IL TERMOPOLIO
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30/7/2017

Tentativi di grandeur

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I problemi a Washington e l’arrembante politica estera di Parigi
di Alessandro Ferri
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Nella settimana appena conclusa, l’amministrazione Trump è stata così tanto al centro delle cronache, che non è semplice riassumere il tutto in poche righe. Anzitutto, è stato bocciato – forse definitivamente – il tentativo di abolire l’Obamacare, la riforma sanitaria promossa dal precedente inquilino della Casa Bianca, grazie anche ai voti di alcuni senatori repubblicani. Tra questi, l’eroe di guerra John McCain, nel 2008 candidato alla Presidenza, che nonostante le condizioni di salute (ha recentemente annunciato di avere un tumore al cervello) si è recato a Capitol Hill e ha votato contro; come lui si sono comportate anche Susan Collins e Lisa Murkowski. Dei 100 membri del Senato degli Stati Uniti, 52 sono affiliati al Partito Repubblicano, lo stesso che ha espresso il presidente attuale. Eppure, convincerli tutti è stato impossibile, sia sulle nuove riforme proposte per sostituire quella attuale, sia sull’abolizione drastica della stessa. Il voto di giovedì, infatti, riguardava solo l’eliminazione di Obamacare, in quanto le riforme proposte in precedenza erano state tutte bocciate. Certamente milioni di persone sarebbero rimaste temporaneamente senza copertura assicurativa (sedici, secondo le stime), ma – prometteva Trump – solo in questo modo il Parlamento avrebbe avuto la spinta necessaria a votare rapidamente una nuova riforma. Evidentemente, McCain, Collins e Murkowski non erano dello stesso avviso, facendo saltare per l’ennesima volta un provvedimento fondante del programma elettorale repubblicano.
A sei mesi dall’insediamento, insomma, Trump non si trova in una situazione positiva. Mentre i suoi consensi a livello nazionale continuano a scendere, il suo staff rimane dilaniato dalle divisioni interne. Il nuovo responsabile della comunicazione, il finanziere Anthony Scaramucci, è stato nominato in quanto “difendeva bene Trump in TV” e ha già fatto parlare di sé per una delirante telefonata ad un giornalista del New Yorker (la trovate qui). Vedremo meglio nei prossimi mesi se Mouche (il suo soprannome) si intende davvero di comunicazione, o la sua nomina è l’ennesimo colpo di testa del presidente americano; fatto sta che il suo arrivo ha già fatto saltare due teste: il capo ufficio stampa Sean Spicer, che si è dimesso sentendosi scavalcato, e il capo dello staff presidenziale Rince Priebus, che aveva problemi con lui e soprattutto con Trump, ed è stato sostituito dall’ex generale John Kelly.
C’è poi la questione dei rapporti con la Russia, in quanto l’inchiesta sul possibile inquinamento del voto presidenziale del 2016 procede speditamente, e il Parlamento USA ha approvato a larghissima maggioranza (2 contrari al Senato e 3 alla Camera) le sanzioni contro il governo di Vladimir Putin. Per Trump, che ha sempre sostenuto una politica di distensione, firmare la richiesta di sanzioni è un colpo durissimo, ma usare il diritto di veto potrebbe essere controproducente: da un lato delegittimerebbe le Camere, dall’altro darebbe il fianco alle accuse di eccessivo “filoputinismo”.
                                                                                        ***
Saltiamo dall’altro lato dell’Atlantico per parlare in breve di Emmanuel Macron, che appena eletto si è fatto riconoscere per una politica estera particolarmente aggressiva ed irruente. Tra gli annunci degli ultimi giorni, la creazione di hotspot in Libia (e forse Niger) da parte dello stato francese, anche senza l’aiuto dell’Unione Europea. Gli hotspot sono i centri di identificazione dei migranti, attualmente in territorio europeo (Italia, soprattutto, ma anche Grecia e Libia). Collocarli al di fuori dei confini dell’Unione potrebbe evitare le tragedie del mare, suggerisce il presidente francese, dimenticandosi che un annuncio del genere non ha comunque alcuno studio di fattibilità alle spalle, e soprattutto è irrispettoso delle prerogative dell’UE e dell’Italia, il paese che più ha a che fare con i rifugiati nordafricani. La sera stessa di giovedì, Macron ha chiamato il nostro Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni per chiarire che la sua era una proposta da discutere ed integrare. Nella telefonata tra Parigi e Roma, non si è parlato solo di migranti, ma anche della questione di Stx France, società che controlla i cantieri navali di Saint Nazaire. Sabato scorso doveva avvenire la cessione del 66,67% dell’azienda all’italiana Fincantieri, ma il governo francese ha esercitato il diritto di prelazione e impedito la cessione delle quote, giustificandosi con la volontà di mantenere il controllo di un settore economico strategico. Ve lo sareste aspettato da un europeista e liberale come Macron?


Immagini tratte da:

- L'immagine di copertina è un'elaborazione grafica sulla base di
https://thedailybanter.com/.image/c_limit%2Ccs_srgb%2Cq_80%2Cw_960/MTQ2NjUzNTA4Mzc5MDkyODU1/trump-ap.jpg e http://doblellave.com/wp-content/uploads/2017/05/Doblellave-Emmanuel-Macron-sera%CC%81-el-pro%CC%81ximo-presidente-de-Francia-1200x520.jpg.


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22/7/2017

Dopo il G8 di Genova, il reato di tortura: un passo avanti nella nostra democrazia?

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Rachele Nuti
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Sedici anni fa, l’Italia si svegliava scossa dai fatti avvenuti nella notte del 21 luglio all’interno delle scuole Diaz, Pertini e Pascoli, ospitanti le sedi del Genoa Social Forum. Dalle ore 22 a mezzanotte, reparti mobili della Polizia di Stato fecero irruzione dando vita a quella che, da molti, venne definita una vera e propria “macelleria messicana”. 93 attivisti fermati, 82 feriti. Tra gli arrestati 63 furono portati in ospedale, di cui 3 in prognosi riservata e uno in coma.
 I più sfortunati, se così si possono definire, furono portati nella caserma del reparto mobile di Genova Bolzaneto, istituita come luogo di smistamento momentaneo degli arrestati in piazza. Al contrario della destinazione iniziale, questa divenne, per tre lunghi e interminabili giorni, un luogo di tortura e vessazione.
Nelle celle tutti vennero picchiati, insultati, minacciati. Obbligati a latrare come cani, ragliare come asini, inneggiare frasi fasciste e cantare canzonette. Uomini e donne vennero violati nella loro intimità, privati di tutto, costretti a rimanere per ore in piedi, nudi, davanti agli occhi e alle battute dei poliziotti. «Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?» è una delle frasi più gettonate, che non fa distinzione di genere.
Gambe larghe, in piedi, braccia alte al muro, questa è la posizione che tutti i testimoni di Bolzaneto hanno impressa nella loro mente. Costretti a stare così per ore, senza potersi muovere e sotto le minacce, le umiliazioni verbali e le percosse dei poliziotti. Tutto questo avvenne dinanzi agli occhi di medici che non mossero obiezione. Anzi, i membri del personale sanitario non furono da meno e continuarono a perpetrare le stesse violenze dei loro colleghi poliziotti. Per i pubblici ministeri, «i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare». Tutti questi fatti sono rimasti impuniti in Italia poiché, all’epoca, mancava il reato di tortura. Quest’ultimo è stato introdotto solo quest’estate, precisamente il 5 luglio, a ben 30 anni di distanza dall’entrata in vigore della Convenzione Onu contro la Tortura. Sicuramente si tratta di una legge necessaria, in quanto l’Italia è ritenuta una Repubblica fondata sulla Democrazia e sul rispetto dei diritti umani. Una legge che si spera possa cambiare tante cose nel nostro modo di concepire la giustizia, la nostra libertà di espressione e il nostro senso di sicurezza.
In merito a questo tema abbiamo deciso di intervistare il Presidente di Amnesty International Italia- Antonio Marchesi- per avere qualche delucidazione maggiore su questo nuovo e fondamentale reato.
Ci sono voluti quattro anni perché il Parlamento approvasse la legge che introduce il reato di Tortura nel nostro ordinamento. Quattro anni di stop and go, che hanno sentito delle divisioni tra le forze politiche. L’iter del provvedimento, frutto della sintesi di 11 diverse proposte di legge, è stato particolarmente complicato: iniziato al Senato esattamente il 22 luglio del 2013 è stato più volte modificato nei passaggi tra i due rami del Parlamento; durante l’ultimo esame il testo non ha subito ulteriori modifiche. Giunti a questo punto, ci siamo chiesti cosa viene stabilito nel Decreto legge che condanna la Tortura nel nostro paese. Il Presidente Marchesi ci ha risposto dicendo che questa nuova legge “prevede, innanzitutto, un reato specifico sulla tortura, che sino a ora mancava. Questo, probabilmente, costituisce l’aspetto più importante. Poi vi sono una serie di altre norme che riguardano la non utilizzabilità delle informazioni ottenute mediante tortura, l’impossibilità di allontanare qualcuno a forza verso un paese in cui rischia tortura e altri aspetti che vanno al di là della definizione del reato”.

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Un testo che, però, nella definizione del reato non è del tutto coerente con le Convenzioni Onu contro la Tortura. Motivo per cui Amnesty ha avanzato e tutt’ora avanza la sua perplessità. “Testo controverso, innanzitutto per l’impostazione generale; è molto lungo, piuttosto confuso. – Dichiara il Presidente Marchesi- Ha una formula che sembra restringere più della convenzione Onu, soprattutto sul tema della tortura mentale, che causa sofferenza psichica alla vittima. Ci sono dei plurali e delle formule che fanno pensare che la tortura sia soltanto quella ripetuta più volte.  La cosa positiva, però, è che, dopo quasi 30anni dalla ratifica della convenzione Onu contro l’uso della tortura, l’Italia ha un reato specifico e quindi nelle aule dei tribunali, laddove ve ne siano poi i presupposti, si potrà parlare di tortura e non nasconderla dietro gli abusi, le lesioni, i reati generici che alla fine si traducono nell’impunità o nella quasi impunità dei responsabili”.
Il Presidente Marchesi ci fa anche notare che: “Gli ostacoli alla punizione a volte sono anche di altro tipo, non bisogna pensare che quella del reato di Tortura sia l’unica lacuna normativa”. Infatti, proprio come viene sottolineato dal Presidente, vi sono altri problemi fondamentali, relativi alla ricostruzione dei fatti, all’omertà, ai vari depistaggi e “all’idea che si debbano coprire le persone appartenenti al proprio corpo di polizia a prescindere da quello che hanno fatto o non fatto. Tutti questi sono fattori che impediscono di ottenere verità e giustizia al di là del tipo di incriminazione che si può fare”. Pone poi la sua attenzione su un altro tema fondamentale, e molte volte discusso, quello della mancanza di un identificativo che permetta di riconoscere i responsabili individuali dei fatti. “Persino nel caso di Genova un aspetto che cerco di sottolineare sempre è che molti degli agenti coinvolti nel maltrattamento della Diaz non sono mai stati individuati perché coperti in volto, alcuni avevano la sciarpa e sul casco mancava un identificativo alfanumerico. Quindi tra coloro che sono stati processati mancano molti degli esecutori materiali di quei maltrattamenti”.
Al contrario di quanto sostengono i sindacati di polizia, infatti, il reato di tortura è una tutela fondamentale per il corpo stesso in quanto verrà presa in considerazione la responsabilità penale del singolo, mantenendo così l’integrità e la credibilità dell’Istituzione. Su questo aspetto insiste anche il Presidente Marchesi, che sostiene: “Nessuno ce l’ha con le forze di polizia in quanto tali. Se la loro cultura tende ad attribuire a questo reato uno scopo di aggressione all’Arma evidentemente vi è un grosso problema”.
 Un aiuto fondamentale per il nostro paese, nella definizione di questo reato, è giunto dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Senza le sanzioni giunte da Strasburgo, l’Italia non avrebbe mai preso consapevolezza sulla necessità di introdurre un simile reato nel nostro ordinamento. Secondo il Presidente Marchesi queste disposizioni “hanno spinto il Governo, la maggioranza politica e il Parlamento nel senso dell’introduzione del reato di Tortura. Ovviamente, non ho la possibilità di dirlo in maniera certa però so che indubbiamente hanno pesato”.
In conclusione, possiamo quindi definire la nuova legge sul reato di tortura come un passo avanti. Certo, niente di eclatante vista l’importanza della questione e visti gli anni passati dalla firma della Convenzione Onu, ma come ci ha ricordato il Presidente Marchesi: “Le battaglie per i diritti umani sono fatte di piccoli passi avanti”.
Ciò nonostante, non nega che: “Avremo voluto un passo più grosso ma questo è quello che abbiamo ottenuto ed è meglio di niente. Se non fosse passato questo testo, l’unica alternativa realistica sarebbe stata quella di ricominciare da capo con un’altra legge”.
Alle numerose dichiarazioni che sostengono: “Meglio non avere niente che un qualcosa di così incompleto”, Amnesty International risponde: “È una posizione che, seppur molto diffusa, non è da noi condivisa. Il ‘meglio niente’, tutto sommato, fa comodo a chi è contrario a qualsiasi forma di criminalizzazione della tortura perché poi alla fine il risultato è lo stesso”.

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A questo punto non ci resta che sperare nell’efficacia di questa legge e nella possibilità che qualcosa possa migliorare nel futuro. Per troppo tempo il nostro paese si è reso “complice” di casi di impunità. E chissà se, magari, questo reato potrà portare un po’ di pace a quelle famiglie- quali quella Cucchi, Aldrovandi, Uva, Magherini, per citarne alcune- che, per anni, al dolore per la perdita di un caro hanno dovuto affiancare una guerra contro un sistema giuridico incompleto, che non ha mai dato alla tortura la sua vera definizione, ovvero quella di crimine di Stato.

Immagini tratte da:
Almasio Cavivvhioni
Il Fatto Quotidiano
Internazionale

 

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17/7/2017

Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?

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di Lorenzo Alemanno
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La gaffe sull’immigrazione in cui è incappato il Partito Democratico negli ultimi giorni è solo l’ultimo episodio di una storia che non accenna ad arrestarsi. Il manifesto, prontamente rimosso dai responsabili della comunicazione, ha colpito l’immaginario collettivo non tanto per il suo significato intrinseco quanto per un’espressione ormai celeberrima: “aiutiamoli a casa loro”. Espressione attinta senza mediazioni dal lessico leghista (posto che la Lega Nord rappresenta attualmente la destra, estrema o no, in Italia), espressione che rimanda a un’idea comoda, razionale, finanche giusta, ma concretamente priva di senso. Tale passaggio merita profonda attenzione, al di là del dato politico al quale si può pervenire alla fine di un ragionamento puramente linguistico.
Perché la sinistra ha bisogno di usare le parole della destra? Probabilmente perché le parole della sinistra non hanno presa sull’elettorato in quanto complesse, ragionate, a volte contorte. La spiegazione è squallida ma piuttosto aderente alla realtà. Non è un caso che i partiti socialisti, socialdemocratici, socialqualcosa di mezza Europa siano al loro perielio storico rispetto ai partiti nazionalisti, sovranisti, fascisti o quant’altro: la “sinistra” tutta (sia consentito chiamarla così per semplicità) sta rincorrendo l’elettorato liquido senza proporre alcuna soluzione “di sinistra” ai problemi del terrorismo, dell’immigrazione, della disoccupazione. L’episodio da cui siamo partiti è l’emblema, la prova provata di questa corsa agli armamenti propagandistici. Ma il Partito Democratico, in realtà, ha iniziato la sua corsa molto tempo addietro. L’ultima legislatura in cui, tolti alcuni incidenti di percorso in Senato, il Pd ha ottenuto stabilmente la maggioranza in Parlamento, ha visto un’escalation di destrizzazione del centro-sinistra. Sia chiaro: non è di per sé un male, non è di per sé un bene. É un dato di fatto con cui dobbiamo fare i conti per leggere meglio la realtà che ci si presenta davanti e per scegliere con cognizione di causa i futuri onorevoli che tra pochi mesi saremo chiamati a eleggere.
In principio era il Lavoro il motore trainante delle forze comuniste e socialiste: le leggi in ambito giuslavoristico promosse dal Partito Democratico sono un sostegno galoppante alle imprese, con una riduzione corposa degli ambiti di tutela dei dipendenti. Le politiche neoliberiste sono perfettamente integrate dal Jobs Act: i risultati in termini di disoccupazione sono ardui da leggere, oscillanti. A due anni e quattro mesi dal varo del ‘contratto a tutele crescenti’ possiamo concludere che una spinta occupazionale si è avuta in modo estemporaneo, a macchia di leopardo, influenzata enormemente dagli sgravi contributivi per le imprese, ma obiettivamente si è rimasti lontani dai miracoli preannunciati. Senza contare che occorre considerare, in quest’analisi, dei fattori legati all’andamento dei mercati occidentali per i quali hanno scarsa rilevanza le norme interne. Venne poi l’epoca della polemica con l’Europa: anche qui il lessico è stato oggetto di una rapina a volto scoperto dai serbatoi della destra. Su tutte, il famoso “battere i pugni sul tavolo” riguardo i vincoli economici comunitari. Non si sono mai visti questi pugni, forse perché ai tavoli europei non ci siamo quasi mai. Come non ricordare poi, nei tempi recenti, il “daspo urbano” del ministro Minniti: un provvedimento curioso, che surroga un procedimento penale e attribuisce ai Sindaci un potere sanzionatorio normalmente appannaggio dei giudici, consistente nell’allontanamento dal territorio del comune di chi commette atti vandalici o affini. Un pasticcio giuridico dal sapore mediatico: un vandalo a Milano non lo è a Napoli? Chi sfascia un’opera d’arte a Firenze non potrebbe farlo anche a Roma? Ennesimi tentativi di chiudere gli occhi sul problema giudiziario e scaricarne il peso su altre figure. Da ultimo, come accennato sopra, la questione migratoria, con questo sugello “aiutiamoli a casa loro” degno di Matteo, sì, ma di quello padano. Probabilmente, fiutando il pericolo di lasciare temi così caldi alla destra, il Partito Democratico continua nella sua opera di maquillage per stare sempre più al centro e raccogliere tutto e il contrario di tutto. Peccato notare, come sempre, che a parità di proposte un elettore sceglierà sempre l’originale: è una banale legge di marketing che il Pd prova a ignorare. Scontato dire che saranno gli elettori, nel segreto dell’urna, a ignorare i Renziboys che continuano, nel solco della peggior sinistra degli ultimi venti anni, a regalare il paese al peggior offerente. 

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16/7/2017

La Cina si avvicina

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L’installazione di una base militare permanente in Gibuti è un fatto nuovo e significativo

di Alessandro Ferri
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Il cosiddetto “corno d’Africa” è la zona a est del continente africano con la forma di un grande corno d’animale. Comprende stati come l’Eritrea, la Somalia e l’Etiopia e fu in larga parte sotto il controllo italiano alla fine degli anni ‘30 del secolo scorso. Se guardiamo una mappa della cosiddetta Africa Orientale Italiana, tuttavia, notiamo la presenza, ai tempi, di due lembi di terra in cui gli italiani non avevano alcun potere: la “Somalia francese” e la “Somalia britannica”. Lembi di terra, certamente, ma di importanza economica e strategica ben superiore a tutto il resto della regione, perché permettevano – e permettono tutt’ora – il controllo del golfo di Aden e il passaggio delle navi commerciali nelle due direzioni tra Oceano Indiano e Mar Mediterraneo. Evidentemente francesi e inglesi avevano fatto i propri calcoli, al contrario degli italiani.

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L’Africa Orientale Italiana
Torniamo al 2017. Sono passati più di ottant’anni dalla «riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma», e il corno d’Africa è formalmente indipendente. Al posto della Somalia britannica c’è il cosiddetto Somaliland, stato non riconosciuto di cui parleremo in un prossimo articolo; la Somalia francese ha assunto il nome di Gibuti (o Djibouti), che riprende quello della capitale. Gibuti è uno stato povero (al 172° posto dell’ Indice di Sviluppo Umano del 2015) ma in una posizione che rimane strategica ancora oggi. Nel 2001, il Gibuti ha concesso una vecchia base militare francese, Camp Lemonnier, al governo americano, per accogliere una forza permanente che oggi prende il nome di AFRICOM (“United States Africa Command”).
Fin qui, niente di nuovo. Gli Stati Uniti hanno basi in tutto il mondo – ricordate la storia delle  atomiche italiane? - ed è evidente che abbiano sfruttato la debolezza economica e strategica del Gibuti per ottenere il controllo di un’area di rilevanza strategica. La notizia è che il governo cinese ha fatto praticamente la stessa cosa, spiazzando gli americani e allarmando la comunità internazionale.
A partire dalla seconda decade di luglio 2017, infatti, la Repubblica Popolare Cinese ha organizzato il trasferimento in Gibuti delle attrezzature per l’installazione della prima base militare permanente in terra africana. Proprio nello stesso stato che accoglie gli americani. I cinesi hanno dichiarato che si tratta di una scelta “a difesa dei propri interessi commerciali”, in cui dunque non ci sono volontà di espandere la propria influenza politica. Il golfo di Aden è solcato da innumerevoli navi cinesi, ed è al contempo infestato dai pirati.

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Le rotte commerciali cinesi in una mappa di Laura Canali per Limes
Eppure, non occorre una grande conoscenza dell’economia politica per rendersi conto che questa nuova base rappresenta una svolta nella politica estera cinese. Da un lato, la già notevole penetrazione economica in terra africana si traduce per la prima volta in una presenza militare. In secondo luogo, la rincorsa agli americani non è più solo sul piano economico (la Cina è oggi la seconda economia al mondo), ma anche su quello della supremazia militare. Mentre l’Unione Europea non ha ancora capito cosa farà da grande (pur essendo già ben cresciuta), la Cina intende proporsi come superpotenza, con tanto di programma spaziale.
 

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Prima di salutarci, torniamo a parlare di Cina per segnalare la scomparsa di Liu Xiaobo, scrittore e attivista per i diritti umani e la libertà d’espressione, noto per la partecipazione alle proteste di Piazza Tienanmen (1989) e per aver ricevuto il premio Nobel per la pace (2010). Xiaobo, 61enne, aveva un tumore al fegato in stato terminale, ma il governo cinese non aveva accolto nessuna proposta internazionale per sottoporlo a cure palliative, in quanto riteneva il trasferimento “troppo dannoso per un malato terminale”. Di fatto, lo scrittore era in carcere da anni per il reato di sovversione, in quanto sottoscrittore del manifesto “Charta ‘08” a favore della democratizzazione del sistema politico cinese.


Immagini tartte da:

Immagine di copertina tratta dal sito http://www.cbsnews.com/news/china-deploys-forces-in-djibouti-africa-opens-first-military-base-abroad/.
La cartina dell’AOI è tratta da http://storicamente.org/gagliardi_colonie_italiane_africa_fascismo, mentre la mappa di Limes è sulla pagina https://chinageopolitics.wordpress.com/2017/03/14/il-ruolo-della-forze-armate-della-cina-lungo-la-via-marittima-della-seta/.
La foto di Liu Xiaobo è tratta da https://www.nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laureates/2010/xiaobo-facts.html.

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3/7/2017

Quarto Potere: una cosa nostra

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di Lorenzo Alemanno
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Tutti ricordiamo del recentissimo dibattito pubblico sulla possibile scarcerazione di Riina: levate di scudi da più parti hanno certificato la ferrea volontà del popolo italiano di tenere in cella un pericoloso mafioso, reo di numerosi e indicibili delitti, pur in condizioni di salute ormai disastrose. Sembrava un rigurgito di passione civile, invece si è trattato dell’ennesima baruffa da social network, che non ha lasciato alcuna traccia tangibile nelle coscienze collettive. Perché?
Perché, a una settimana dalla polemica sul boss corleonese, la Direzione Nazionale Antimafia ha diffuso un rapporto sullo stato di salute delle organizzazioni criminali in Italia, delineando un quadro sconcertante: nessuna levata di scudi questa volta; calma piatta, spallucce, indifferenza patologica. La politica sull’argomento latita, e questo verbo risulta incredibilmente appropriato. La relazione della DNA descrive con cura il grado di radicamento delle mafie, arrivando a dire che la ‘ndrangheta, ad esempio, è collegata sostanzialmente a tutti i centri nevralgici del potere politico, dirigenziale e imprenditoriale, al punto da riuscire con relativa semplicità a orientare voti, nomine, appalti, candidature locali e nazionali, in quasi tutte le regioni d’Italia. Sono osservazioni che farebbero sussultare un’intera classe dirigente, che dovrebbe almeno discutere dell’argomento, mettere in agenda misure legislative penetranti e mezzi, risorse e uomini per contrastare il fenomeno. Eppure la risposta più gettonata è stata il silenzio. La DNA arriva a dire che la sistematicità del metodo corruttivo-mafioso “fa acquisire alle organizzazioni il ruolo di autorità pubblica” – roba da saltare sulla sedia. Bisogna concludere quindi che Montesquieu si sbagliava: nella ripartizione dei poteri dello Stato l’incauto pensatore francese ometteva di citare la Mafia, accoccolata al potere legislativo, talvolta con un occhio di riguardo per quello esecutivo, concorrente solo con quello giudiziario. Quello giudiziario per l’appunto, scorporato da disgustosi (ma per fortuna rari) casi di collusione ambientale, è argine inascoltato da quasi 30 anni: è stato necessario il sacrificio di vite innocenti affinché la politica si destasse dal suo sonno e avviasse una lotta seria alla criminalità organizzata, ad esempio specializzando e concentrando le autorità di contrasto settoriale come le Direzioni Distrettuali. Dal 1992 esse stilano rapporti e delineano statistiche sulle attività mafiose, dalle quali si apprende che negli ultimi 24 anni sono stati sequestrati e confiscati beni per un valore di 25 miliardi di euro. Dunque bisogna constatare che il giro d’affari è molto superiore, giacché secondo l’Unodc (agenzia ONU sul monitoraggio di droga e criminalità) le organizzazioni criminali in Italia muovono annualmente 116 miliardi di euro – al netto dell’evasione fiscale, ovviamente. Una quantità di denaro impressionante, che vale il 7% del PIL del Paese, meriterebbe attenzioni diverse dalle autorità. In epoche di tagli alla spesa corrente sarebbe sensato andare a prendere i soldi là dove proliferano: occorrono però leggi più severe e chiare sulla confisca, da anni terreno scivoloso e complesso, teatro di delicati dibattiti giurisprudenziali. Le misure coercitive personali, come l’attenuazione di alcune garanzie per gli indagati/imputati per mafia o isolamento e carcere duro esistono già, e hanno dimostrato la loro efficacia. Ciò che manca, tuttavia, è un contrasto massiccio sul terreno economico poiché il potere mafioso, prima che racchiudersi in alcune figure di spicco, è intrinsecamente legato alla moneta circolante, ai beni materiali, agli averi. Interrompere la possibilità di comunicare non spezza la catena del potere, che trapassa di mano in mano perché il denaro risulta sfuggente a celle e polizia, a differenza degli uomini.
Quanto sono commoventi le fiction sul giudice Falcone, bontà loro. Quanto cordoglio scenico, quanta sensibilità a orologeria. Diamo una strana immagine: sembriamo quelli che nel bel mezzo di un incendio guardano piangendo la foto del pesce rosso, maledicendosi per la sua scomparsa, dimenticandosi di quanto quella famosa ‘montagna di merda’ abbia sommerso definitivamente le istituzioni di un Paese allegro e disperato. 

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