Se la Cina continua la sua scalata verso il vertice dell’economia mondiale, pur avendo rallentato più o meno vistosamente negli ultimi anni, minacciando la supremazia USA in campo economico, scarso, fino a poco tempo fa,era quanto poteva essere detto del peso politico che il paese del Sol Levante esercitava sui vicini della regione. A seguito della conquista del potere da parte di Mao, la Cina, proveniente da un secolo di umiliazioni e sconfitte in campo internazionale, aveva rinunciato decisamente a qualsiasi tipo di influenza geopolitica nella regione, ritirandosi in un isolamento autoimposto. Complice l’estrema precarietà delle condizioni economiche in cui versava il paese, la politica del Partito Comunista Cinese si basò soprattutto sul ricostruire dalle fondamenta il sistema economico e sociale su cui si fondava lo stato. Con la progressiva apertura agli investimenti esteri a partire dagli anni ’70, il gigante asiatico ha posto le basi per la sua definitiva salita nel novero delle grandi potenze mondiali, ma per compiere il passo politico-militare necessario per elevarsi al rango di grande potenza del XXI secolo, è necessario uno shift che consenta l’integrazione tra enorme peso economico (che la Cina ha già acquisito) ed imponente peso geopolitico, che la Cina ha intrinsecamente, viste le sue dimensioni, ma che ha evitato di far valere nell’ultimo secolo. Da qui nasce la necessità per il governo di Xi Jinping di ristabilire la leadership storica nella regione, già fatta valere per secoli dal “Celeste Impero” e persa durante l’epoca imperialista occidentale, a vantaggio del Giappone. Il primo motivo di conflitto “naturale” è riferito quindi alle Isole Senkaku, un gruppo di piccoli atolli nel Mar Cinese Meridionale, storicamente contese tra la Cina e le Filippine. Proprio negli ultimi anni, il governo di Pechino ha deciso di occupare, mano armata, le isolette, decidendo di costruire una base aerea militare in pieno Pacifico. A nulla sono valse le proteste di Manila, che hanno comunque causato l’irritazione di Washington, alleato del paese e osservatore interessato della questione. E’ qui lo snodo fondamentale della politica estera aggressiva che la Cina ha iniziato ad esercitare nei confronti dei vicini. Se le Isole Senkaku in quanto tali sono di scarsa rilevanza in termini di risorse da sfruttare e di dimensioni, nonché di popolazione, essendo disabitate, dal punto di vista simbolico rappresentano una porta verso l’Oceano Pacifico e, in ultima analisi, verso gli USA, che ormai dal 1945 esercitano un controllo politico-militare incontrastato nello spazio sterminato che va dalle Hawaii fino alla Sud Corea, e giù fino al Giappone, le Filippine appunto, l’Indonesia e l’Australia. L’azione cinese è stata considerata quindi più come un affronto agli Stati Uniti che alle Filippine stesse, tesa a minare, nel lungo periodo, l’egemonia Americana nel Pacifico. Da qui l’aumento delle esercitazioni statunitensi nell’area, a cui il governo di Pechino ha replicato denunciando la presenza di aerei a stelle e strisce al largo delle coste cinesi oppure in sorvolo sopra le Isole stesse, su cui ormai la Cina ha imposto il controllo dello spazio aereo. Ma gli Stati Uniti, insieme alle Filippine non sono gli unici stati ad essersi preoccupati dalla politica adottata nel Pacifico, il terzo, ma anch’esso partner importante per l’Occidente sul piano economico, è il Vietnam, storico vicino della Cina. Seppur retto da un regime comunista da ormai più di 40 anni, a seguito della sconfitta statunitense nella famosa guerra, il governo di Hanoi garantisce una sorta di roccaforte per gli investimenti occidentali nella regione, generando quel tipo di contraddizione tra establishment politico comunista monopartitico e sistema economico capitalista (o ultracapitalista) di cui la Cina stessa è promotrice. La preoccupazione vietnamita deriva del resto da ragioni storiche, visti i ripetuti tentativi, in un caso portato a termine, da parte del Celeste Impero di impadronirsi del territorio tra il XIV e il XVI secolo, ridotto, fino all’intervento francese in Indocina a stato vassallo del governo di Nanchino. Da qui deriva quella sorta di indifferenza, se non di aperta diffidenza, che ha permeato i rapporti tra le due classi politiche, seppur affini. La paura di un possibile aumento del controllo cinese nel Pacifico e la questione delle Isole Senkaku stesse hanno causato una sorta di sindrome da accerchiamento agli occhi dei vietnamiti, e da qui la necessità di rivolgersi al vecchio nemico, gli USA per l’appunto. Non è un caso quindi che la visita di Obama di poche settimana fa ad Hanoi, ufficialmente per parlare di questioni economiche o poco più sia avvenuta in un momento storico così delicato per il Sud-Est asiatico, e sono addirittura forti i sospetti che la recente apertura democratica in Myanmar, dove il regime militare birmano ha tenuto sotto scacco la vita politica del paese per più di quarant’anni, sia dovuta proprio ad un tentativo di “ingraziarsi” l’occidente in chiave anticinese. La situazione è in rapida evoluzione. Quello che è sicuro è che uno dei fronti caldi per la geopolitica nel prossimo decennio sarà proprio il Sud-Est asiatico ed è qui uno dei fronti su cui si gioca il futuro della politica estera non solo cinese, ma anche statunitense. Immagi tratte da:
- Obama - http://i.amz.mshcdn.com/3fkhDjl3ZLydAnxFduvtnSETnwo=/950x534/2016%2F05%2F23%2Fb4%2F1a23a947397.a944a.png - Shanghai - http://demystifyingdesign.com/wp-content/uploads/2012/04/IMG_0999.jpg
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David Cameron, il premier che puntò carriera e unità nazionale sul risultato di un referendum ![]() Un premier relativamente giovane (49 anni) che basa il proprio mandato sul risultato di un referendum e si vede costretto a rassegnare le dimissioni dopo averlo perso. No, non stiamo facendo previsioni su quanto accadrà in Italia dopo la consultazione sulle riforme di ottobre, ma stiamo parlando del secondo mandato di David William Donald Cameron, primo ministro del Regno Unito dall’11 maggio 2010. Venerdì scorso, a seguito dell’annuncio dei risultati del voto sulla Brexit, Cameron ha riconosciuto la sconfitta della propria posizione (rimanere nell’Unione Europea), spiegando che a guidare il governo britannico fuori dall’Europa sarà il nuovo leader del partito conservatore, da eleggere nel congresso dei Tories di ottobre. Già una volta Cameron aveva legato la propria carriera ai risultati di un referendum: il 18 settembre 2014, i cittadini scozzesi ebbero la possibilità di decidere sulla permanenza del proprio paese nel Regno Unito, che confermarono con il 55,3% dei suffragi. All’epoca, il giovane politico conservatore rischiò grosso, ma si vide premiato dai risultati del voto, al punto da ottenere, l’anno successivo, un significativo successo elettorale (330 deputati alla Camera dei Comuni, quattro seggi in più della soglia per la maggioranza assoluta). Se il suo primo mandato era stato un governo di coalizione con i Liberal-Democratici (partito di grande successo nel 2010, poi rapidamente declinato), nel 2015 non ebbe bisogno di apporti esterni, guidando un gabinetto esclusivamente conservatore. Ma la vittoria alle politiche dell’anno scorso ha avuto i suoi costi. ![]() Benché la Gran Bretagna faccia parte dell’Europa dagli anni Settanta, le elezioni europee non hanno mai suscitato grande interesse oltre la Manica – molto meno che da noi. Alle ultime Europee (2014), solo il 35,6% dei cittadini del regno si sono recate alle urne, determinando un risultato inaspettato: la lista più votata è stata l’UKIP, “Partito per l’indipendenza del Regno Unito”, guidato da Nigel Farage. L’UKIP è un movimento euroscettico e sciovinista, nato da una scissione a destra dei Conservatori, che ha impostato il proprio consenso sull’idea che ogni problema del Regno Unito sia dovuto all’immigrazione, e che questa sia conseguenza della presenza nell’Unione Europea. 24 dei 73 seggi britannici al Parlamento Europeo sono occupati da deputati UKIP, che tra l’altro hanno costituito un gruppo unitario con i deputati del Movimento 5 Stelle (“Europa della Libertà e della Democrazia Diretta”). Alle Politiche del 2015, Cameron si è visto costretto a tappare questa falla alla propria destra, in quanto Ed Miliband, suo sfidante laburista, si è orientato decisamente a sinistra e non ha proposto politiche appetibili ai moderati (anzi, in Scozia è stato superato da un partito ancora più a sinistra, lo Scottish National Party di Nicola Sturgeon). L’unico modo per recuperare il voto degli euroscettici era promettere un referendum sulla permanenza o meno del Regno nell’Unione Europea, sancita da un voto popolare nel lontano 1975. Se c’era riuscito con gli indipendentisti scozzesi, perché non avrebbe potuto accontentare lo sparuto drappello di Conservatori nazionalisti e di elettori dell’UKIP? Il referendum avrebbe visto vincere il REMAIN, lo confermavano i sondaggi, e avrebbe cementato il prestigio di Cameron. ![]() I risultati del 23 giugno hanno smentito le speranze del giovane premier. Il barbaro assassinio di Jo Cox, di cui abbiamo parlato la settimana scorsa, non ha aumentato i consensi a favore della permanenza, nonostante le previsioni della stampa. A ben vedere, si è trattata di una vittoria combattuta – 52% contro 48%, con un’affluenza del 72,21% – e che ha visto una netta divisione anagrafica e geografica: i giovani in larghissima percentuale a favore dell’Europa, i più anziani per l’uscita; scozzesi e abitanti dell’Ulster per il REMAIN, inglesi e gallesi per il LEAVE. Il problema non è solo economico, ma anche politico. È plausibile – anzi ci sono state già dichiarazioni illustri in questo senso – che presto l’Irlanda del Nord e la Scozia faranno richiesta di un referendum per la propria indipendenza, in modo da poter rientrare nell’Unione Europea. È vero che in Scozia si è votato sullo stesso tema solo due anni fa, ma il cambiamento è così epocale da rendere ammissibile questo esito. Che il 23 giugno 2016 sia l’inizio della fine del Regno Unito? Fra pochi anni, non parleremo più di Gran Bretagna? Ad essere onesti, le strade aperte da questo risultato sono tante. Da un lato, gli euroscettici di tutta Europa, lepenisti francesi in testa (ma anche i nostri leghisti), sono pronti a proporre referendum simili nei propri paesi. Dall’altro, se lo scenario di una dissoluzione del Regno Unito si concretizzasse, conquisterebbero margini di manovra i movimenti indipendentisti in Belgio e Spagna. Eh già, perché ieri si è votato per il nuovo governo spagnolo. Vi ricordate come erano andate a finire le elezioni di dicembre? Vinsero tutti e non vinse nessuno. Podemos, Ciudadanos, Socialisti, Popolari... nessuno in grado di formare un governo, per via dei veti incrociati, e Filippo VI costretto a sciogliere le Cortes. La prossima settimana vedremo nel dettaglio i risultati del voto. Ma torniamo a Cameron: a succedergli quale nuovo premier conservatore sarà probabilmente il più illustre esponente del fronte del LEAVE, quello che diceva di avere più possibilità di “reincarnarsi in un olivo, piuttosto che diventare premier”: Boris Johnson. Anche tra i laburisti c’è aria di cambiamento, e in molti si stanno operando per far dimettere Jeremy Corbin (odiato dalla corrente moderata del partito). Sarebbe lungo spiegare come avverrà la procedura di separazione “non consensuale” (per usare le parole del Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker) tra Europa e Gran Bretagna, che troverete ben spiegata nelle fonti. Quel che è certo è che non tutti cantano vittoria: l’immediato crollo della sterlina, così come la decisione di molte multinazionali di spostare la propria sede a Dublino o in altra capitale UE, hanno condizionato non di poco l’economia inglese e mondiale. Al momento in cui vi scrivo, la petizione popolare a favore di un referendum bis sul sito del governo britannico ha raggiunto la cifra record di 2.955.231 firme (per essere presentata all’attenzione del parlamento, ne bastavano 100.000), e si moltiplicano le lettere aperte a favore dell’integrazione. Sadiq Kahn, sindaco di Londra, una delle roccaforti del REMAIN, ha scritto che: we all have a responsibility to now seek to heal the divisions that have emerged throughout this campaign - and to focus on what unites us, rather than that which divides us. Abbiamo tutti la responsabilità di cercare adesso di sanare le divisioni che sono emerse durante la campagna, e di fare il punto su quello che ci unisce, piuttosto che su quello che ci divide. “Quello che ci unisce, piuttosto che quello che ci divide”: le parole più note di Jo Cox. La Gran Bretagna, per decenni faro di integrazione e multiculturalismo, ha pensato che fosse meglio alzare delle barriere, per proteggersi dal minaccioso vento del cambiamento. La Storia insegna che anche il muro più potente, prima o poi, è destinato a cadere. I nostri occhi, da questo lato del muro, saranno rivolti alla Manica. Fonti:
L'Europa all'esame di maturità Nella giornata di ieri 23 Giugno 2016 si è aperto un nuovo capitolo nell'Unione Europea, il Regno Unito si è espresso sulla permanenza all'interno della UE. Ha vinto il fronte del Leave ed ora la UE si trova al primo vero esame di maturità dalla nascita della moneta unica, per quanto riguarda la crisi finanziaria le politiche adottate legate all'austerity tedesca si sono rivelate politicamente fallimentari e non popolari, causando anche ulteriore depressione delle economie degli stati membri. Questo malcontento è sfociato indirettamente anche nel voto di ieri del Regno Unito, gli euroscettici hanno aperto a nuovi scenari politici ed economici. Sicuramente uno sguardo di riguardo meriterà la Russia che sul fronte della diplomazia internazionale col suo presidente in pectore Vladimir Putin ha lanciato da sempre segnali di apertura alla UE, invitando a limitare le ingerenze Statunitensi negli affari del vecchio Continente. Potrebbe essere un esercizio davvero interessante da espletare in questo nuovo quadro, dove la UE potrebbe in effetti cominciare ad avere una politica estera ed economica che riguardi effettivamente i suoi interessi e non quelli filo-americani. L'uscita di Londra dalla UE ancora non è chiaro quali conseguenze porterà da entrambi i fronti, quello che è sicuro è che pare ancora netto e necessario la nascita di un quarto polo di potere finanziario ed economico, per troppo tempo cullati sulla finanza londinese i mercati UE dovranno fare i conti con un'economia che deve assolutamente ripartire sotto nuovi auspici. Immagine tratta da: http://www.blitzquotidiano.it/wp/wp/wp-content/uploads/2016/06/brexit.jpg L’omicidio di Jo Cox dimostra che l’odio virtuale può trasformarsi in atti reali
In coppia con il marito, dirigente di Save the children, aveva contribuito alle campagne di Oxfam e della National Society for the Prevention of Cruelty to Children, oltre a rivestire le cariche di presidente della lega femminile del Labour e di senior advisor dell’organizzazione anti-schiavitù Freedom Fund. Jo Cox era un simbolo, e il suo barbaro assassinio è la dimostrazione del livello raggiunto dallo scontro su questi temi, in Gran Bretagna come nel resto d’Europa, negli ultimi mesi. La morte della donna ha suscitato sentimenti di cordoglio e commozione, in Gran Bretagna come all’estero. Il premier David Cameron ha dichiarato che “abbiamo perso una stella luminosa, una stella per i propri elettori, una stella in Parlamento e nella Camera dei Comuni”; Barack Obama ha telefonato direttamente alla famiglia. Tra i messaggi più significativi, il commovente ricordo del marito Brendan: Today is the beginning of a new chapter in our lives. More difficult, more painful, less joyful, less full of love. I and Jo’s friends and family are going to work every moment of our lives to love and nurture our kids and to fight against the hate that killed Jo. Jo believed in a better world and she fought for it everyday of her life with an energy, and a zest for life that would exhaust most people. She would have wanted two things above all else to happen now, one that our precious children are bathed in love and two, that we all unite to fight against the hatred that killed her. Hate doesn't have a creed, race or religion, it is poisonous. Jo would have no regrets about her life, she lived every day of it to the full. «Oggi è l’inizio di un nuovo capitolo nelle nostre vite. Più difficile, più doloroso, meno gioioso, meno pieno d’amore. Io, gli amici di Jo e la [nostra] famiglia ci impegneremo in ogni momento delle nostre vite per amare e crescere i nostri figli e per lottare contro l’odio che ha ucciso Jo. Jo credeva in un mondo migliore e ha lottato per quello ogni giorno della sua vita con un’energia e un entusiasmo per la vita che avrebbe consumato chiunque. A questo punto, avrebbe voluto che accadessero due cose, soprattutto: che i nostri figli fossero inondati d’amore e che tutti noi lottassimo contro l’odio che l’ha uccisa. L’odio non ha un credo, una razza o una religione, è solo veleno. Jo non avrebbe avuto rimpianti sulla sua vita: ha vissuto ogni giorno a pieno». Alcuni hanno cinicamente ipotizzato che l’episodio influirà sul risultato della campagna referendaria, favorendo la posizione dei NO. Resta il fatto che la tragedia rende d’attualità la questione della diffusione dell’odio on-line. L’omicida aveva 52 anni, viveva da solo e lavorava saltuariamente come giardiniere. In pochi lo conoscevano, ma sono noti alle autorità sanitarie i suoi problemi psichiatrici. In una stagione in cui movimenti xenofobi e nazionalisti accusano costantemente l’immigrazione e l’Unione Europea di essere alla base dei problemi britannici, una figura debole come Mair ha pensato di agire, istigato dalle parole lette su internet. Ecco la conseguenza più incontrollabile della libertà di parola assicurata dalla rete. I social networks, dando parola a chiunque, in qualunque momento (con limitate possibilità di censura), hanno fatto sottovalutare gli effetti catastrofici che certe affermazioni possono avere su menti fragili e suggestionabili. Benché non abbia affatto senso limitare i diritti di espressione, appare chiaro che chiunque scrive un post o un commento dovrebbe tenere bene a mente le conseguenze delle proprie azioni. Come ha scritto la Presidente della Camera Laura Boldrini in una lettera al segretario del Labour Jeremy Corbin: «Jo Cox ha lottato tutta la vita per una società aperta, in un periodo in cui l’odio si diffonde, anche attraverso la rete. La sua morte ci mostra come alle minacce e ai discorsi di odio nella sfera pubblica e sui social media possano talvolta seguire azioni criminali». Il Regno Unito – paese che, come mi ha ricordato di recente un’amica britannica, non subisce un regime autoritario dai tempi di Oliver Cromwell – ha una tradizione di tolleranza e di rispetto reciproco che permette ai leader politici di muoversi tranquillamente con i mezzi di trasporto pubblico, senza temere attentati. Una semplice ricerca su Google vi permetterà di vedere David Cameron che si sposta in bicicletta, sulla metro e sugli aerei di linea, senza che nessuno abbia niente a che ridire. Vi immaginate un Renzi o un Berlusconi che lo fanno? I protocolli di sicurezza lo impedirebbero. Su questo, la Gran Bretagna, che pure ha avuto le sue stagioni sanguinose – il terrorismo dell’IRA negli anni Settanta e Ottanta, non meno cruento dei nostri anni di piombo – aveva molto da insegnare all’Italia. Anzi, l’omicidio Cox non ha scalfito questo supremo principio della politica britannica, al punto che Twitter è nato l’hashtag #ThankYourMP, “ringrazia il tuo deputato”: una cosa ai limiti dell’impensabile per gli italiani. Da noi, la situazione è tale che gli attori di Gomorra sono insultati e minacciati sui social per i propri comportamenti nella serie (vedi fonti). Un altro mondo, davvero. Fonti e approfondimenti
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Il tempo è giunto. Tra pochi giorni i britannici saranno chiamati a fare una scelta che potrebbe cambiare le sorti non solo del loro Paese ma dell’Europa intera. Il referendum del 23 giugno sancirà l’uscita o meno della Gran Bretagna dall’Unione Europea e la relativa campagna elettorale che lo caratterizza sta assumendo connotati epocali di shakespeariana memoria. Da oltre un mese ormai non si sente parlare d’altro che della possibilità di un cordiale bye bye dei britannici a quell’Unione Europea della quale era riuscita a far parte dopo vari tentativi e sforzi. E si, è proprio così: forse si è dimenticato di come la Gran Bretagna abbia avuto notevoli difficoltà per entrare a far parte del sistema comunitario composto fino a quel momento solo dai paesi fondatori dell’ UE (ovvero Francia, Italia, Germania Ovest e i paesi del Benelux). Bisognerebbe analizzare storicamente quanto avvenuto per comprendere motivi e ambiguità della scelta di questo referendum. In sintesi, il sistema comunitario nato nel 1951 gradualmente portò i paesi membri alla creazione di un mercato comune, iniziato con la CECA e conclusosi con il trattato di Roma del 1957, col quale si diede il via a quel sistema e a quella famosa sigla che leggiamo quando acquistiamo la stragrande maggioranza dei prodotti, ovvero CEE (Comunità Economica Europea). L’intenzione era quella di creare un mercato comune e un’integrazione tra i paesi membri capace di abbattere dazi e frontiere, compiutasi più tardi con la libera circolazione delle persone dettata da Schengen prima (1985) e Maastricht poi (1992). Senza soffermarsi ulteriormente sul contesto storico, si può constatare come la Gran Bretagna subito dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale non prese e non volle considerare l’ipotesi di mettere in discussione la sovranità della corona in nome di una integrazione, che al dire il vero all’inizio sembrava essere più politica che economica, rivendicata dai paesi membri (Churchill dichiarò che la G.B. era con l’Europa ma non parte dell’Europa). ![]() Quando anni dopo ci si accorse che l’integrazione era per lo più di tipo economico e che conveniva entrarne a far parte, i primi tentativi furono però fallimentari. In seguito, quando ufficialmente la G.B. fece la sua prima richiesta di entrare nella CEE, le risposte furono negative, soprattutto da parte della potenza dominante del gruppo ovvero la Francia del Generale De Gaulle. Dopo vari sforzi mediatici e politici la G.B. riuscì ad entrare nella squadra UE solo nel 1973 accompagnata da Danimarca e Irlanda. Così dopo 43 anni di convivenza con il resto dell’UE i britannici sembrano essere ritornati sulle vecchie teorie churchilliane, Europa si ma non troppo. I motivi che hanno portato i britannici ad indire un referendum che escluda il loro Paese dall’UE sono molteplici; dal fenomeno migrazione alla crisi economica, ma sicuramente pare evidente che la Gran Bretagna voglia assumere un atteggiamento di potere che le consenta di entrare e uscire dai giochi quando le pare. Prima no poi si ora no. Diciamo che le idee dei britannici non sono molto chiare. Ovviamente quando i britannici andranno a votare vaglieranno i pro e i contro della loro scelta, ma il problema è che questi pro e contro riguarderanno direttamente tutta l’UE e non solo. Questa purtroppo è una condizione imprescindibile visto il modo in cui l’UE è venuta a crearsi. La decisione di un singolo Stato si ripercuote su tutti gli altri e non solo. Anche i mercati risentono notevolmente di questo voto; sono giorni che leggiamo dell’andazzo negativo dei mercati a causa della brexit e di come si possa andare incontro a un’altra crisi economica mondiale, a testimonianza di come sia condizionante. Ma nello specifico, cosa implicherebbe un’uscita britannica? Innanzitutto le conseguenze saranno economiche, in quanto si chiuderebbe un mercato sia in entrata che in uscita. Ma non mancano conseguenze sociali. Ad esempio sono milioni i comunitari che oggi lavorano in G.B. (tra questi 1.4 di italiani) e che in caso della brexit saranno costretti a fare le valigie e tornare nel loro paese di nascita. Si andranno ad innalzare nuovamente quelle barriere che i padri fondatori dell’UE erano faticosamente riusciti ad abbattere. Ma ciò che preoccupa è la scia che un eventuale brexit si lascerebbe dietro. Viviamo in un momento storico in cui la paura regna sovrana. Siamo in balia di populismi che ci portano ad aver paura dell’altro e a rinchiuderci nelle frontiere di casa nostra. Questo crea le basi di politiche nazionaliste e conservatrici (le recenti votazioni in Austria e molti movimenti politici dell’Europa dell’est ne sono un esempio) che già più di una volta in passato hanno portato questo vecchio continente sull’orlo del baratro. Intanto in Inghilterra la campagna per il si e quella per il no assume sempre di più dimensioni gigantesche. Ogni giorno ci sono nuovi testimonial sia per una che per un'altra parte (l’ultimo in ordine cronologico è il rocker Bob Gedolf che appoggia la No brexit) che fomentano il dibattito e che cercano di accaparrarsi quanti più voti possibili; dibattito trasformatosi in esasperazione e dramma con l’omicidio dell’attivista no brexit Jo Cox per mano di un fanatico di estrema destra. Comunque andrà a finire, si può essere più o meno concordi nel restare in Europa, e si possono muovere critiche più che giustificate all’UE. Ma analizzando bene il contesto globale della faccenda, non è tollerabile che la decisione di un singolo paese possa avere conseguenze di portata mondiale. Purtroppo oggi è questo il sistema di cui facciamo parte. C’è da chiedersi se avesse avuto la stessa rilevanza un referendum del genere in un Paese dal minor peso economico; non direi. Immagini tratte da:
- http://www.nasdaq.com/article/how-to-trade-british-pound-in-case-of-brexit-cm596320 - http://www.controradio.it/64210/ - http://cfd.finanza.com/2016/05/25/brexit-sondaggio-telefonico-di-ig-vede-laffermazione-del-fronte-del-si/ Scorrendo diverse notizie relative alla strage del locale gay Pulse di Orlando commessa dalla guardia giurata Omar Mateen ci si imbatte nella scoperta di una regola abbastanza "barbara" riguardante la donazione del sangue da parte di persone omosessuali. Secondo una norma emanata dalla Fda (Food and Drug Administration) nel 1983 all'epoca dell'alto contagio da Aids rimasta in vigore sino al Dicembre 2015, persone omosessuali non avrebbero potuto donare sangue in nessun caso. Ebbene ci sono voluti trent'anni per far sì che la Fda rivedesse tali restrizioni, risolvendosi però a stabilire un limite di "astinenza". Un anno di astinenza da attività sessuale rappresenta infatti oggi la "condizione" a patto della quale uomini e donne gay abbiano il sacrosanto diritto di svolgere un atto di altruismo e amore verso il prossimo. Gli attivisti Lgbt statunitensi la definiscono "resistenza" nell'ambito della lunga strada di battaglie da dover combattere ancora per vedere riconosciuti i loro diritti. La faccenda di certo non fa onore alla Nazione statunitense, così come alla Gran Bretagna, Repubblica Ceca, Svezia, Finlandia e Ungheria in cui vige la medesima regola. Ma andando ad esaminare il quadro generale della questione all'interno dell'Unione Europea, la realtà che emerge è molto più grigia. La stragrande maggioranza (18 su 28) degli Stati dell'Unione attua la proibizione totale delle donazioni, ricorrendo in Paesi come Francia e Germania alle statistiche relative all'alto livello di contagio portato dai cosiddetti MSM (Men who have sex with men) e in misura ancor peggiore ad una valutazione legata non al "comportamento sessuale" della persona, bensì direttamente all' "orientamento". Paradossalmente i 5 Stati dell'UE in cui la donazione di sangue da parte di persone omosessuali non subisce alcun tipo di restrizione appartengono alla schiera di storiche roccaforti religiose come l'Italia, la Spagna,il Portogallo, la Polonia (e con queste la Lettonia, e la Russia al di fuori della Comunità). In Italia un decreto a firma Veronesi ha posto fine al discrimine tra etero ed omosessuali precedente, sebbene in taluni ospedali "i rapporti sessuali tra maschi" figurino tra i criteri di esclusione dalle donazioni. Immagine tratta da www.cafebabel.it
Le possibili letture del riconoscimento tedesco del genocidio armeno. "Der Deutsche Bundestag verneigt sich vor den Opfern der Vertreibungen und Massaker an den Armeniern und anderen christlichen Minderheiten des Osmanischen Reichs, die vor über hundert Jahren ihren Anfang nahmen. Er beklagt die Taten der damaligen jungtürkischen Regierung, die zur fast vollständigen Vernichtung der Armenier im Osmanischen Reich geführt haben. […] Der Bundestag bedauert die unrühmliche Rolle des Deutschen Reiches, das als militärischer Hauptverbündeter des Osmanischen Reichs trotz eindeutiger Informationen auch von Seiten deutscher Diplomaten und Missionare über die organisierte Vertreibung und Vernichtung der Armenier nicht versucht hat, diese Verbrechen gegen die Menschlichkeit zu stoppen." "Il Bundestag tedesco si inchina alle vittime delle espulsioni e dei massacri di Armeni e altre minoranze cristiane dell’Impero Ottomano, iniziati oltre un secolo fa. Deplora le azioni dell’allora vigente regime dei Giovani Turchi, che ha portato all'annientamento quasi totale degli Armeni nell’Impero Ottomano. [...] Il Bundestag deplora il comportamento ignominioso dell’Impero tedesco, che – in quanto alleato militare dell’Impero ottomano, nonostante informazioni chiare anche da parte di diplomatici e missionari tedeschi sulla pianificazione dell’espulsione e dell’annientamento degli Armeni – non ha tentato di fermare questo crimine contro l’umanità." Il 2 giugno scorso, mentre da noi si festeggiavano i settant’anni della Repubblica e c’era chi discuteva se far partecipare alla parata ai Fori Imperiali due cittadini accusati d’omicidio, il Bundestag (la Camera dei Deputati della Repubblica Federale Tedesca) approvava la risoluzione 18/8613, che condannava, a cento anni di distanza, il genocidio armeno e le connivenze che ebbe il Reich tedesco con il governo dei “Giovani Turchi”. Forse non ne avete mai sentito parlare: una cosa non così improbabile, se persino Adolf Hitler, a chi gli obiettava che l’Olocausto avrebbe suscitato reazioni anche sul fronte interno, rispose: “Qualcuno al mondo si è accorto dello sterminio degli Armeni?”. In effetti, quello armeno fu un vero e proprio olocausto ante litteram. Tra il 1915 e il 1916, all’interno dell’Impero Ottomano – all’epoca impegnato nella Prima Guerra Mondiale in alleanza con Germania e Austria-Ungheria – un numero compreso tra ottocentomila e un milione e mezzo di Armeni fu deportato e ucciso per diretta volontà governativa. Gli Armeni erano cristiani ed etnicamente diversi dai Turchi, per cui inconciliabili con la nuova nazione che si stata costruendo sulle ceneri dell’Impero Ottomano. In genere, le operazioni di sterminio avevano due fasi: prima si massacravano i maschi o li si metteva ai lavori forzati, poi si deportavano donne, bambini, anziani e malati in “marce della morte” attraverso il deserto siriano. Prive di acqua e cibo, le colonne in marcia subivano rapine e violenze sessuali; chi resisteva era ucciso dal caldo e dagli stenti. A differenza di quanto accaduto in Germania dopo il 1945, la posizione del governo turco è stata la negazione di ogni evidenza: non ci fu alcun “genocidio”; morirono molti Armeni, “ma anche molti Turchi”, e i massacri furono compiuti “da entrambe le parti”. Gli Armeni erano schierati dalla parte dei Russi – quindi dei nemici della Turchia durante la Guerra Mondiale – per cui, più che di genocidio, si dovrebbe parlare di “atti di guerra”. Il codice penale turco prevede l’arresto e la reclusione fino a tre anni per chi nomina in pubblico il genocidio armeno, visto come gesto “anti-patriottico”. Si tratta di una questione non da poco, in quanto le trattative per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea si sono arenate anche su questo punto. Fino a pochi giorni fa erano 28 le nazioni, tra cui Russia, Brasile, Francia e Canada (oltre a 45 parlamenti su 50 degli Stati Uniti d’America), a riconoscere il genocidio armeno. In Francia si è persino tentato, nel 2006, di approvare una legge che punisse penalmente (cinque anni di reclusione) chi negava gli eventi in questione; quando nel 2011 il disegno di legge fu cassato dal Senato, se ne preparò un altro che punisse ogni forma di negazionismo (compreso quello dell’Olocausto), ma è stato dichiarato incostituzionale in quanto lesivo della libertà d’espressione. L’Italia ha approvato la sua risoluzione parlamentare di riconoscimento del genocidio armeno il 16 novembre 2000. La Germania è il ventinovesimo paese della lista, grazie alla risoluzione approvata congiuntamente da Socialdemocratici, Democristiani e Verdi (un solo astenuto e un solo voto contrario). La risposta del governo turco, che ha provveduto a richiamare il suo ambasciatore a Berlino, è stata: “parlare di genocidio senza averne le prove può significare solamente una strumentalizzazione politica”. La reazione del governo di Tayyip Erdoğan era prevedibile, ma l’episodio – che possiamo catalogare come incidente diplomatico – lascia spazio a più considerazioni ![]() Anzitutto c’è la questione della massiccia presenza di Turchi in Germania (oltre tre milioni). Ipotizzare che la risoluzione fosse rivolta in qualche modo ad attaccarli, come è stato suggerito da alcuni commentatori, è improbabile: ha origini anatoliche Cem Özdemir, leader dei Verdi, tra i principali promotori del provvedimento. Inoltre, Berlino è il primo partner commerciale di Ankara. Eppure, sono noti i rapporti poco sereni tra UE e governo Erdoğan, per la questione dei profughi e per i disinvolti rapporti con Russia, USA e Daesh. Sul primo punto, nel mese di marzo è stato approvato un accordo che prevede un finanziamento di sei miliardi di euro in cambio di un ruolo attivo nella gestione della crisi migratoria. L’opinione pubblica tedesca non ha in simpatia Erdoğan da tempo: ad aprile le proteste di Ankara avevano comportato il rinvio a giudizio del comico Jan Böhmermann che aveva pesantemente insultato il presidente turco in un programma della tv pubblica ZDF. In Germania esiste una legge che punisce chi insulta capi di stato esteri, a condizione che lo stato in questione ne faccia richiesta. Per la cronaca, Böhmermann è stato assolto. Allora come possiamo spiegarci la risoluzione? Non credo che si possa trovare una risposta univoca. Certo, sarebbe bello credere alle parole di Andrea Riccardi. L’ex presidente della Comunità di Sant’Egidio e Ministro per la Cooperazione Internazionale ha scritto sul Corriere della Sera che questa risoluzione è la dimostrazione che “le democrazie europee, pur praticando il realismo della politica, non sono dominate solo da questa logica”. Ce lo auguriamo. Fonti e approfondimenti:
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Novembre 2020
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