli o perché immunodepressi o semplicemente soggetti che non figurano nelle liste dell’Asl per problemi burocratici. Quali sono i reali rischi di un vaccino? I rischi sono ben conosciuti dalla scienza. In un soggetto sano, come ogni medicinale, un vaccino ha degli effetti collaterali molto accettabili. Partiamo con un esempio: gli effetti collaterali di alcuni farmaci usati per la cura di neoplasie sono devastanti, caduta di capelli, vomiti, desquamazione della pelle. Possono essere letteralmente tossici. Però questi farmaci vengono somministrati a causa della altissima probabilità di morte del soggetto: in una semplice analisi rischi/benefici è preferibile un effetto collaterale terribile rispetto al naturale decorso della malattia che sarebbe ancora peggiore. Il vaccino, essendo destinato ad un neonato, per forza di cose ha degli effetti collaterali estremamente blandi e tollerabili in confronto alla malattia che con esso si previene. Gli effetti collaterali tipici sono febbre, rossore, indurimento, dolore, che rapportati alla gravità, per esempio, della difterite, sono del tutto tollerabili. Il vaccino contro il morbillo, in 1 caso su 40mila, può dar luogo ad una diminuzione delle piastrine (piastrinopenia): la malattia del morbillo, invece, provoca piastrinopenia in 1 caso su 10. La differenza statistica è abissale. Esistono vaccini che hanno effetti collaterali gravi? No, nessuno. Si parla spesso dello shock anafilattico: questo è un falso problema dato che varrebbe per qualsiasi tipo di medicinale, e viene controllato tenendo il soggetto in osservazione per i dieci minuti successivi alla somministrazione del vaccino. Altre reazioni avverse invece non sono documentate, o lo sono in misura talmente minima – nell’ordine di 1 su un milione o anche meno – da non avere alcuna rilevanza statistica. Vale il discorso di prima: i benefici sono talmente elevati e diffusi da compensare enormemente eventuali svantaggi. Per quel che riguarda invece autismo o malattie neurologiche siamo di fronte a vere e proprie bufale, non esiste nessun caso di correlazione diretta tra la somministrazione del vaccino e l’insorgenza di patologie del genere: detto in termini poveri, è una balla colossale. Eppure risale a febbraio una sentenza della Cassazione che ha riconosciuto un danno da vaccino in un bambino, oggi quasi quarantenne, che nel 1981 ha contratto una encefalopatia epilettica dopo la somministrazione del vaccino. Come la spiega? Nutro forti dubbi su questa vicenda. Dopo 36 anni faccio fatica a pensare che le cartelle cliniche possano essere affidabili, ma ammettiamo anche che sia vero: i vaccini usati negli anni passati erano diversi da quelli odierni. Ad esempio il vecchio vaccino contro la poliomielite aveva come effetto collaterale, in 1 caso su 600mila, una paralisi post-vaccinale. In pratica un caso ogni tre anni. Quindi qualche caso effettivamente c’è stato. In molti altri casi, e posso parlare per esperienza personale avendo lavorato come perito in Tribunale, spesso viene accertata una verità puramente processuale, che è tutt’altra cosa rispetto a quella scientifica. Spesso ci si trova di fronte a cartelle cliniche vecchie, illeggibili, discordanti. Basta che su una delle svariate cartelle compilate da differenti medici in differenti ricoveri ci sia scritto “possibile danno da vaccino”, se non si riesce a dimostrare la diversa reale causa della malattia, si ricorre al danno da vaccino. Ma spesso così non è. Tuttavia gli antivaccinisti traggono linfa da queste sporadiche sentenze per confermare le proprie tesi, senza tener conto della realtà dei fatti, molto più complessa delle equazioni “vaccino = autismo” non comprovate da nessuna base scientifica. Il Professore si lascia andare, alla fine di questa chiacchierata, ad alcune considerazioni più personali, ma l’impressione che rende è sempre quella di un professionista equilibrato e preparato, che non ha bisogno di iperboli o paroloni per spiegare le proprie tesi, circostanza che infonde di per sé fiducia nell’ascoltatore. L’argomento dei vaccini è tristemente importante: è singolare che uno dei traguardi migliori della scienza medica, che insieme agli antibiotici ha contribuito a raddoppiare l’aspettativa di vita nel mondo nell’ultimo secolo, sia messo oggi in discussione. Ci sono esempi, però, che parlano da soli: forse molti ignorano che a causa del vaiolo, nel XX secolo, sono morte oltre 300 milioni di persone. A seguito di una massiccia campagna di vaccinazione portata avanti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ultimo caso al mondo registrato si è avuto nel 1977. Da allora la malattia è stata eradicata, ovvero è letteralmente scomparsa dalla faccia della Terra, primo caso nella storia. Oggi, infatti, il vaccino contro il vaiolo non esiste più. E questo è forse lo scopo ultimo, fondamentale, di un vaccino: serve a fare a meno di esso.
Nel corso della storia si sono sempre susseguite icone di grandi uomini e donne, affreschi di vite che si sono contraddistinte per un innato senso di ribellione, di resistenza all’oppressore e che sono diventate con gli anni successivi dei modelli da cui attingere i paradigmi necessari e i valori per affrontare le epoche successive. È questo il caso di Tashunka Uitko , Cavallo Pazzo, o Crazy Horse così come lo chiamavano i bianchi, capo guerriero degli Oglala, una delle sette tribù indiane dei Lakota Sioux. Il suo nome è diventato un famosissimo night club di Parigi, una marca di birra particolarmente alcolica, ed è servito ad etichettare tutto quello che nel mondo bianco sembrava essere bizzarro, stravagante, eccessivo. Un nome dai connotati sinistri, inquietanti. Uno nome che è una minaccia.
La sua breve seppur intensa storia si intreccia con un destino beffardo e fatale che lo portò a morire giovane il 5 settembre 1877 ucciso a baionettate da un soldato già inerme e prigioniero. La sua morte è pregnante di significati e in particolare riassume in maniera simbolica la vigliaccheria e l’infamia perpetuata dai pionieri americani e dal governo federale degli Stati Uniti d’America ai danni di un popolo millenario e affascinate che abitava quelle pianure da ben più tempo dei conquistatori europei attraverso la sottrazione forzata dei loro territori fino alla distruzione sistematica dello stile di vita del popolo Lakota.
Fu un incredibile epoca di violenza, rapacità, audacia, sentimentalismo, sfrenata esuberanza, caratterizzata da un atteggiamento quasi reverenziale verso l’ideale di libertà personale di coloro che già la possedevano. Dipinti come primitivi urlanti e assetati di sangue dei pionieri, poi, dopo gli anni Settanta, come vittime innocenti e mansuete della crudeltà imperialistica dei bianchi, gli indiani sono intrappolati negli opposti stereotipi costruiti dalla cultura dei vincitori. Schiavo di questa dicotomia era lo stesso Cavallo pazzo considerato da una parte il nemico pubblico numero uno dai bianchi e un implacabile sanguinario, dall’altra una figura quasi sovrannaturale tra la sua gente, un guerriero mistico, un leader spirituale che i Sioux , venerano oggi come un messia segreto come uno spirito che ancora vive e vola sulla Prateria del Nord e sulla desolata miseria degli indiani di oggi. Quando fu decisa la “soluzione finale” William Sherman, comandante delle truppe del West, la teorizzò con lucido cinismo: “Ai Sioux dobbiamo rispondere con una violenta aggressività, anche a costo di sterminare donne e bambini”.
Alle parole seguirono i fatti: l’episodio più atroce (1864), che ha ispirato anche una canzone di Fabrizio De André, non toccò i Sioux ma i loro vicini Cheyennes: un villaggio indiano sul torrente Sand Creek fu attaccato dai soldati del colonnello John Chivington, che massacrarono, stuprarono, scalparono e mutilarono 150-200 persone inermi, senza riguardo per il sesso o per l’età.
Fu qui che entrò in scena Cavallo Pazzo, prima a fianco di Nuvola Rossa, poi di Toro Seduto, infine da solo. La guerriglia andò avanti per due anni, poi i bianchi vennero a patti: i fortini sarebbero stati sgomberati e bruciati. La guerra sembrava chiusa con la vittoria degli indiani, invece si era solo spostata su un terreno più subdolo: se non si riusciva a sterminare i Lakota, si poteva però privarli dei bisonti, loro unica risorsa. Così la caccia, che i bianchi praticavano già dal 1850, diventò una strage sistematica e incoraggiata. Campione dell'impresa fu William Cody, detto Buffalo Bill, che tra il 1868 e il 1872 uccise da solo 4mila capi. La guerra aperta riprese quando si scoprì l'oro nelle Black Hills, colline che i Sioux consideravano sacre. Il colonnello George Custer, un avventuriero in divisa, cercò di occupare la regione. Ma Custer era odiatissimo dagli indiani, che lo chiamavano "Figlio della stella del mattino" per la sua abitudine di attaccare i villaggi all'alba, quando tutti dormivano. Perciò la sua entrata in scena fece da collante: ai Sioux, guidati da Toro Seduto e da Cavallo Pazzo, si affiancarono i Cheyennes, memori del Sand Creek. Si arrivò così a Little Big Horn, dove l'odiato ufficiale fu ucciso con quasi tutti i suoi soldati. Era il 25 giugno 1876: per Crazy Horse fu il trionfo. Ma durò poco, Cavallo Pazzo e gli indiani, stremati dal freddo e dalla fame si rassegnarono a perdere quelle colline sacre, e combatterono la loro ultima battaglia nel gennaio 1877, poi a maggio il loro leader si consegnò in un campo profughi: di fatto era la resa e da li a poco sarebbe sovvenuta anche la morte. Nella nostra foga di demonizzare prima gli indiani e poi di beatificarli ci siamo dimenticati probabilmente di una verità tanto ovvia e fondamentale. Gli indiani non erano altro che un popolo con i propri usi e costumi, né santi né demoni ma prima di tutto un popolo composto da uomini inclini a tutto ciò che riguarda l’animo umano e le sue manifestazioni cui il ciclo implacabile della storia non ha concesso la corona dei vinti. Immagini tratte da: Immagine 1: https://www.google.it/search?q=cavallo+pazzo&source=lnms&tbm=isch&sa=X&ved=0ahUKEwiGjezCvYHUAhVJaxQKHYQGApEQ_AUIBigB&biw=1366&bih=659#q=cavallo+pazzo&tbm=isch&tbs=isz:l&imgrc=DsHPhlPQKpi5DM Immagine 2: http://www.qualitygroup.it/images/varie/in-evidenza/america-world/BuffaloRoundup_1.jpg Immagine 3: http://mediad.publicbroadcasting.net/p/hppr/files/201410/sand_creek_battleground_marker.jpg Immagine 4: Monumento a "Cavallo Pazzo" http://4.bp.blogspot.com/-2OrxCPtbeok/VdC-9EVgH4I/AAAAAAAAWO8/TKicg_-hk_8/s1600/crazy-horse-4.jpg “Hipsteroni di tutto il mondo, unitevi!” Poteva essere questo lo slogan del concertone del Primo Maggio 2017 che si è svolto a Roma, nella solita Piazza di San Giovanni, con la solita diretta della Rai, con i soliti sindacati ad organizzare l’evento che richiama migliaia di giovani da ormai 27 anni. Meno solito del solito è stato il nugolo di artisti esibitisi quest’anno. La classica linea politico-popolare ha ceduto il passo al fenomeno della musica indie, esplosa negli ultimi mesi, come dimostra la proliferazione incontrollabile di artisti che ruotano intorno all’orbita di questo genere. E a Roma c’erano quasi tutti: Le Luci della Centrale Elettrica, Motta, Brunori Sas, Lo Stato Sociale, Levante, Ex Otago solo per citare i più noti di questo genere che fa della scarsa notorietà un paradossale punto di forza. Alluvioni di critiche sono piovute da più parti, incentrate sull’inopportunità della scelta degli organizzatori di snaturare il senso profondo del concerto e della festa che fa da sfondo all'evento. Forse che i Modena City Ramblers sono più adatti a narrare le fatiche del lavoro, le nostalgie di un’ideale perduto a Cuba nella Rivoluzione, di quanto non lo sia un ragazzino pisano un po’ autistico che conturba gli occhi delle matricole universitarie col septum e lo zaino viola? Chissà. Probabilmente siamo di fronte a un passaggio generazionale che ha trovato conferma nella svolta compiutasi a Roma. La crisi delle ideologie o altre retoriche del genere, a guisa di rassegnazione nostalgica, che tanto garba agli opinionisti del Bel Paese, non attacca più. E non ci riesce perché chi muove queste critiche lo fa da un pulpito di moralismo noioso, slegato dalla realtà. I sindacati, Dio benedica i sindacati! Così obsoleti da sembrare i caratteri mobili di Gutenberg in un mondo di fibra ottica, forse c’hanno visto giusto nell’avallare la strategia di iCompany e Ruvido Produzioni, le due agenzie che hanno organizzato e prodotto l’evento. Non è un segreto che negli ultimi anni il concerto del Primo Maggio sia stato sempre meno frequentato: forse il disamore verso certe tematiche ha svuotato i treni dei portoghesi che, zaino in spalla, filtravano nei vagoni in viaggi della speranza per andare a riempire San Giovanni di vino e urlacci, con la gioia dei vent’anni e la partecipazione di un insieme. I sindacati hanno tentato paraculisticamente di cavalcare l’onda della moda per rilanciare l’evento, parlando ad una platea di giovani diversa, moderna, riuscendoci – numeri alla mano – solo parzialmente. Chi disconosce questa scelta pregiudizialmente è bene che rimanga in casa ad ascoltare i suoi artisti preferiti ché qui all’improvviso è arrivato il futuro. Il fenomeno indie è intrinsecamente legato alla mutazione del panorama sociale: in un mondo in cui il collettivo conta sempre meno sta emergendo una musica che parla all’individuo, ma con le stesse tematiche di trent’anni fa. Ciò che sta cambiando sono il modo e il linguaggio, ma non il contenuto. I professionisti della sinistra fatta bene andassero a guardare l’esercito dei giovani che aderiscono al mondo indie: si accorgeranno che ogni classificazione è liquida e pertanto inutile. Sì, i ragazzi dei Parioli con l’Audi di papà ascoltano indie leggero perché suona bene. Ma anche nei centri sociali di Bologna ascolta indie il punkabbestia con la ketamina nascosta nel collare del cane. E poi ascolta indie la liceale di Milano che vive di collarini e big like su Instagram. Però pure quella che studia medicina a Napoli ed è un cranio, che passa le giornate sugli atlanti di anatomia ascoltando gli Eva Mon Amour che la fanno stare bene. Perché oggi c’è bisogno di parole nuove, ed è questo il messaggio che bisogna cogliere. Non chiamatela musica leggera. Qualcuno di loro sì, la fa. Ma molti, molti altri di leggero hanno solo la voce e la chitarrina in sottofondo. La modernità ci sta facendo riscoprire la musica cantautorale e non è un caso che stia accadendo ora, dopo il crollo di un sistema economico e sociale che ha lasciato parecchie macerie e una tonnellata di incertezza per centimetro cubo di materia grigia nella generazione nata negli anni ’90. Le parole di Vasco Brondi piuttosto che di Francesco Motta parlano alla confusione. Non danno risposte perché risposte non ce ne sono. Non cantano di un’ideologia, e nemmeno della fine dell’ideologia. Parlano ai testimoni di un dopoguerra senza guerra. Ai nativi digitali che consumano cristalli liquidi e giga come l’eroina negli anni ’70. Dunque no, non scandalizziamoci se invece di "Beppeanna" della Bandabardò da quest’anno avremo nelle orecchie "L’uomo nero" di Brunori Sas. E tu che scuoti la testa mentre ti dico che ora servono nuove parole, ricorda che l’utopia è rimasta ma la gente è cambiata: la risposta ora è solo più complicata. 1/5/2017 Una storia sbagliata – la Liberazione dalle parole nello squallore umano di Sant’AnnaRead NowA metà della salita l’auto sembra cedere. Superato il terzo, il quarto tornante della collina su cui sorge il fantasma di Sant’Anna di Stazzema, le piccole frane vicino la carreggiata iniziano a mettere ansia: un senso di sordo pericolo ti sfiora la mente, in un andirivieni di sensazioni ambigue, diviso come sei tra i generosi fianchi rocciosi della montagna e le vedute sterminate che affondano nel mare blu della Versilia. L’auto però non cede e coraggiosa si inerpica su per una strada infame, un contagocce d’asfalto delimitato dal guardrail arrugginito piuttosto che dagli strapiombi verdeggianti cipressi e olivi. Posso solo immaginare, a costo di sforzarmi non poco, quanto fosse drammatico percorrere negli anni ’40 questo squarcio obliquo, ricavato dall’uomo tra le pietre selvagge. La tenacia di obbedienti quadrupedi condusse attraverso questa lingua di fatica decine e decine di famiglie. L’orrore della guerra metteva più paura della montagna e l’inaccessibilità geomorfologica di Sant’Anna doveva rappresentare una salvezza più che una minaccia. Il mare rappresenta la libertà, la montagna la serenità. Dev’essere per questo che percorrendo la litoranea, sia essa in Salento o nel Sud della California, alziamo il volume dello stereo con i pezzi che ci ricordano un’adolescenza mai del tutto sopita, un amore lontano, con la voglia di canticchiare che contagia tutti, insieme ai finestrini tirati giù e il braccio penzoloni che stringe una sigaretta e tocca i ramoscelli di rosmarino selvatico che spuntano dalle dune fin sul ciglio della strada. Dev’essere per questo che lo stereo si spegne da sé mentre percorri certe salite. Quasi per devozione il segnale telefonico che ti collega perennemente al tuo circo preferito salta, tranciando la canzone di Guccini che avevi in sottofondo. Parli con i tuoi compagni di viaggio ma lo fai a bassa voce. Spontaneamente, ma te ne accorgi solo dopo. Arrivi nel paesino di Sant’Anna e sei accolto dalla pietra. È tutto roccia, pietra, granito, marmo. Una sensazione di pura durezza, acuita da nuvole così basse e grigie che sembrano pronte ad accarezzarti il capo e piovere nel cappuccio del tuo giubbino. Non è comodo qui. Non doveva esserlo nemmeno il pomeriggio dell’11 agosto 1944. Da alcuni mesi migliaia di persone avevano trovato riparo sulle montagne dell’appennino tosco-emiliano per sfuggire ai combattimenti sanguinosi che si consumavano sulla linea Gotica, pochi chilometri più a sud. I padri avevano portato mogli e figli a ripararsi nei paesini di montagna, convinti che l’alba stesse per arrivare, che i partigiani stessero per liberare queste terre d’acqua e allegria dal dominio delirante di uomini bui, che giocavano a far la guerra dai loro quartier generali abbracciati da mura di cemento spesse due metri, senza suoni, senza amputazioni, senza emozioni. Quegli uomini avevano ragione: l’alba arrivò per davvero. E l’alba del 12 agosto 1944 non la scorderanno più. Non bisogna faticare per immaginare come andò quella mattina. Saranno i videogame, i telegiornali, i telefilm americani, ma sappiamo come raffigurarci la violenza più spietata. Sappiamo come riprodurre nella testa il suono di un mitra, pur non avendolo mai visto sparare. Sappiamo quanto sia semplice eseguire un ordine, dal momento che la disobbedienza non è contemplata nei codici militare, meno che mai nel bel mezzo di un conflitto. Sappiamo immaginare come dev’essere un fienile in fiamme con le bestie che gridano impaurite. Non c’è niente di speciale in tutto questo. È quasi scontato, non ci sarebbe molto da raccontare. Ciò che rende Sant’Anna di Stazzema una violenza psicologica è l’immagine della minuscola piazza centrale del paese, a cui non si può chiedere più che una chiesa e quattro case. Ciò che non si riesce a immaginare è l’odore che ha sentito il primo soccorritore, appena giunto in questa gioielleria di pietre non preziose quel 12 agosto. Pensare all’odore del sangue di Anna Pardini, che aveva due mesi quando morì vittima di una aritmetica malvagità, è come pensare alle dimensioni dell’universo: posso sforzarmi, ma a un certo punto la testa si ferma da sola perché smette di avere senso ciò a cui sto pensando, perché sono un essere limitato e ne sono consapevole. Un particolare di Guernica, riprodotto su una targa posta sul Museo della Resistenza, raffigura una donna che urla. Probabilmente non è l’urlo delle vittime. E’ l’urlo di chi ha visto le vittime, e non resiste a pensare di condividere lo stesso suolo, la stessa aria, la stessa specie animale delle bestie che hanno sterminato centinaia di donne una mattina d’agosto che doveva essere meravigliosa, nell’esplosione dei fiori violetto che agghindano i bordi dei sentieri e i concerti dei volatili che abitano i rami degli alberi. Una scultura bronzea disperata accoglie noi, pellegrini della memoria, al centro della piccola piazza, insieme ai pannelli di marmo con le frasi di poeti e intellettuali che hanno tentato di dare parole a un orrore innominabile. Sarà che già solo il rumore delle foglie secche che si rompono sotto i miei passi mi pare un frastuono, una musica inopportuna, ma le parole di quelle incisioni mi appaiono ridondanti. Utili per capire, per capire l’incomprensibile, eppure ne voglio fare davvero a meno. Quella statua invece no. Un corpo rachitico, schiena a terra, con le ginocchia sollevate a indicare la vulnerabilità del presente. Un corpo ferito. Scolpito con cruda destrezza dai piedi alla bocca. Al corpo mancano le braccia e il volto, e questo spiega meglio di mille parole come sia stato difficile, per chi è venuto dopo, guardare dentro l’abisso e toccare la crudeltà scientifica. La chiesetta che domina la piazza, il suo piccolo campanile coi larghi mattoni a vista, mi ricorda che è esistito un Dio qui, o almeno qualcuno che c’ha creduto. Fatico. Fatico a credere che si possa credere nel perdono mentre calpesto la terra della piazza che si imbevve del sangue più inutile che potesse versarsi. In pace come in guerra. Non cercherò Dio. Salgo. Salgo su un percorso che definirebbe agevole solo uno stambecco. Un nastro trasportatore di ciottoli e massi che si ficcano sotto le suole e fanno male davvero, come se la pendenza del sentiero non bastasse di per sé a ustionare i muscoli. Questa salita è dolorosa. Non deve essere un caso il nome, via Crucis. Quasi uno scherzo di cattivo gusto chiamare così la strada che porta all’Ossario delle vittime, nel punto più alto del paese. Andando avanti nel faticoso incedere dei passi il fiato è sempre più risicato, un debito d’ossigeno che stringe le corde vocali e induce a un silenzio forzato. Come se le parole fossero, ancora una volta, superflue, come se la croce di una storia infame la dovessi portare tu, casuale ospite della Storia. Un albero sradicato da chissà quale burrasca dorme sdraiato a lato del piccolo sentiero di sassi e acido lattico. Palesa così il suo lato più nascosto, occulto rifugio di vermi durante le piogge autunnali e ora cuore aperto durante l’operazione chirurgica del meteo, che l’anestesia del tempo sembra aver addormentato. Mi suggerisce di avere uno sguardo diverso, perché ciò che siamo abituati a vedere rigido e fiero accuccia sotto di sé un cuore di terra che pulsa di vita, a cui le radici sono violentemente aggrappate per morire un po’ meno, un po’ dopo, un po’ più lontano. Giunto in cima riprendo fiato. È la prima reazione naturale, ispirata dalla fatica e dal paesaggio maestoso che mi si para davanti. Ma dura poco, ché gli occhi vengono rapiti dal prisma di pietra che spicca alla mia sinistra. Quella che avevo scambiato da lontano per una torretta d’avvistamento, risalente alle guerre d’inizio Novecento, è in realtà il monumento più denso di significato. Un significato che in verità non c’è affatto. Alla base del monumento si trova una scultura agghiacciante. Una tomba di marmo bianchissimo con pezzi di corpi adagiati sopra, tra i quali spicca una donna che tiene in braccio un bambino. Ma gli occhi della donna sono impressionanti, quasi disturbanti, quasi penso che lo scultore e le autorità abbiano esagerato a donare uno sguardo così insopportabile ai pellegrini che si arrampicano su questo lembo di Appennino, schiantato di fronte al Tirreno. E la pesantezza psicologica di questo dolore marmoreo trova una pesantezza visiva, se possibile, ancora più atroce sullo sfondo: un’immensa lapide di granito con sopra incisi i nomi di oltre quattrocento delle cinquecentosessanta vittime della strage. È talmente grande, talmente densa di lettere, che mi avvicino e la tocco con le mani perché gli occhi possono essere ingannati, le mani no. È spessa quasi mezzo metro, alta oltre due, larga più di tre. Grigio scuro, come il cielo di questo 25 aprile. Mi colpiscono le vittime: sono tutte donne, o quasi, e moltissimi bambini. Ed è forse questa la prova più schiacciante della meschina bestialità della strage. Nessun pericoloso nemico, nessun centro logistico partigiano, nessuna santabarbara, nessun rifornimento. Donne che accudivano la prole, usualmente numerosa, in attesa che tornassero i mariti e che finisse quella cazzo di guerra diventata ormai priva di senso. E non ci sono molte altre parole di fronte a una carneficina così. Non dirò che sia stata una tragedia disumana, no, questo no. Sarebbe una giustificazione inaccettabile. È stata una strage pensata, voluta, studiata. Umanissima. Umani che hanno trucidato umani. I monumenti, le commemorazioni, le targhe, i musei, le lapidi. Questo sì che è disumano, freddo, artifici della memoria per sviscerare un dolore intraducibile, odio antico di un'umanità sempre alla ricerca di un nemico. Riscendo nella piazza, e torno con la mente a quel tizio, il primo soccorritore salito quassù dopo l’eccidio. E mi sento più vicino a lui che alle vittime, lo ammetto. Da qui, dalla prospettiva delle pupille di un giovane e anonimo abitante del terzo millennio, la sensazione non è mutata. Siamo cresciuti nell’illusione che ad aspettarci in cima alla salita ci fosse un mondo florido e virtuoso, salvo trasalire e ingoiare veleno per la delusione di trovare un paesaggio atroce, bruciato dalle guerre, violentato dal guadagno, affogato nella paura della diversità. Un rumore straziante di occasioni crollate e vite sprecate nell’inganno della forza che travalica la ragione. Verrebbe da mollare tutto, da sfogarsi in un pianto liberatorio e scappare da soli in un rifugio di apatia. Ma la storia non dice che quel soccorritore, il primo, fuggì via in preda alla disperazione. La storia racconta che il primo soccorritore chiamò il secondo. Poi il terzo. Poi il quarto. Poi il quinto. E poi le mani si sporcarono del sangue dei bambini e poi della polvere delle case e poi del letame delle bestie e poi della terra del selciato e poi della paglia dei fienili e poi e poi e poi. E poi ci sono uomini che hanno chiesto poco e dato tanto. Che non si sono fatti uccidere dal dolore del dolore. Che sono stati qualcuno che nessuno ricorda, a cui tutti dobbiamo rendere conto di aver avuto il coraggio di non morire lì dove io lo avrei fatto, ma anche tu. E non esiste insegnamento più grande dell’amore verso la vita quando la vita non c’è. Ché io, nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore; ma nella pietà che non ha ceduto al rancore, forse, una volta davvero, ho imparato l’Amore. |
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Novembre 2020
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