Mai come in questo momento storico è delicato, a tratti pericoloso, parlare di ius soli, ovvero del diritto del nato di acquisire la cittadinanza del Paese in cui è venuto alla luce. Le ondate migratorie degli ultimi anni rendono il terreno troppo bollente, come un tappeto di carboni ardenti, per poter avere una discussione seria sul tema. E infatti nei lavori parlamentari, durante l’iter della legge, la dialettica politica ha lasciato in breve tempo posto al tifo da stadio: da un lato i promotori della legge, buonisti favorevoli all’introduzione del diritto, dall’altro le destre inorridite da questo esercito di nascituri pronti alla sostituzione etnica della cristianissima Europa, e dall’altro ancora i parlamentari del Movimento 5 Stelle, che hanno scelto la strada di una vigliacca astensione motivandola con il disaccordo sulla forma della legge (non è dato sapere se riguardo al contenuto siano favorevoli o contrari). Piccolo appunto sui pentastellati: già lo scorso anno, in occasione dell’approvazione della legge sulle unioni civili, mascherarono il proprio dissenso, adducendo motivi di forma della legge e delle procedure sulla sua approvazione, senza esprimersi nel merito. Malignamente è lecito credere che adottino sistematicamente questo trucco per deresponsabilizzare i parlamentari su provvedimenti normativi che creano potenzialmente scontento nella base, formata per lo più da cittadini privi di idee politiche, inclini a opinioni eterodirette dallo Zeitgeist, filtrato dai social, dell’uomo qualunque.
Ripulendo il campo dalle opinioni, è necessario un minimo di approfondimento sull’argomento dello ius soli, ad esempio guardando ai Paesi nei quali è in vigore. Forse può sorprendere sapere che nel continente americano è previsto quasi ovunque, compresi gli Stati Uniti: non vi sono condizioni o mediazioni, semplicemente chi nasce sul suolo americano è cittadino statunitense. In Europa tendenzialmente è applicato con delle condizioni: ad esempio in Francia l’acquisto della cittadinanza del bambino avviene dopo 5 anni di ininterrotta permanenza su suolo transalpino. Il sistema attualmente in vigore in Italia, invece, è fondato sullo ius sanguinis, ovvero la cittadinanza si acquisisce se il bambino ha un genitore italiano o risulta residente in Italia ininterrottamente fino alla maggiore età. La proposta normativa in discussione al Senato, invece, prevede di concedere automaticamente la cittadinanza al neonato se almeno uno dei due genitori si trova legalmente in Italia da minimo cinque anni, oppure se il bambino conclude un ciclo di studi (elementari o medie) nel sistema scolastico italiano. Dunque basterebbe questo appunto per smentire il terrorismo mediatico, cavalcato dalle destre, che paventa l’africanizzazione del Bel Paese in caso di approvazione della legge. L’unico effetto immediato sarebbe evitare i cortocircuiti logici del sistema attualmente in vigore: non è raro imbattersi in storie di ragazzi nati e cresciuti in Italia, magari fino ai 15/16 anni, che sono costretti a tornare nel Paese originario dei genitori perché magari il permesso di soggiorno dei genitori è scaduto. È una evidente irrazionalità del sistema legislativo, legata all’obsolescenza della disciplina (del 1992) che deve ovviamente essere aggiornata per tenere conto delle modificazioni socioculturali che hanno solcato l’Europa negli ultimi anni. Nota a margine: i pentastellati, pur nella fragilità delle scuse cerchiobottiste di cui sopra, hanno sottolineato un aspetto molto serio della legge di cui bisogna dargli atto. L’acquisto della cittadinanza italiana significa, ovviamente, diventare cittadini dell’Unione Europea. Assunto questo dato, è irrazionale pensare che i 28 Paesi dell’UE abbiano 28 discipline differenti di acquisto della cittadinanza, posto che gli effetti di ogni singola normativa interna si riflettono indifferentemente su tutto il territorio comunitario. Un segnale intelligente delle istituzioni europee, in epoca di crisi profondissima di rappresentatività, potrebbe essere quello di discutere una normativa generale sull’acquisto di cittadinanza, prevedendo magari uno ius soli comunitario che scremerebbe considerevolmente la questione stomachevole delle “quote” di migranti da distribuire nei vari Paesi e darebbe contezza di come l’Unione non sia solo un agglomerato di burocrazia finanziaria ma anche un’istituzione tangibile per i popoli europei. Come sottolineato dagli studiosi di diritto internazionale, durante le grandi crisi economiche è necessario implementare misure di estensione dei diritti civili per fronteggiare socialmente e culturalmente le storture del sistema finanziario: quale occasione migliore per testare su larga scala questa idea? Immagini tratte da: Corriere della Sera
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Quanto accaduto in Piazza San Carlo a Torino la sera della finale di Champions League mette a dura prova ogni spiegazione. A 36 ore dall’accaduto ancora non è chiaro quale evento abbia scatenato il panico che ha causato oltre 1500 feriti, tra cui alcuni in gravissime condizioni. La dinamica è ormai nota: qualcosa ha spaventato una parte della folla, sul lato sinistro della piazza, folla che ha iniziato a correre innescando un’immensa reazione a catena. I racconti dei presenti trasudano paura, sgomento: nessun dato utile, però, a segnalare in minima parte cosa abbia causato la stampede all’ombra della Mole. E’ arduo immedesimarsi nei presenti, dal proprio divano con gli occhi sul televisore difficilmente si può capire cosa si provi a ritrovarsi in mezzo a 30mila persone che fuggono senza nessuna direzione, senza nessun motivo. Per questo abbiamo provato a contattare uno dei presenti, L., per avere contezza di come la folla abbia percepito il pericolo. Quello che filtra dal suo racconto, in verità, rende il tutto ancora più inspiegabile. E’ tutto un susseguirsi di “non so perché”. Nessuno sparo, nessuna esplosione, nessun allarme. Solo panico, panico allo stato puro. “Ti passano davanti mille scene”. E corri. “Ho corso più di Higuain durante la partita”. L. era con degli amici nel pieno centro della piazza durante il primo tempo: si è allontanato nell’intervallo per cercare di ricongiungersi con altri amici che sostavano proprio sul lato sinistro della piazza, dunque ha visto da molto vicino quello che è successo (o più correttamente quello che non è successo). Non un rumore, solo panico. E il passaparola irrazionale che riempiva di spiegazioni artificiose ciò che non appariva comprensibile: le versioni dell’accaduto si sprecavano, ma L. – e crediamo migliaia di altri – è riuscito a non attingere alla fonte dell’angoscia ma, pur navigando nel fiume di vetri rotti, ha constatato come il racconto di bombe, mitra, arabi inneggianti allo sterminio dell’Occidente stridesse con la realtà percepita dai suoi sensi: non era dato vedere fumo o fiamme; non era stata udita alcuna esplosione, sparo; l’aria puzzava di gente sudata e non di misture chimiche. Questa semplice evidenza, semplice per chi sta su un divano a mangiare patatine, molto meno per chi aveva un bambino per la mano, ha tranquillizzato i presenti nel giro di alcuni minuti. Sicuramente nei prossimi giorni una spiegazione plausibile a tutto ciò dovrà venire a galla. Magari qualche idiota ha sparato un petardo troppo vicino alla folla e alcuni troppo suggestionabili hanno confuso quel rumore con quello di una bomba; magari qualche idiota si è messo a urlare per il puro gusto di sciacallare sulle tensioni sociali degli ultimi anni. Magari ancora è stato un puro caso che ha ingenerato terrore tra pochi, i quali sono riusciti a sconvolgere una folla di persone che, senza sapere perché, si è trovata suo malgrado a coronare il sogno di ogni terrorista: terrorizzare le masse senza muovere un dito. A Torino, sabato, il terrore ha vinto una partita. Ma d’ora in avanti ogni volta che entreremo in uno stadio, in un aeroporto, ad un concerto, avremo modo di prenderci una giusta rivincita. |
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Novembre 2020
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