In uno scenario internazionale sempre più complesso ,tra attacchi terroristici sul territorio europeo, caos politico alle porte dell’Europa in Turchia, a cui si aggiungono le continue tensioni e guerre in Medio-Oriente, un altro fronte preoccupa sempre di più l’Occidente. Stiamo parlando dell’area del Mar Baltico, con tre paesi da poco entrati nella NATO, quali Estonia, Lettonia e Lituania. Probabilmente sovrastata dal clamore mediatico suscitato dalle altre crisi geopolitiche, è passata quasi inosservata la decisione da parte dell’Alleanza Atlantica di dispiegare quasi quattromila soldati nei paesi baltici. La mossa, che di per sé a molti può non dire nulla, in realtà cela una sorta di provocazione anti-russa sulla base della quale si sta giocando un revanscismo della Guerra Fredda che si riteneva cessata ormai venticinque anni fa. Molti analisti parlano di una seconda guerra fredda, affermazione a mio avviso non corretta, in quanto non tiene conto della continuità temporale tra gli anni ’90 e i primi anni 2000, in cui l’Alleanza, invece di far di tutto dal punto di vista politico-militare per mantenere lo status quo in Europa Orientale, ha sfruttato la relativa debolezza russa sotto ‘Eltsin, cercando di inglobare sempre di più i paesi dell’Est, fino ad arrivare alle porte della Russia stessa. Il paese di Putin, che nel frattempo è intervenuto regionalmente nella questione georgiana prima e ucraina poi, ha colto l’effettivo allargamento della NATO, con annessa proposta di costruire scudi missilistici non lontano dai proprio confini, come un attacco indiretto, innescando un vortice che sempre di più sta generando tensioni nelle ex repubbliche sovietiche, tra cui proprio le nazioni sopracitate. Lo scudo missilistico, ufficialmente in chiave anti-iraniana, nella realtà dei fatti è rivolto come messaggio contro la Russia stessa, vista l’esperienza balistica nei missili a corto e medio raggio che il paese ha sviluppato ai tempi dell’URSS. Le tre nazioni baltiche, contraddistinte fieramente da una storia plurisecolare, vivono con costante fermento ogni mossa militare russa, all’interno e all’esterno dei proprio confini. Memori di un passato sovietico fatto di repressione e appiattimento culturale, a seguito dell’ottenimento dell’indipendenza tra il 1989 e il 1991 hanno cercato immediatamente riparo tra le “sicure” e protettive braccia dell’Europa, entrando nella UE prima e nella NATO poi. Nel caso in questione, alla richiesta legittima di questi paesi di poter tornare a guardare all’Europa dopo decenni di isolamento, Europa a cui culturalmente i paesi baltici appartengono di diritto, si sono aggiunte le mire occidentali, volte al tentativo di schiacciare quanto più possibile la Russia post-sovietica per renderla inoffensiva. L’incontro quindi tra necessità europee e baltiche, ha portato Estonia, Lettonia e Lituania ad entrare nella UE solo tredici anni dopo la propria indipendenza (l’ingresso risale al 2004), anche a costo di enormi sacrifici economici. L’interesse commerciale tedesco, che vede nella decina di milioni di abitanti che popolano l’area un mercato appetibile, ha fatto il resto nel garantire strada spianata ai tre paesi. Estonia e Lettonia sono anche entrate nell’Area Euro. In parallelo sono state avviate anche le pratiche per l’ingresso nella NATO, poi completato. La mossa di portare un contingente di migliaia di soldati in questi paesi, in questo preciso momento storico, se ha destato alcune perplessità negli analisti, ha al contrario trovato il favore dei governi locali, che non esitano a denunciare assiduamente qualsiasi manovra militare russa nell’area (ricordiamoci la presenza, a Sud della Lituania, dell’enclave russa di Kalinigrad). La paranoia antirussa è del resto forte in questi stati, che additano la causa della stessa alla vecchia coercizione sovietica. Non è raro, che in ambienti vicini ai vari governi, si viva nel timore che le mire russe possano nuovamente spostarsi nell’area, non comprendendo probabilmente che in questi venticinque anni molte cose sono cambiate. In particolare ad essere cambiato è il ruolo russo nelle dinamiche geopolitiche mondiali, e il continuo allarmismo sul “mostro russo” sta di fatto minando di fatto un percorso di pace che deve necessariamente guardare anche a Mosca come possibile partner e non come rivale. A soffiare sul fuoco della paura ci si mette anche la Russia stessa, con svariate e imponenti esercitazioni militari nel Baltico, mentre non sono rari avvistamenti di aerei, navi, o sottomarini russi nei pressi delle acque territoriali delle tre repubbliche. In questo caso è evidente che tutte le parti in causa ci mettano del proprio per non facilitare i rapporti reciproci. Dall’altra parte dobbiamo riconoscere un tipico nostro difetto occidentale, che non fa altro che alimentare le paure dei paesi baltici e la tensione tra i contendenti . Il problema è stato nel ritenerci a pieno titolo vincitori della guerra fredda, e nel vedere come un successo della nostra società e della nostra cultura il crollo dell’URSS. Nella realtà il collasso dell’Unione Sovietica è dipeso più dalle contraddizioni intrinseche al paese stesso e al suo sistema, più che ai meriti politico-sociali occidentali. Il fatto di aver successivamente trattato la Russia, e di trattarla tuttora, come un perdente da accantonare, se non addirittura da umiliare, non ha fatto altro che risvegliare Mosca dal torpore degli anni ’90. Per il mantenimento della pace in Europa a mio avviso occorre quindi fare di più. Deve fare di più la Russia di Putin, rinunciando definitivamente al ruolo di superpotenza che non gli compete più nel XXI secolo, ma deve fare un passo indietro anche l’Occidente, evitando provocazioni spesso inutili e non adatte al clima che si respira nel 2016. Il dispiegamento dei soldati nel Baltico e la fomentazione del terrore antirusso di quei paesi è a tutti gli effetti un’occasione persa per garantire una pace duratura nel nostro continente. Immagini tratte da:
- http://www.euromic.com/pictures/5835.jpg - https://www.lrp.lt - http://balticreports.com/2010/05/24/baltic-border-control-increases/
0 Commenti
Oggi alla Camera, il ddl sulla legalizzazione della cannabis
Quando il 13 marzo 2013 fu inaugurata la diciassettesima legislatura, c’erano grandi aspettative nell’aria. Nonostante la “non vittoria” del Partito Democratico di Pier Luigi Bersani, l’enorme risultato del Movimento 5 Stelle – lista più votata in Italia, alle prime elezioni politiche in cui si presentava – lasciava intendere che il nuovo Parlamento avrebbe messo all’ordine del giorno non solo le invocate riforme istituzionali, ma anche temi fin lì esclusi dalla dialettica politica perché troppo audaci, come le unioni civili e la legalizzazione delle droghe leggere.
Con lo scorrere dei mesi, quelle aspettative hanno lasciato spazio ad entusiasmi via via più contenuti, e molte delle proposte più innovative sono state progressivamente fagocitate da una palude parlamentare fatta di ostruzionismi e pelosi moti di coscienza. La legge sull’omofobia, per dirne una, è ferma in Senato dal 20 settembre 2013. Il reato di tortura, per dirne un’altra, si è arenato pochi giorni fa, quando il Senato ha sospeso su richiesta dei gruppi di centrodestra l’esame del disegno di legge che introduce nel nostro ordinamento il reato di tortura. In questo scenario non esattamente di cambiamento, l’approvazione della legge sulle unioni civili, per quanto fortemente ammorbidita rispetto alle proposte iniziali, ha rappresentato un traguardo impensabile fino a poco tempo prima. Potrebbe non essere l’unica sorpresa di questa diciassettesima legislatura, perché oggi (25 luglio, data a suo modo evocativa) inizia alla Camera dei Deputati la discussione generale sulla proposta di legge N. 3235: “Disposizioni in materia di legalizzazione della coltivazione, della lavorazione e della vendita della cannabis e dei suoi derivati”.
Per i coraggiosi, la presentazione della proposta di legge
Dalla A di Agostinelli alla Z di Zolezzi, sono 220 i parlamentari ad aver firmato questo ddl. Fanno parte dell’imponente intergruppo parlamentare che lo ha presentato deputati del PD, del M5S, di Forza Italia e di molte altre sigle. Li guida il sottosegretario agli Esteri Benedetto della Vedova, che ha voluto così affrontare il vuoto legislativo causato dalla bocciatura, da parte della Corte Costituzionale, della legge Fini-Giovanardi, avvenuta nel 2014. Da allora, è tornata a regolamentare il consumo di stupefacenti la Iervolino-Vassalli, risalente al 1990. Una vita fa, è il caso di dirlo. Ma la proposta di legge Della Vedova non vuole solamente adeguare ai tempi la legislazione: si tratta di un provvedimento antiproibizionista, in linea con il passato radicale del promotore.
Antiproibizionista significa che, dopo decenni di contrasto duro, ci si rende conto che proibire la vendita di un certo prodotto non impedisce che quello si diffonda effettivamente. Un po’ come avveniva nell’America anti-alcool degli anni Venti, il consumo di droga nell’Italia di oggi è costante e diffuso, e continuare a proibirlo ha come conseguenze l’arricchimento delle organizzazioni criminali e un notevole ingolfamento della macchina della giustizia: «per correre dietro a “ladri di merendine” impieghiamo soldi, uomini e mezzi che potrebbero invece essere utilizzati per perseguire reati ben più gravi e pericolosi», ha dichiarato Della Vedova. È stata la stessa Direzione Nazionale Antimafia, nel febbraio 2015, a richiedere un intervento da parte del Parlamento per superare questo stato di cose, così da potersi concentrare sulle droghe pesanti e sugli altri traffici criminali. Vediamo allora in cosa consiste il provvedimento.
Ogni cittadino può portare con sé fino a 5 grammi di cannabis per uso ricreativo (in casa possono esserne conservati fino a 15) e può fumarli senza alcuna autorizzazione nei luoghi privati. Restano vietati il consumo in pubblico, sul posto di lavoro e alla guida (per quest’ultima valgono le sanzioni del Codice stradale già esistenti). In casa possono essere coltivate fino a 5 piante, a condizione di comunicarlo alla Regione. La coltivazione – sempre con il limite delle 5 piantine – può essere fatta da associazioni senza fini di lucro, con un massimo di 50 iscritti. La vendita è possibile solo con l’autorizzazione da parte dell’Agenzia delle Dogane e in locali dedicati, sottoposti a norme piuttosto stringenti (in due parole: non verrà venduta nelle tabaccherie, ma ci vorranno veri e propri coffee shop). Il 5% dei proventi dalla vendita sarebbero destinati al Fondo nazionale di intervento per la lotta alla droga.
Il provvedimento interviene anche sulla questione della cannabis terapeutica, ossia quella impiegata per la terapia del dolore nei malati cronici o terminali. Attualmente possibile in undici regioni su venti, la cannabis terapeutica è comunque soggetta a restrizioni molto dure che verrebbero significativamente attenuate.
L’idea di depenalizzare il consumo di marijuana è frutto anche dell’osservazione di quanto accade all’estero. Oltre ai casi ben noti di Olanda e Svizzera, di recente Spagna, Portogallo e alcuni stati americani hanno legalizzato le droghe leggere, ottenendo risultati significativi, in termini di contrasto alla criminalità. L’Economist ha dedicato una copertina e un lungo articolo al tema, schierandosi dalla parte degli antiproibizionisti.
Secondo i dati offerti dall’integruppo, il mercato della cannabis vale da noi 12 miliardi di euro (tra 1,5 e 3 milioni di chilogrammi di prodotto), che al momento sono totalmente al nero; un articolo de Lavoce.info stima introiti fiscali per almeno 6 miliardi di euro, in caso di legalizzazione. Significativi vantaggi si avrebbero anche sul piano della giustizia, visto che un numero significativo di provvedimenti sono a carico di chi consuma o vende cannabinoidi: secondo il VII Libro Bianco sulla legge sulle droghe (2016), il 56,31% delle operazioni di polizia, il 48,20% delle segnalazioni all’autorità giudiziaria e il 78,99% delle segnalazioni alla prefettura in materia di stupefacenti hanno riguardato la marijuana. Se i dati economici e sulla criminalità sono piuttosto convincenti, maggiori sono i dubbi sul piano etico. Non si rischia di trasformare lo Stato in “spacciatore”, un po’ come accade per il tabacco e i video-poker? E ai giovani, che insegnamento viene dato? Della Vedova risponde così: «nessuno mette in dubbio la nocività di un uso intenso e continuativo della cannabis, specialmente durante l’adolescenza. Ma l’ipocrisia proibizionista è esattamente qui: oggi i minorenni acquistano illegalmente hashish da spacciatori che di certo non chiedono la carta d’identità ai loro clienti. Con la nostra proposta di legge, invece, prevediamo la vendita della sostanza in negozi dedicati (non in tabaccheria, quindi) dove l’ingresso ai minorenni è assolutamente vietato: questo contribuirà a ridurre drasticamente il consumo da parte dei minorenni. Inoltre, con la cannabis legale, ci sarà un controllo sulla qualità da parte delle istituzioni sanitarie. Cosa che, nell’odierno quadro di illegalità, di certo non avviene». Un po’ come è accaduto per le Unioni Civili, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, e non è detto che il pur corposo integruppo favorevole al ddl sia in grado di ottenerne l’approvazione, perlomeno nei termini in cui è stato presentato. Il gruppo parlamentare di centrodestra Area Popolare, per dirne una, ha già depositato oltre 1300 emendamenti, che renderanno la discussione aspra e impegnativa. Ecco il botta e risposta via Twitter tra Roberto Saviano e il capogruppo di AP Maurizio Lupi: - Roberto Saviano - Maurizio Lupi Forse andrà a finire come con l’omofobia o il reato di tortura, ma già il fatto che una proposta di legge antiproibizionista venga effettivamente discussa in aula, è una grande novità.
Fonti e approfondimenti:
• Il ddl 3235; • Il riepilogo de La Stampa sui contenuti del provvedimento, qui quello di Wired; • La relazione della Direzione Nazionale Antimafia; • Un articolo di Luigi Manconi sulla fabbrica che produce la cannabis terapeutica; • [inglese] Il parere dell’Economist sulla legalizzazione delle droghe leggere; • Un’intervista sul tema a Benedetto Della Vedova; • Il VII Libro bianco sulla legge sulle droghe; • Il sito della campagna antiproibizionista Non me la spacci giusta; • L’articolo de Lavoce.info sui benefici fiscali della legalizzazione; • Il parere di Mattia Feltri de La Stampa. Immagini tratte da: • Una piantina di cannabis, foto di Nabokov – lavoro proprio, da Wikipedia inglese, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5369827; • L’infografica sul ddl è tratta da http://www.cannabislegale.org/ Questo, com’è logico che sia, è un articolo che non avrei voluto scrivere. Purtroppo però, quanto successo giovedì sera a Nizza merita menzione. E’ il terzo attacco pesante subito dalla Francia nell’ultimo anno e mezzo. Un attacco del tutto inaspettato, che ha coinvolto mezzo mondo, vista la molteplice nazionalità delle decine di vittime e dei feriti. Ma se l’attacco è arrivato, come sempre, all’improvviso, puntuale è stato l’interessamento mediatico che ha coinvolto il paese transalpino e soprattutto la città di Nizza. Le frasi sono le solite, il cordoglio espresso sui social network uguale, un film già visto e rivisto più volte. Se c’è una cosa vera è che, come detto da molti, siamo in guerra. Una guerra contro un nemico invisibile, che si svolge su campi non convenzionali e con armi spesso non convenzionali, e l’attentato che ha visto un tir come “arma”, ne è la dimostrazione. Da lì poi parte la logica domanda. Dov’è che l’occidente ha sbagliato? Tralasciando le questioni geopolitiche che hanno interessato la nostra società negli ultimi dieci anni, cercherò di soffermarmi sul caso francese. La vittima europea designata per gli attacchi nell’ultimo anno e mezzo è rappresentata da un paese in cui la componente islamica rappresenta circa il 9% della popolazione su un totale di 65 milioni di cittadini circa. La maggior parte sono soggetti di seconda o addirittura terza generazione, nati e cresciuti in Francia e provenienti prevalentemente dal Maghreb, soprattutto algerini e tunisini. Questo è il primo elemento su cui dobbiamo soffermarci e riguarda ovviamente il rapporto tra la “Republique” e le sue ex colonie. Spesso umiliate e messe ai margini dell’Impero fino alla seconda guerra mondiale, successivamente abbandonate letteralmente a sé stesse, per finire con i movimenti di liberazione nazionale o di lotta per l’indipendenza con annessa rivoluzione, come nel caso dell’Algeria. Il primo errore si è avuto probabilmente nel momento in cui la Francia, a seguito dell’ottenimento dell’indipendenza dei paesi maghrebini, si è disinteressata della costruzione della macchina statale dei paesi stessi e delle loro economie, mantenendo però una pesante influenza politica nella regione. E’ stata proprio quest’influenza che i francesi hanno continuato a mantenere che ha attirato milioni di immigrati di prima generazione verso il paese d’oltralpe. All’epoca il fondamentalismo religioso non sembrava un problema, erano gli anni del boom economico e la manodopera a basso costo garantita da questi lavoratori consentiva agli industriali una massiccia produzione e ottimi profitti. Gli stessi immigrati erano inizialmente ben lieti di fuggire da miseria e corruzione nei loro paesi per cogliere la propria opportunità in una grande città francese. E’ così che intere periferie si sono riempite di un proletariato estraneo culturalmente e socialmente al resto della società francese, la quale a sua volta, ha preferito spostarsi verso il centro cittadino oppure fuori dalle città in questione. Le periferie si sono quindi unicizzate etnicamente, essendo abitate sempre di più e talvolta quasi esclusivamente da cittadini stranieri. Il secondo errore, forse il più grave, è stata la disattenzione nei confronti delle periferie stesse. Al termine del boom economico, con le tipiche fluttuazioni nei mercati e periodi di recessione, si è infatti avuto un impoverimento generale delle masse popolari radunatesi in questi quartieri, denominati banlieue. Povertà, emarginazione e criminalità hanno iniziato a farli da padrone, determinando quel sottofondo di ostilità nei confronti del governo di Parigi che fa tuttora da nutrimento alle cellule terroristiche radicatesi in queste zone. Zone in alcuni casi completamente fuori dal controllo statale, in cui la stessa polizia fatica ad entrare, enclavi di una subcultura fondamentalista in territorio francese. Il radicamento di cellule terroristiche però non è un fatto del tutto automatico. Com’è possibile che dei ragazzi francesi islamici,frustrati, rabbiosi ed emarginati da uno stato che ritengono inesistente siano entrati in contatto con il mondo jihadista? La risposta non può essere certa. In primo luogo troviamo sicuramente la curiosità che i filmati di propaganda dell’ISIS suscitano in menti deboli e culturalmente poco aperte, che li porta ad informarsi su internet e successivamente, tramite Facebook o Whatsapp ad entrare in contatto con dei reclutatori locali. Dall’altra abbiamo però gli effetti devastanti della predicazione wahabita praticata in molte scuole islamiche, o madrasse francesi. Queste rappresentano veri e propri nuclei di aggregazione dell’estremismo, “provider” di una rete di istruzione parallela e conflittuale a quella garantita dallo stato. L’eccessiva tolleranza mostrata dal governo francese nei confronti dell’apertura di questi centri, spesso finanziati dall’Arabia Saudita (sedicente alleato occidentale), sono ulteriore dimostrazione di quanto la lassità mostrata negli ultimi decenni si ripercuota ora all’interno dell’Europa. La Francia si trova scossa a partire quindi dalle fondamenta, e a farne le spese è anche il presidente Hollande, forse più vittima che responsabile della sua inconmpetenza. Confuso, con la fiducia ormai rasoterra, si trova a dover gestire una situazione più grande di lui, che grande non è. Oggettivamente il povero Hollande non è un Mitterrand, per nominare il suo predecessore socialista, ma nemmeno uno Chirac, e forse addirittura peggio del già pessimo Sarkozy. Roba che i nostri politici non sembrano neanche così male al confronto. Partito con ambizioni postimperialiste nel 2012, con il tentativo di destituire Gheddafi in Libia, iniziato da Sarkozy, e iniziare una sorta di ricostruzione della Grandeur francese, il “piccolo Napoleone” si è ritrovato impantanato nei suoi stessi errori in politica estera, causando addirittura frizioni con Washington, alleato storico. Dopo aver infatti consegnato la Libia all’anarchia, le mire si sono rivolte verso la Siria, con la pesante minaccia di bombardare Assad e fornire aiuto ai ribelli moderati, ammesso che ce ne siano, favorendo in questo modo indirettamente l’ISIS. Il tentativo francese di sconfiggere Assad non ha fatto altro che favorire infatti la fuga di molti radicalizzati islamici dalle periferie francesi verso la Siria, e da lì tornati in patria, addestrati alle armi, con collegamenti con lo Stato Islamico e pronti all’azione. Ultimamente si sommano anche i problemi interni, vista una pessima riforma del lavoro di stampo liberista, che con il socialismo non ha niente a che vedere, che non ha fatto altro che erodergli il poco consenso rimastogli. Ma il lascito più grande dell’inetto Hollande può far precipitare la situazione nel Vecchio Continente e portare addirittura al disfacimento dell’Europa. Il prossim’anno si vota, e per ora sembra che il Presidente abbia steso un tappeto rosso alla Le Pen…che succederà se la leader del Front National dovesse vincere? Imagini tartte da:
- prima, http://blogs.ft.com/the-world/files/2014/04/mas_hollandeStress.jpg - seconda, del Fatto Quotidiano. - terza, di sinistraeuropea.it La maldestra sollevazione dell’esercito turco e la conferma del potere di Erdoğan 256 morti e 1440 feriti: questo il bilancio degli eventi turchi del 15 e 16 luglio, quando una parte dell’esercito ha tentato di rovesciare il governo, ritenuto incompatibile con i fondamenti costituzionali. Il Parlamento e il Palazzo Presidenziale di Ankara sono stati bombardati, mentre il ponte sul Bosforo di Istanbul è stato bloccato dai militari. Nell’arco di alcune ore, il governo è stato in grado di riprendere in mano la situazione, dichiarando il colpo di stato fallito. Quasi 3000 soldati sono stati arrestati per cospirazione, e un numero simile di giudici sono stati rimossi dal proprio incarico. Perché una sollevazione dell’esercito contro il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan? I motivi vanno individuati nella storia dello stato turco e nei recenti sviluppi politici della zona. La Turchia moderna nacque all’indomani della Prima Guerra Mondiale, sulle ceneri dell’Impero Ottomano. Sotto la guida autoritaria di Mustafa Kemal, venne fondata una repubblica rigorosamente laica (fu proibito il velo, si adottò l’alfabeto latino in luogo di quello arabo, furono adottati un codice civile di ispirazione svizzera e un codice penale di ispirazione italiana, abolendo qualsiasi legge collegata alla tradizione islamica) in cui il potere apparteneva al partito unico e l’esercito si faceva garante contro ogni deriva islamista. Quando nel 1934 ogni turco fu costretto ad assumere un cognome (altra pratica occidentale), Mustafa Kemal scelse quello di Atatürk, “padre dei turchi”, il che ci lascia intendere il culto che circondava la sua persona. Atatürk morì nel 1938 per una cirrosi epatica: non casualmente aveva legalizzato il consumo di alcool, immorale secondo le norme religiose. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la posizione geografica della Turchia la rese un baluardo del sistema occidentale, al confine con l’Unione Sovietica. La Repubblica Turca accettò il multipartitismo ed entrò nella NATO nel 1952. Da allora, ogni volta che un leader politico ha messo in discussione i fondamenti laici dello stato, l’esercito ha fatto pressioni per un cambio di rotta; in mancanza di un segnale concreto, le forze armate sono intervenute direttamente. Fino al 15 luglio scorso, si erano verificati tre colpi di stato militari: nel 1960, nel 1971 e nel 1980. Non è un caso, quindi, che la Turchia abbia l’esercito più ampio della NATO (2.442.700 di soldati), secondo solo a quello statunitense. Negli ultimi trent’anni, l’economia turca è cresciuta e la situazione politica si è resa più stabile, rendendo simili pratiche un lontano ricordo. Erdoğan è il simbolo della Turchia contemporanea. Nato nel 1954 in una famiglia modesta, è riuscito in pochi anni a costruirsi una brillante carriera politica, che lo ha visto diventare, nell’ordine, Sindaco di Istanbul, Primo ministro e Presidente della Repubblica. Il tutto alla guida del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi), erede di movimenti a fondamento religioso sciolti dalla giustizia turca perché contrari alla laicità dello stato. L’AKP, presentandosi semplicemente come “conservatore”, ha accuratamente evitato di insistere sulle proprie radici islamiche, ma ha comunque portato avanti una politica tradizionalista, reintroducendo il reato di blasfemia e la possibilità per le donne di portare il velo. Negli ultimi anni Erdoğan ha imposto restrizioni alla libertà di parola e di stampa, oltre al controllo di internet e alle limitazioni al diritto di associazione. Sicuramente ricorderete le proteste di Piazza Taksim e nel parco Gezi del 2013: quello era il dissenso popolare, soprattutto dei giovani, contro le politiche autoritarie del governo. La situazione non è migliorata negli ultimi mesi, caratterizzati da una pericolosa gestione della politica estera, con l’appoggio dei fondamentalisti islamici in guerra contro Assad, in Siria, che ha agevolato l’espansione dell’Isis, oltre all’intensificarsi del contrasto alla popolazione curda. Il risultato sono stati decine e decine di attentati in tutto il territorio turco, tra cui il massacro all’aeroporto di Istanbul del 28 giugno, con 45 vittime. Benché la Turchia abbia più volte fatto richiesta di entrare nell’Unione Europea, le politiche autoritarie di Erdoğan e la posizione negazionista sul genocidio armeno (ne parlammo qui) hanno reso improbabili esiti in questo senso.A questo punto possiamo capire perché le potenze internazionali non si siano subito espresse a favore di Erdoğan, quasi ne desiderassero la caduta: il Segretario di Stato americano Kerry, per esempio, si è espresso a favore del governo democraticamente eletto solo nella giornata di sabato, con un tweet.
Quello che è sicuro, è che questo golpe è stato organizzato in modo maldestro. Troppo pochi i rivoltosi, e poco efficace il loro operato. Un raffinato esperto di politica turca come Antonio Ferrari ha parlato di minigolpe improprio, per sottolineare il carattere contenuto della sollevazione, esauritasi nell’arco di poche ore, e i suoi contorni poco chiari. Per esempio, sui mezzi di comunicazione internazionali è girata per ore la notizia che Erdoğan stesse fuggendo dalla Turchia alla ricerca di un paese in cui chiedere asilo. Non era affatto vero, anche perché la situazione era sotto controllo. C’è chi ha ipotizzato, senza usare mezzi termini, una montatura: Erdoğan, venuto a conoscenza dell’esistenza di un piccolo gruppo di militari insurrezionalisti (cosa comunque credibile), li avrebbe lasciati fare, allo scopo di compattare il consenso interno ed epurare giudici e soldati non allineati. Non è possibile oggi dare una conferma a questa ipotesi, ma appare con evidenza che all’indomani del golpe, il potere del Presidente turco è più saldo. Resta da capire quali siano le sue intenzioni. E quale sarà l’atteggiamento della comunità internazionale. Fonti e approfondimenti: • [inglese] La documentata pagina di Wikipedia, https://en.wikipedia.org/wiki/2016_Turkish_coup_d%27%C3%A9tat_attempt (qui la pagina italiana, più leggera ma non meno interessante, https://it.wikipedia.org/wiki/Colpo_di_Stato_in_Turchia_del_2016); • L’utilissimo vademecum di Antonio Ferrari, pubblicato sul sito del Corriere della Sera: http://www.corriere.it/extra-per-voi/2016/07/16/chi-c-dietro-golpe-fasulloin-turchia-che-cosa-succede-ora-600dabda-4b47-11e6-8c21-6254c90f07ee.shtml?cmpid=SF020103COR; • Il vademecum del Post, http://www.ilpost.it/2016/07/17/colpo-di-stato-golpe-turchia-spiegazioni/; • Un ritratto di Erdoğan, http://www.ilpost.it/2016/05/18/erdogan-turchia/; • La situazione degli attentati in Turchia a fine giugno, http://www.ilpost.it/2016/06/29/turchia-terrorismo/; • Il tweet di John Kerry, https://twitter.com/StateDept/status/754089931169861633. Immagini tratte da: • Erdogan parla con Facetime, foto tratta da https://timedotcom.files.wordpress.com/2016/07/turkey-coup-attempt-istanbul-ankara-4.jpg?quality=75&strip=color&w=838; • Il mausoleo di Atatürk, foto di Mesut Aktürk at de.wikipedia - Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=13007521; • Le proteste di Piazza Taksim nel 2013, foto di Fleshstorm - Opera propria, CC BY-SA 3.0, HYPERLINK "https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=26669700"https://commons.wikimedia. Il verdetto della commissione ha stabilito che non sono state vagliate tutte le opzioni prima dell’intervento armato. Blair: “ho agito in buona fede” Lo scorso mercoledì dalla commissione Chilchot è emersa una verità che già tutti sapevamo ma che ora ha assunto i crismi dell’ufficialità: la guerra in Iraq del 2003 è stata condotta dietro false giustificazioni. Procediamo con ordine. Che cosa è la commissione Chilcot? Nel 2009 l’allora premier britannico Gordon Brown decise di istituire una commissione per valutare motivi e conseguenze della guerra in Iraq tra il 2001 e il 2009. A dirigere la commissione è stato John Chilcot il quale, esaminando tutti i dati a sua disposizione, ha recentemente decretato che l’intervento del marzo del 2003 fu approvato senza vagliare tutte le alternative diplomatiche e pacifiche. Soprattutto Chilcot accusa Tony Blair (premier britannico all’epoca dei fatti) di aver volutamente ingigantito le teorie che sostenevano il possesso da parte di Saddam Hussein di armi di distruzione di massa. Queste teorie non avevano riscontri, ma furono comunque presentate sulla base di percezioni personali. Non c’erano dunque basi legali solide per l’entrata in guerra della Gran Bretagna. Quello che fa riflettere però è che il rapporto della commissione non solo ritiene inutile l’intervento, ma lo reputa anche fallimentare. Infatti si stima che a perdere la vita furono quasi 200 soldati britannici e 180.000 iracheni (pressoché tutti civili) e, soprattutto, che il duplice obiettivo di stabilire la pace e di limitare al minimo gli attacchi terroristici, non sia stato raggiunto. Anzi al contrario il rapporto sostiene che la guerra ha favorito una certa instabilità nel territorio, contribuendo all’aumento del numero di profughi e favorendo la nascita dello Stato islamico. Appare quindi chiaro come non ci sia stata una minaccia così fondata da giustificare un intervento armato. Allora perché dare il via a questa guerra che ha provocato migliaia di vittime innocenti? La risposta cerca di darla lo stesso Blair giustificando la sua decisione: “il mondo ora è migliore senza Saddam”. Questa risposta non può essere esaustiva, soprattutto non può giustificare un così elevato numero di vittime innocenti. È soltanto perché il rapporto è britannico che non si considerano le colpe dell’altra grande potenza coinvolta nel conflitto, ovvero gli U.S.A. La decisione va ricordato, nasce dall’esigenza da parte degli Stati Uniti di trovare un responsabile dell’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre. Sin da subito Blair dichiarò il suo appoggio a Bush junior, qualunque decisione questi avrebbe voluto prendere a seguito dell’attentato. Purtroppo questa non è la prima volta che si usa un semplice gioco di parole per far orientare l’opinione pubblica a favore di un conflitto e a legittimarlo. Mi riferisco al fatto che troppe volte si è abusato del termine “missione di pace” per avviare un’azione armata che in realtà nasconde interessi geopolitici e non solo. Lo testimonia la presenza prolungata degli eserciti vittoriosi dopo la cattura del dittatore iracheno. Inoltre fu completamente bypassata l’autorità dell’ONU, la quale non ebbe voce in capitolo e non votò alcuna risoluzione che autorizzasse un intervento armato, come accadde in Ruanda o in Jugoslavia (anche se pure questi casi non mancano di contraddizioni e perplessità). Ovviamente la dittatura di Saddam Hussein andava contrastata, ma forse si sarebbero potuti utilizzare altri metodi. Quella della guerra non era “l’ultima opzione”, così come dichiara il rapporto. Tentativi diplomatici e di mediazione avrebbero potuto evitare inutili spargimenti di sangue. Immagini tratte da
- http://www.wallstreetitalia.com/inchiesta-chilcot-oggi-la-verita-blair-rischia-processo-crimini-guerra-iraq/ - http://www.corriere.it/esteri/16_luglio_06/gb-rapporto-guerra-iraq-intervento-non-era-ultima-opzione-710c50a8-4363-11e6-831b-0b63011f1840.shtml - http://www.giornalenotizie.online/uk-rapporto-chilcot-getta-ombre-blair-sullintervento-iraq/ Il verbo amare è uno dei più difficili da coniugare: il suo passato non è semplice, il suo presente non è indicativo e il suo futuro non è condizionale Che cosa è l'amore nel 2016? Libertà, crescita, lealtà, comprensione, sintonia e rispetto, o un mondo che sempre più genera “amori” virtuali a distanza? Nell’era dei rapporti fragili e senza futuro, dei sentimenti labili e fugaci, amare è diventato un optional. Andare a letto con qualcuno, oggi, è molto semplice. Incontri una persona, ci scambi due chiacchiere, gioco di sguardi, brevi occhiate nelle pupille della preda, un fiume di parole che ti portano in pub, di fronte ad un bicchiere di vino rosso, fino a quel bacio insipido. Se amare ha un significato profondo, il solo contatto sessuale non implica niente. Cosa è oggi fare l'amore? Il nulla, il non essere. L'annichilimento della persona. Come direbbe Schopenhauer, «è la quintessenza dell'imbroglio di questo nobile mondo; perché promette così indicibilmente, infinitamente e straordinariamente molto, e mantiene, poi, cosi miserabilmente poco». Una serata in cui non c'è un reciproco interesse si conclude, la maggior parte delle volte, con una mano sui fianchi, poi un sentiero tutto in discesa. Spogliarsi, a partire da quel momento, diventa banale. Toccarsi, meccanico. E cosa rimane della serata? Un attimo insignificante, un breve istante di appagamento. Questo è quello che succede, oggi, nel mondo virtuale e non solo. Cerchiamo l'anima gemella su Tinder, Badoo, Snapchat, Pinterest, nascondendoci dietro un nickname e una foto. É possibile l'amore virtuale? Indubbiamente, due persone possono “piacersi”, decidere di vedersi, uscire insieme fino a quell'attimo fuggente. Così come, dietro a una scrivania o un computer, può nascere una simpatia istintiva, una sintonia fatta sugli interessi in comune. Ma questo amore digitale, funziona? Il finale più scontato di questo “film” virtuale è la mancanza di sincerità da parte di uno dei due. Subentra il gioco dell'apparire, del postare foto che non ti appartengono, di scrivere cose sul tuo conto del tutto fittizie. Apparire versus Essere, potrebbe essere il titolo del film. Un mondo di finzioni che sfocia, la maggior parte delle volte, nella più grande delle disillusioni. «Sei diverso da come mi aspettavo», dice spesso il disingannato. All'incontro reale, il mondo fatato dell'attesa si frantuma come una bolla di sapone. Esiste, poi, il lupo cattivo, quello che si traveste da agnello, che ci fa innamorare, per poi cancellarci con un semplice tocco di mouse. Colui che ci fa soffrire, che ci inganna, interessato, nel migliore dei casi, a o a una foto osé. Alla fine di tutto questo, cosa rimane? Nulla, se non un castello di sabbia, il racconto del proprio fallimento, l'amara illusione che l'amore in chat, forse, non esiste. Si può sopravvivere alla fisicità dell'incontro, ma instaurare un rapporto nella vita reale è cosa assai complessa. Tutto questo è facile, banale, basta un clic. L'amore virtuale diviene, pertanto, un'esperienza totalizzante – in un primo momento – che finisce, la maggior parte delle volte, per stritolarti. Un labirinto pericoloso,dal quale è difficile uscirne. E poi c'è quella parola complessa, forse oggi dimenticata, che si chiama amare o, per usare una parola meno forte, provare delle emozioni. Oggi scordiamo, noi essere umani, che abbiamo, o dovremmo avere, dei sentimenti. L' amore non è un gioco. Amare significa, anzitutto, dare tutto per la persona a tuo fianco. Amare non significa spogliarsi. É qualcosa di diverso. Un mondo in cui i discorsi non intrigano e basta. Non ci si spoglia solo dei vestiti. Si deve accendere un motore dentro, una fiamma, qualcosa che ti da il desiderio di rivederla. Qualcosa che ti alzi, e pensi a lei. Le dici una parola, e ti chiedi: come reagirà adesso? É un gioco a svelarsi poco a poco, fino a quando nasce la coppia. E chi è l'amata? La persona che puoi dirgli che hai bisogno di un abbraccio, che sei preoccupato per qualcosa. Colei a cui puoi svelare le paure che ti porti dentro, raccontare del sogno che fai frequentemente, spifferare un progetto, confidare un segreto. Una persona partecipe delle tue emozioni. Una persona che, nelle difficoltà, la risollevi prendendola per mano, lottando insieme per qualcosa. Amare significa svegliarsi la mattina dopo e accorgersi che ci siamo addormentati parlando, ridendo e scherzando; uscire sotto la pioggia e prendere una brioche calda, svegliarsi la notte se lei sta male, correre a salvarla sotto una tormenta di neve, fare un mare di chilometri se lei ha una difficoltà. Amare è dare il meglio di sé senza essere mossi dal bisogno di alleviare la propria solitudine. Significa comprendere i suoi limiti, senza calpestare la propria anima. Renderla la tua principessa, dicendo al momento giusto “ho sbagliato”. Amare significa sorprenderla con un pensiero originale. Amare è complesso Non è da tutti. Indubitabilmente, non è per tutti. Bibliografia A.Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione E.Flaiano, Melampus M.Grad, La principessa che credeva nelle favole S.Cautero, Love in Chat J.Cocteau, ll bell’indifferente Sitografia https://www.tumblr.com Immagini tratte da:
- 1, www.ciaoamigos.it - 2,patataridens.wordpress.com - 3,www.pxleyes.com
Dopo aver parlato della Scozia, è arrivato il momento del secondo capitolo relativo alle conseguenze interne della Brexit sul Regno Unito. Come abbiamo già detto la volta scorsa il voto britannico ha delineato una netta demarcazione tra un Galles e Inghilterra che hanno votato compatti per il “leave” e una Scozia e Irlanda del Nord, che invece hanno votato per il “remain”.
Se la Scozia sembra quindi orientata a chiedere un secondo referendum per decidere della propria indipendenza, come richiesto dall’SNP al potere, più complessa è la situazione in Irlanda del Nord, dove, subito dopo il voto, il partito Sinn Feinn, un tempo espressione della minoranza cattolica filo-irlandese (il nome stesso è in gaelico) ha timidamente richiesto un voto del circa milione e mezzo di aventi diritto nell’Ulster per chiedere se sia il caso di optare per un’indipendenza, ipotesi poco probabile, per un’unificazione con la Repubblica d’Irlanda, ipotesi più concreta, oppure per rimanere all’interno del Regno Unito. L’elettorato nordirlandese con il voto di venti giorni fa ha del resto espresso un voto in parte di protesta nei confronti del governo di Londra, ritenuto colpevole di un progressivo disinteresse nei confronti dell’Ulster negli ultimi dieci anni, cioè dopo il completamento del processo di pacificazione con l’IRA, dall’altra parte ha dato voce a quel bisogno di UE verso cui il popolo, o per meglio dire, i popoli della regione nutrono, anche in considerazione di una sorta di gratitudine visto il ruolo importante che l’Unione stessa ha avuto durante il processo di pacificazione dell’Ulster, ma anche considerati gli incentivi socio-economici provenienti da Bruxelles, e molto utili per la ripresa economica, ma anche sociale e culturale di Belfast. Ad un’analisi superficiale potremmo pensare quindi che il voto in questione possa generare una svolta storica per l’intera isola irlandese, tanto da far intravedere una fine del tunnel di violenze e repressioni, attentati, terrorismo, fino ad arrivare ad un clima di guerra civile, che hanno dilaniato la società nordirlandese per tutto il dopoguerra. Nella realtà dei fatti la questione non è così semplice. Facendo una mappatura del voto infatti, notiamo che le zone dell’Ulster a netto predominio per il “remain” sono soprattutto quelle a maggioranza cattolica, con un elettorato fermamente rivolto verso il Sinn Feinn al governo. Al contrario nelle zone a maggioranza anglicana filo-britannica la prevalenza è stata per i “leave”, anche se con una percentuale inferiore rispetto alle prime. Si va a riproporre di nuovo la classica spaccatura all’interno del paese tra la comunità cattolica filo-irlandese e la maggioranza filo-britannica anglicana. Il tentativo di bloccare il riaccendersi di uno scontro che tanto male ha causato all’Ulster, ha determinato una brusca frenata del governo sulla questione di un eventuale referendum, in attesa di valutare gli sviluppi che si avranno nei prossimi mesi.
Cercando quindi di trarre alcune conclusioni relative agli effetti della Brexit interni ed esterni al Regno Unito, possiamo affermare che la rottura generatasi all’interno dell’Europa è comunque simmetrica ad una rottura altrettanto profonda che si è avuta all’Interno del Regno Unito. Del resto, le stesse conseguenze in termini di sollevazione delle questioni di sovranità nazionale, emerse dalla propaganda di una serie di partiti spesso afferenti all’estrema destra, va di pari passo con il riaffermarsi delle problematiche nazionali interne all’UK. Per farla breve, se Bruxelles sta perdendo il controllo dei vari stati che compongonol’Unione, colpa anche delle politiche economiche della stessa, L’Inghilterra sta perdendo il controllo delle varie nazioni che si erano associate ad essa, complice da una parte il venir meno proprio del legame con gli altri paesi UE, reciso per volere in particolare dell’elettorato inglese, dall’altra un malcelato senso di superiorità di Londra rispetto alle altre nazioni del Regno Unito, trattate più come suddite e sconfitte dalla storia, che come pari.
In ogni caso l’uscita del paese più euroscettico dell’intera Unione, alla quale si era associato un po’ controvoglia nel 1973, può paradossalmente trasformarsi in un’occasione per gli altri paesi UE i quali possono intraprendere un percorso politico che porti ad un avvicinamento sempre maggiore tra gli stati membri, processo che negli ultimi decenni è stato sempre frenato proprio dal Regno Unito. L’uscita dell’UK in ogni caso, è talmente negativa sul lungo termine per l’economia d’oltremanica e per l’unità stessa del paese, come abbiamo già visto, che l’intera classe dirigente sta tentennando nella richiesta d’applicazione dell’ormai famoso art.50 del trattato di Lisbona, che regola la fuoriuscita di un paese membro. Boris Johnson e Nigel Farage, i due leader del fronte del “Leave” hanno inoltre fatto un passo indietro dalle loro posizioni preminenti all’interno dei rispettivi partiti, dopo essersi rimangiati una larghissima fetta delle promesse fatte in campagna elettorale. A questo punto mi sorge un dubbio…vista la caratteristica puramente consultiva del referendum sulla Brexit, siamo sicuri che il governo centrale chiederà davvero l’uscita dall’Unione? ![]()
Il titolo di questo articolo già dice tutto, la Brexit scriverà la storia. Probabilmente questo risulterà in uno di quegli eventi che caratterizzeranno l’intera politica del Vecchio Continente per il prossimo secolo, e, insieme ad aspetti che interesseranno una sempre più zoppicante Europa, non mancherà di lasciare sequele anche all’interno del Regno Unito. Del resto il Regno unito stesso può essere considerato come una sorta di sottoinsieme dell’UE. Mentre infatti l’UE è composta dagli stati che ne fanno parte, lo stesso Regno Unito è un insieme di più nazioni quali Inghilterra, Scozia, Galles ed Irlanda del Nord, l’ultima in ordine di fondazione. Le prime tre costituiscono la Gran Bretagna, mentre l’Irlanda del Nord, posta sull’isola di Irlanda, fu fondata negli anni ’20 per rispondere alle esigenze della maggioranza anglicana e filo-britannica che popolava l’Ulster e non voleva partecipare al processo di istituzione dell’Irlanda stessa.
Per decenni, anzi, per secoli tutto è rimasto immutato, con una centralità socio-culturale inglese che ha caratterizzato proprio la costituzione della Gran Bretagna. Furono infatti gli inglesi che in epoca medievale assoggettarono i gallesi, salvo poi, dopo una serie di vicissitudini, prendere il controllo anche del regno di Scozia, fino all’inizio del ‘700 uno stato indipendente. Risale poi al 1717 l’Act of Union, che sanciva l’effettiva unione costituzionale delle tre nazioni e portava alla fondazione della Gran Bretagna. L’Irlanda per il momento era rimasta esclusa dal processo. Con i secoli l’integrazione culturale portò ad una progressiva perdita delle identità nazionali, che iniziarono a risvegliarsi solo intorno agli anni ’20 del ‘900 a seguito delle rivolte che portarono all’indipendenza dell’Irlanda. Nel secondo dopo guerra la ripresa dei costumi nazionali, soprattutto in Scozia , si sviluppò incessantemente, e il riconoscimento dell’importanza delle nazioni fondanti all’interno del Regno Unito fu definitivamente riconosciuta nel 1999 con la cosiddetta devolution voluta dal New Labour di Blair. Con la legge del ’99 si costituirono governi e parlamenti regionali in Galles, in Scozia e in un Irlanda del Nord da poco pacificata a seguito di decenni di conflitto con L’IRA e la lotta per l’unificazione completa dell’Isola sotto la Repubblica d’Irlanda, in cui il parlamento decise di riunirsi non nella “capitale” Belfast, ma nella vicina Stormont. E’ proprio la concessione di una parziale autonomia alle autorità locali che sta causando quelli che sono i problemi attuali del Regno Unito e che, a seguito del voto del 24 giugno, caratterizzeranno il paese nei prossimi anni, con spinte indipendentiste sempre più forti, soprattutto da parte scozzese. A dire il vero la Scozia ci aveva già debolmente provato ad ottenere l’indipendenza nel settembre 2014, con un referendum popolare, voluto dallo Scottish National Party, partito al governo di ispirazione socialdemocratica “scandinava”, all’epoca guidato da Salmond, che chiedeva, semplicemente, e con la tipica pragmaticità anglosassone, se gli scozzesi volessero dichiarare l’indipendenza oppure rimanere all’interno dell’unione con le altre nazioni britanniche. Il risultato finale fu una netta vittoria del “better together”, i “no” all’indipendenza, che trionfarono con il 55% dei voti. Il risultato sancì la fine della carriera politica di Salmond, subito sostituito da Nicola Sturgeon,e, almeno superficialmente, la fine delle aspirazioni indipendentiste scozzesi. Nessuno avrebbe quindi scommesso in un revanscismo di tali aspirazioni, almeno fino alla lettura dei risultati del referendum sulla Brexit, che ha visto la vittoria del “leave” per un 51% contro il 49%, determinando la scelta del popolo britannico di richiedere l’uscita dalla UE. Nella realtà dei fatti però, il referendum di giugno ha dato una risposta fondamentale a quanti si chiedevano se esistesse effettivamente un popolo britannico, e la risposta è un no. L’unione non è ben salda come dall’esterno si potrebbe pensare e le direzioni verso cui guardano le nazioni che costituiscono il Regno Unito sono decisamente diverse. ![]()
Da una parte abbiamo Inghilterra e Galles che hanno votato in massa per l’uscita dalla UE, dall’altra abbiamo l’Irlanda del Nord, e soprattutto la Scozia, nella quale la maggioranza che chiedeva il “remain” è netta.
Ed è stata la stessa premier Sturgeon, che dopo aver valutato il risultato del voto si è subito affrettata a chiedere un secondo referendum sull’indipendenza, forte anche dei sondaggi che vorrebbero il sì in vantaggio sui no. Difficile stabilire se sarà concessa una seconda possibilità al popolo scozzese dopo soli due anni dal primo tentativo, quello che è certo è la perdita di popolarità che il governo centrale di Londra ha subito nel Nord dell’isola. Tra le motivazioni principali rileviamo sicuramente le promesse fatte dal governo Cameron nel 2014 e non mantenute dopo il voto, promesse che riguardavano ulteriori forme di autonomia al governo scozzese qualora avessero vinto i “no” all’indipendenza, ma soprattutto la prospettiva di rimanere fuori dall’Unione Europea, qualora avessero vinto i “sì”, con l’impossibilità di accedere in tempi brevi nell’UE, visti anche i probabili veti dello stesso governo britannico e di quello spagnolo, che è alle prese con la questione catalana e non può concedere quelli che ai suoi occhi sono dei pericolosi precedenti. Oltre a questo l’impossibilità dichiarata dalla Bank of Scotland di poter emettere sterlina britannica in caso di indipendenza con una probabile svalutazione della valuta scozzese e conseguente recessione, convinsero in massa l’elettorato ad accettare di rimanere sì nel Regno Unito, ma anche di mantenere l’importante posizione all’interno della UE. Dopo due anni tutto è cambiato. La svalutazione massiva in pochi giorni della sterlina, che ha perso il 10% del suo valore, e le incertezze sul proseguo dell’economia d’oltremanica nel lungo e complicato processo che porterà alla fuoriuscita dall’Unione, hanno reso titubante di fronte al futuro il popolo scozzese, per il quale l’adesione all’Europa unita è importante per i finanziamenti che questo riceve da Bruxelles per le attività economiche e sociali, ma anche per settori non trascurabili dell’economia locale come il turismo. In questo senso la stessa Sturgeon è stata esplicita affermando che “Il popolo scozzese è parte dell’Europa” e prendendo inoltre l’iniziativa a livello continentale, recandosi a Bruxelles il 28 giugno, in un disperato tentativo di avviare negoziati per la permanenza del suo paese all’interno dell’Unione. Il tentativo della Sturgeon però, almeno per il momento, ha ricevuto solo una fredda risposta da parte di Bruxelles, che sembra intenzionata a non concedere “sconti” al Regno Unito, anche in vista dei negoziati che seguiranno, per dimostrare che l’uscita dalla UE è un processo irreversibile, ma anche per disincentivare futuri referendum in giro per l’Europa in tal senso.
Immagini tratte da:
- http://images.indianexpress.com/2016/06/belgium-britain-eu_kuma-main1.jpg - http://www.computing.co.uk/IMG/045/107045/scotland-flag-st-andrews-cross-scottish-370x229.jpg In Spagna, ci si illudeva che ripetere le politiche avrebbe risolto l’impasse istituzionale. Niente di più sbagliato. La stessa settimana in cui l’Europa apprendeva con sgomento i risultati del referendum britannico sull’uscita dall’Unione, i cittadini spagnoli si sono recati alle urne per trovare una soluzione all’impasse politico seguito alle elezioni di dicembre. Come vi raccontammo a inizio marzo, quella tornata elettorale aveva creato una situazione mai vista nel panorama istituzionale spagnolo: quattro grandi partiti che si dividevano il consenso popolare, e nessuno in grado di raggiungere la maggioranza di 176 diputados. Erano ormai lontani i tempi del bipartitismo, quando i Popolari rappresentavano il centrodestra e i Socialisti il centrosinistra: sulla scena erano apparsi anche Podemos, partito fondato sull’idea di democrazia diretta (un po’ come il nostro Movimento 5 Stelle, ma con una dichiarata collocazione a sinistra), e Ciudadanos, un movimento di sinistra moderata fondato su un’idea di rinnovamento della classe dirigente (una specie di Rete, se avete presente la situazione politica italiana dei primi anni ‘90). Si rendeva necessaria un’alleanza tra più partiti. Escludendo l’ipotesi più improponibile (Popolari + Podemos, che è come dire cane e gatto), tutte le altre strade erano ipoteticamente percorribili. Riepiloghiamole, spiegando come mai sono saltate.
Il 26 giugno si sono svolte le seconde elezioni politiche in sei mesi, con la speranza che il quadro si stabilizzasse un po’. Vediamo cos’è accaduto, confrontando direttamente i risultati principali: Non ci vuole molto a capire che si è trattato di un’elezione fotocopia della precedente, con minimi spostamenti e i Popolari che recuperano quattordici seggi a spese di Ciudadanos e Socialisti. In pratica la partita torna in mano ai Socialisti, gli unici in grado di formare un’alleanza, ma senza più la possibilità di opporsi ad accordi ritenuti innaturali, in primis quello con la destra del premier uscente Mariano Rajoy. Tra l’altro i Socialisti, pur ottenendo il peggior risultato dai tempi del ritorno alla democrazia (ormai quarant’anni fa), hanno festeggiato il mancato sorpasso da parte di Podemos. Eh già, perché Podemos, almeno in campagna elettorale, sembrava il partito più in ascesa, capace di ripetere i risultati di Tsipras in Grecia: la sinistra “radicale” e movimentista che supera in consensi la sinistra “istituzionale”. Per raggiungere l’obiettivo, negli ultimi mesi era stato firmato un patto elettorale con Izquierda Unida (“Sinistra Unita”, cartello di liste e partiti di sinistra, tra cui il Partito Comunista Spagnolo) dal suggestivo nome Unidos Podemos (“Uniti possiamo”). Unidos Podemos ha conquistato appena due seggi in più rispetto alle elezioni di dicembre, quando il sorpasso sui Socialisti ne avrebbe richiesti almeno altri quattordici. Stando così le cose, la possibilità che il partito arrivi al governo è assai scarsa, e sono già iniziati a volare gli stracci tra i sostenitori di Pablo Iglesias e la fronda interna guidata da Íñigo Errejón, convinto che l’alleanza a un listino vecchio e rigidamente schierato come Izquierda Unida abbia tarpato le ali a Podemos. Rajoy, da par suo, si frega le mani. Intanto ricordiamo che in tutti questi mesi è comunque rimasto primo ministro: è uscente dal dicembre scorso, ma finché non verrà individuato un successore, rimane lui alla Moncloa. Del resto è altamente probabile che quel successore sia lui stesso, ancor più legittimato rispetto alle elezioni di dicembre. Resta da capire se in alleanza con i soli Socialisti, o anche con Ciudadanos (sempre che tutti i Socialisti votino la Grande Coalizione, cosa su cui non scommetterei). Per ora, si muovono le segreterie dei partiti e latitano le dichiarazioni ufficiali. Ma mancano solo due settimane al 19 luglio, quando si riunirà il Congreso, la Camera dei Deputati spagnola. Lì, tutti giocheranno a carte scoperte. Fonti:
Immagini tratte da:
|
Details
Archivi
Novembre 2020
Categorie |