Il clima mite e ventoso tipico di una regione che si affaccia sull’Oceano Atlantico accolgono i numerosi turisti che visitano questa zona nel Nord della Spagna, forse la più periferica tra quelle a guida autonomista viste finora. Confinati nella capitale Vigo troviamo i principali istituti e organi che vanno a comporre, dal 1978, il governo galiziano.
E’ infatti dalla riforma costituzionale del 1978 che la Galizia, questi 29.000kmq. di terra vengono riconosciuti come nazione, insieme ai Paesi Baschi e Catalunya, ed è proprio per questo che a questo pezzo di territorio, storicamente parte integrante ma sempre alla periferia, e non solo in senso strettamente geografico, del paese, vengono affidati ampi poteri autonomisti. La Galizia presenta un proprio sistema sanitario, Il Servicio Galego De Saude, gestito dal locale ministero della sanità, presenta un proprio sistema educativo, che annovera anche tre università pubbliche, le quali sono gestite da uno specifico ministero locale.
A partire dall’istituzione della Comunità Galiziana nel 1978, forte è stata la ripresa della lingua locale, il galego, anche se molto notevole è l’utilizzo, non solo nelle scuole (dove comunque si tengono corsi in galiziano), ma anche nella vita privata dello spagnolo comune.
Altro fattore che ha facilitato la spinta autonomistica galiziana contro il potere centrale di Madrid è sicuramente l’ambito dell’informazione e dei media. Nel 1985 infatti è stata fondata la Television De Galicia, TVG, la quale svolge grazie alla sua programmazione un ampio servizio informativo a livello locale. Gli elementi sopraelencati capiamo benissimo che sono apertamente in continuità con quanto osservato in tutte le altre regioni autonome spagnole, sia in Catalunya che nei paesi baschi, quello che però cambia in questa regione è che la necessità di autonomia e il parziale distacco dal potere centrale non hanno particolarmente inficiato su eventuali pressioni indipendentiste regionali. Notando la composizione del parlamento locale, la Xunta De Galizia, in base ai risultati delle elezioni tenutesi nell’ottobre del 2012, è evidente che il sistema partitico sia tendenzialmente in linea con quanto notiamo a livello nazionale, con il Partido Popular e il Partido Obrero Socialista De Espana, PSOE, a contrastarsi nell’ottenimento della maggioranza dei seggi. A differenza delle altre nazioni spagnole, che vedono partiti “locali”, detenere il potere nella regione, nel caso galiziano il primo partito prettamente autonomista si colloca terzo nei risultati elettorali. Parliamo in questo caso dell’Aternativa Galega De Esquerda, mentre il Bloque Nacionalista Galego è finito addirittura quarto.
Andando ad analizzare la debolezza del movimento indipendentista galiziano, non possiamo esimerci dal considerare la relativa debolezza economica della regione.
Mentre nel caso basco e catalano, la ricchezza a livello locale, in termini di investimenti, industria e fiscalità, superava nettamente quella del resto del paese, mettendoli in una posizione di primo piano, nel caso galiziano un’economia tipicamente basata sulla pesca e sulla manifattura, settori sicuramente non di traino nell’economia del XXI secolo, hanno determinato la necessità da parte della popolazione locale di non distaccarsi eccessivamente e bruscamente dal governo di Madrid, visto tendenzialmente come una sorta di porto sicuro. Nel complesso, la situazione galiziana è piuttosto tranquilla in termini politici, e non sono da considerarsi strappi o colpi di mano, tali da minacciare l’unità dello stato spagnolo, non solo nei prossimi anni, ma probabilmente nemmeno nei prossimi decenni.
Immagini tratte da:
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A venticinque anni dalla fine della Guerra Fredda, la guerra atomica è un pericolo tutt’altro che scampato
La storia di cui parliamo questo lunedì è una storia che sa di dischi in vinile, di tivù monocromatiche e di motorette rombanti. Parliamo di bombe atomiche, ma non siamo negli anni Cinquanta. Armi nucleari che sono sì, un pesante lascito della stagione della Guerra Fredda, ma anche un ingombrante intralcio nelle relazioni diplomatiche odierne e soprattutto una “patata bollente” per gli stati europei che le ospitano.
Calcoli approssimativi individuano in 180 le bombe atomiche allocate nelle basi americane in Europa. Finché c’era il timore di una guerra “calda”, si pensava che l’Europa sarebbe stata al centro degli scontri, come in tutti i grandi conflitti precedenti. La Cortina di Ferro non era solo la barriera tra due ideologie, ma anche il possibile punto di partenza per un attacco, da est a ovest o viceversa. L’Italia, con la nuca appoggiata alla Jugoslavia e un Partito Comunista di proporzioni inaudite (34,37% alle Politiche del 1976), pareva a tutti il prossimo campo di battaglia. La regione Friuli era presidiata da centinaia di migliaia di soldati di leva, nell’ipotesi dell’arrivo del pericolo rosso. Anche se i ragazzi in naja non videro mai l’arrivo del nemico, si rivelarono utilissimi nel soccorrere la popolazione vittima del disastroso terremoto del 6 maggio ‘76 (perché la storia del nostro paese è sempre stata una storia di terremoti, ahinoi). Ma torniamo alle testate nucleari: in Italia se ne contano ancora oggi 70, collocate tra le basi di Aviano (Friuli) e Ghedi (Lombardia). Immaginerete la pericolosità dello stoccaggio di queste armi, per altro non particolarmente concordi con la legislazione di un paese che ripudia la guerra già in Costituzione e ha escluso il nucleare anche per gli scopi civili. Entrambe le basi, infatti, sono di competenza della nostra Aeronautica, ma sottostanno a specifici accordi con la NATO e l’USAF (aeronautica statunitense). In caso di guerra, dovrebbe essere i nostri piloti a sganciare le bombe, su richiesta NATO; è per questo motivo che lo stato italiano si fa carico – ma le spese non sono chiare – del mantenimento e della sicurezza delle basi. ![]()
I 20 ordigni di Ghedi e i 50 di Aviano sono di tipo B61-4 e hanno una potenza tra i 45 e i 107 chilotoni. Per darvi un’idea, la bomba sganciata il 6 agosto 1945 su Hiroshima, che causò circa 70.000 vittime, aveva una potenza di circa 16 chilotoni.
Nonostante una tale potenza di fuoco, queste bombe stanno per essere sostituite da ordigni più aggiornati, i B61-12, pesanti al punto tale da richiedere significativi ammodernamenti ai cacciabombardieri. Secondo alcuni esperti, si tratterebbe di una fatica inutile, in quanto le difese che cinesi e russi stanno preparando intercetterebbero gli attuali aerei in ogni caso, nonostante le migliorie. Meglio smaltire le bombe atomiche in Europa e concentrarsi su missili intercontinentali e cacciabombardieri al passo con i tempi, afferma lo Stimson Center, un centro studi indipendente citato di recente da Repubblica. Il risparmio ammonterebbe a 3,7 miliardi di dollari, da indirizzare ai nuovi armamenti. Lo Stimson non fa riferimento solo alle questioni economiche, ma anche alla sicurezza: il terrorismo e gli eventi turchi delle ultime settimane rendono la presenza di ordigni in Europa un problema. Nella base turca di Incirlik, a pochi chilometri dal confine siriano, sono ospitate altre 50 bombe. Nelle ore concitate del tentato golpe, il comandante della base fu arrestato e le linee elettriche tagliate. Si è sfiorato un disastro. A Ghedi, per tornare a parlare delle “nostre” bombe, nell’estate 2015 è stato sventato un attentato terroristico alla base aerea. Possiamo dirci tranquilli? Non sono più gli anni Cinquanta, ma la guerra atomica fa ancora paura.
Fonti e approfondimenti
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Il Sostegno all’inclusione attiva: primo passo di una lotta serrata alla povertà o slogan elettorale?
di Alessandro Ferri
La scorsa settimana vi ho dato una panoramica della situazione della povertà nel nostro paese, ricordando che sono stati approvati di recenti due provvedimenti sul tema, in attesa dell’elaborazione di una legge organica sulla povertà riguardante l’atteso “reddito di inclusione”. In effetti di quest’ultimo possiamo dire poco, se non che dovrebbe distinguersi dal “reddito di cittadinanza” proposto dal Movimento 5 Stelle, in quanto si rivolgerebbe solo ai più poveri e non anche a chi si trova a rischio povertà. Ma al momento, possiamo parlare solo di quello che è stato discusso e votato in Parlamento.
Il primo provvedimento è la cosiddetta “legge Gadda” sugli sprechi alimentari. Il secondo, che entrerà in vigore a settembre, si chiama Sostegno all’inclusione attiva (SIA) e si rivolgerà a un numero potenziale di 800.000 italiani. Introdotto in via sperimentale dal governo Letta nel 2013 in alcune grandi città, viene oggi esteso all’intero territorio nazionale. Per il SIA sono stati stanziati 750.000 euro per il 2016 e 1 miliardo per il 2017. Formalmente, si tratta di un contributo mensile medio di 320,00 €, associato ad un progetto personalizzato di inclusione sociale, elaborato con la collaborazione degli enti locali, dei servizi territoriali (scuole, ASL, centri per l’impiego) e del volontariato. Il progetto spingerà i soggetti adulti a ricercare un lavoro e a permettere ai figli di ricevere le vaccinazioni obbligatorie e di rispettare la frequenza scolastica.
Possono fare richiesta del SIA, attraverso un modulo disponibile in Comune, i cittadini italiani o comunitari con un ISEE pari a 3000 € o meno, purché nel nucleo familiare viva un minorenne, un disabile o una donna in stato di gravidanza. Se rispondono ai requisiti elencati, possono fare domanda anche i cittadini stranieri residenti in Italia da almeno due anni e in possesso del permesso di soggiorno. Il beneficio economico viene attivato entro 60 giorni; entro tre mesi (due da novembre 2016) dal ricevimento del primo assegno, dovrà essere attivato il progetto personalizzato, per almeno il 50% dei beneficiari del sussidio.
Anche laddove sussistano i requisiti indicati, la concessione del SIA è comunque sottoposta ad un punteggio attribuito sulla base della situazione economico-lavorativa e dei carichi familiari. Tale aspetto deriva dal fatto che non sempre l’ISEE può descrivere in modo accurato la situazione di una famiglia, e per poter favorire i nuclei con figli piccoli, genitori soli o soggetti con disabilità gravi. Su un punteggio massimo di 100 punti, solo chi supera i 45 ottiene il sussidio.
Non possono ricevere il SIA coloro che ricevono più di 600 euro mensili di altri sussidi previdenziali, nonché chi riceve l’assegno di disoccupazione. Sono esclusi anche i nuclei familiari in cui un componente abbia immatricolato di recente un autoveicolo di cilindrata superiore a 1300 cc o un motoveicolo di cilindrata superiore ai 250 cc.
L’erogazione del SIA avviene attraverso una carta prepagata del circuito Mastercard, utilizzabile anche negli uffici postali per pagare le bollette (va ricordato che il SIA comporta l’attivazione della tariffa elettrica agevolata). In alcuni negozi e farmacie convenzionate, tale carta farà ottenere uno sconto del 5% (esclusi i medicinali o i ticket sanitari). La carta non dà diritto al ritiro di danaro. La cifra indicata, pari a 320 € per le famiglie di 4 persone, sarà erogata in una soluzione unica ogni due mesi.
Le associazioni riunite nell’Alleanza contro la povertà (Banco Alimentare, Save The Children, ACLI, Caritas ecc.) hanno definito il SIA “un deciso passo in avanti” anche se ancora “non soddisfacente”, in quanto provvedimento dai requisiti molto stretti. Il presidente dell’INPS Tito Boeri, invece, ha affermato che il provvedimento approvato ha “perso pezzi [rispetto alla formulazione iniziale], lasciando dubbi su come finanziare la misura”. Il Movimento 5 Stelle ha parlato di un “riciclo della social card del governo Berlusconi”, mentre Ileana Piazzoni e Anna Giacobbe, le deputate PD relatrici del ddl, hanno dichiarato che:
L’avvio dell’estensione del Sia rappresenta un passaggio fondamentale per sostenere concretamente le persone in maggiore difficoltà e permette di anticipare nella pratica concreta il futuro funzionamento del Reddito di Inclusione [...]. Siamo consapevoli della necessità di aumentare le risorse da destinare a questo fondamentale obiettivo, ma esprimiamo la nostra soddisfazione per l'avvio di un percorso concreto che siamo certe possa dare ottimi risultati se sostenuto adeguatamente nella sua concreta attuazione. Cercando di rimanere su un piano obiettivo, appare chiaro che il SIA rappresenta uno strumento modesto, ma che intende affrontare la questione della povertà direttamente, per la prima volta da anni. La legge delega sulla povertà in discussione in Parlamento dovrebbe incidere in modo ben più evidente, proponendosi come strutturale (cosa che il SIA non è). La speranza è che la legge delega nasca da un dialogo efficace e proficuo tra i partiti maggiormente rappresentati, PD e M5S, abbandonando per una volta le contrapposizioni elettoralistiche in favore di una riforma che cambi veramente le cose. Non ci guadagnerebbe solo il 10,4% degli italiani (i poveri relativi, come abbiamo visto la settimana scorsa), ma tutti noi.
Fonti e approfondimenti
- Il SIA nell’accurata pagina del Ministero del Lavoro, http://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/poverta-ed-esclusione-sociale/focus-on/Sostegno-per-inclusione-attiva-SIA/Pagine/default.aspx; - Il REIS (reddito d’inclusione sociale) proposto dall’Alleanza contro la povertà, http://www.redditoinclusione.it/dati-istat-su-poverta-in-italia-nel-2015/. - Un documentato intervento di Roberto Ciccarelli sul Manifesto, http://ilmanifesto.info/alla-camera-continua-la-tragedia-degli-equivoci-sul-reddito-minimo/. Immagini tratte da: ·Un negozio di frutta in Belgio, foto di Jean-Pol GRANDMONT - Opera propria, CC BY 3.0 ·Gli schemi sono tratti dal vademecum del Governo, http://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/poverta-ed-esclusione-sociale/focus-on/Sostegno-per-inclusione-attiva-SIA/Documents/Come-funziona-il-SIA.pdf
Barcellona, pieno centro. Ovunque ci si volti, tra bar, negozi ed artisti di strada che popolano la rambla non è difficile scorgere bandiere a strisce orizzontali giallo-rosse con una bordatura blu al lato e la stella bianca. I catalani la chiamano “estrelada”, ed è la bandiera che viene sventolata sempre più frequentemente da quei movimenti che rivendicano l’indipendenza della Catalunya. Per i catalani la questione relativa al proprio autogoverno e al rapporto con il resto della Spagna tiene sempre più banco dalla fine del regime franchista e dalla promulgazione della nuova costituzione democratica del 1978, che vede la Catalunya tra le tre nazioni spagnole. Da lì la regione autonoma si è dotata di un proprio corpus legislativo, di una propria polizia, di un proprio parlamento con sede a Barcellona, che è la città più grande, attiva e capitale della regione, e, auspicabilmente per i sostenitori dell’indipendenza, del futuro stato. A questo si aggiunge un ulteriore componente ripresa alla fine della dittatura che è la lingua. Il catalano è la lingua ufficiale della comunità autonoma ed è parlata dalla maggioranza della sua popolazione, è materia di studio nelle scuole e nelle università e vanta una produzione letteraria importante.
E’ proprio la ripresa di tradizioni, storia, cultura, in aggiunta alla ripresa della lingua locale che hanno incoraggiato movimenti sempre più autonomisti a svilupparsi e a trovare consenso nel corso degli ultimi anni, fino ad arrivare a parlare apertamente di indipendentismo. Forte di un’economia solida, molto più forte rispetto al resto della Spagna, anche grazie ad una politica fiscale autonoma, la Catalunya ha un tenore di vita ed una ricchezza media superiore rispetto al resto del paese. Il fatto che i propri cittadini versino nelle casse dell’erario di Madrid una cifra superiore a quanto non ricevano dal governo centrale rappresenta il terreno fertile sfruttato in questi anni dai movimenti che chiedono l’indipendenza catalana. Insomma, dove la cultura e qualsiasi tipo di tradizione non basta, ci pensa il denaro. Da qui, nasce la questione catalana. Essere parte della Spagna, con un’autonomia riconosciuta in costituzione, oppure optare per la scelta indipendentista? Per la prima ipotesi sono i tradizionali partiti “nazionali” spagnoli, come il Paertido Popular e il Partido obrero socialista espanol, PSOE, che, nelle rispettive versioni catalane, si battono per un’autonomia della regione sempre sotto il controllo del governo di Madrid. Sul fronte opposto troviamo una coalizione eterogenea, da destra verso sinistra, che si riunisce sotto la lista di Junts pel Sì, formatasi nel 2015 dall’unione di Convergencia democratica de Catalunya, partito di centrodestra dell’attuale presidente catalano Artur Mas, al governo dal 2010, e di Esquerra Republicana de Catalunya, formazione indipendentista afferente ad un’area di sinistra. La lista in questione, fautrice della richiesta di indipendenza è stata protagonista delle elezioni tenutesi nella regione nel settembre del 2015. L’occasione, volta al rinnovo del parlamento catalano, è stata in realtà sfruttata da tutti i partiti politici, soprattutto quelli pro-indipendenza, come una sorta di referendum sul futuro della Catalunya, sull’onda di quanto successo in Scozia un anno prima. Il risultato ha visto prevalere i partiti volti ad un Si alla nazione catalana, ma non con una percentuale tale da garantirgli la maggioranza assoluta nel parlamento di Barcellona, e consertire loro di dichiarare unilateralmente l’indipendenza. Si è parlato in questo caso di una vittoria a metà. Viene quindi da chiedersi cosa potrebbe comportare un eventuale indipendenza di Barcellona dal resto della Spagna per il nostro continente. Innanzitutto c’è da notare che il movimento catalano, insieme a quello scozzese derll’Snp, rappresentano le principali forze indipendentiste europee. C’è da considerare inoltre, che un eventuale secondo referendum per l’indipendenza della Scozia, a seguito del voto sulla Brexit potrebbe ulteriormente rafforzare le mire nazionaliste di Artur Mas e della coalizione da lui guidata, per chiedere di fare lo stesso tipo di referendum anche in Catalunya. Tra i molti parallelismi del caso, dobbiamo però notare che nel caso della Scozia, il governo centrale di Londra ha appoggiato in passato l’idea di un referendum per l’indipendenza, che ha trovato sostenitori anche nei due principali partiti politici del paese, mentre in Spagna, nel caso della Catalunya, sono, sia il Partido Popular che il PSOE, a sfavore della formazione di uno stato autonomo. Dall’altra parte c’è anche una problematica economica, relativa alla capacità, grazie ai giacimenti petroliferi vicino alle sue coste, per la Scozia di poter far fronte a un periodo di difficoltà sul mercato interno a seguito dell’incertezza dopo una possibile indipendenza. Nel caso catalano al contrario, Barcellona si troverebbe fuori dall’Unione Europea, senza la possibilità di adottare l’Euro e con una fuga massiccia di imprese che hanno investito nella regione, con conseguente disoccupazione e minori entrate fiscali, e il serio rischio una bancarotta ancora prima del via. Ultima questione è proprio quella relativa all’adesione alla UE, che tutti i partiti indipendentisti vogliono, senza però considerare il più che probabile veto che verrebbe posto dal governo Rajoy e da altri paesi potenzialmente a rischio di rottura come il Belgio, e che rischierebbe seriamente di trasformare una città giovane e viva come Barcellona, centro dell’Europa del XXI secolo, in una periferia dimenticata. Ritengo improbabile quindi, proprio per i motivi sopraelencati e le difficoltà che ne deriverebbero, un rafforzamento del fronte per l’indipendenza nel breve periodo, ma anzi, penso sia più probabile un assopimento delle posizioni nei fronti contrapposti verso un semplice rafforzamento dell’autonomia, già ampia, della regione catalana dal resto del paese nei prossimi anni. Rimane che la problematica relativa all’indipendenza della Catalunya è uno degli aspetti più affascinanti ed interessanti della politica interna europea di questo periodo. Immagini tratte da: - Immagine 1 da https://miboina.files.wordpress.com/2009/11/bandera-catalana.jpg - Immagine 2-3 da www.politico.eu
Per quanto paese molto vicino a noi in termini geografici, una caratteristica importante, ma poco conosciuta, della Spagna, riguarda la presenza nel paese di molteplici nazionalità. Una di queste, forse la più curiosa in assoluto, è quella relativa ai Paesi Baschi.
Situati nel Nord della Spagna, non lontano dal confine con la Francia, i Paesi Baschi occupano una superficie intorno ai 7000kmq. circa un terzo quindi di quella occupata dalla Toscana. La particolarità della regione è relativa alla sua ampia indipendenza che questa tiene rispetto al governo centrale di Madrid. Dopo il periodo della dittatura franchista, con il ritorno della democrazia, e la promulgazione di una nuova costituzione nel 1978, i Paesi Baschi, o Euskadia in lingua basca, si sono garantiti ampi diritti decisionali. Innanzitutto c’è da notare l’istituzione di un parlamento nazionale nella città di Vitoria-Gasteiz, che possiamo considerare una sorta di capitale basca, anche se la città più grande in termini dimensionali rimane Bilbao. Dall’altra parte è da sottolineare l’istituzione di una propria polizia basca, al pari di quanto succede per esempio in Catalunya, del controllo comunitario nel campo dell’istruzione, ma anche la presenza di un’azienda pubblica televisiva che serve l’intera comunità. Gli elementi in questione, associati ad una forte cultura autonomista propagatasi nel corso degli ultimi secoli, facilitata anche dal mantenimento della lingua autonoma basca, veramente differente dal castigliano parlato in quasi tutto il resto della Spagna, rendono sicuramente più facile l’amalgama sociale che contraddistingue la regione dal resto del paese.
E’ quindi normale che i partiti politici, anche quelli di stampo nazionale come il Partido Popular, o il PSOE, il Partido Socialista Obrero Espaniol, si siano dovuti adeguare alla condizione autonomista dell’Euskadia, da una parte proponendosi alle elezioni locali con versioni basche del proprio nome ufficiale, dall’altra cercando di erodere consenso elettorale ai tradizionali partiti politici che dominano le elezioni per il parlamento nazionale e quello centrale di Madrid.
Del resto i due principali organi partitici sono rappresentati dall’Euzko Alderdi Jeltzalea, il partito nazionalista basco afferente ad un’area di centro-destra e attualmente al governo della comunità dopo il voto del 2012, che lo ha visto prevalere sull’Euskal Herria Bildu, il secondo partito in termini di consenso, afferente al contrario ad un’area di estrema sinistra. Quello che desta attenzione quindi, è la presenza, in una regione di fatto autonoma ma non indipendente, di un sistema politico maturo e altamente differenziato rispetto a quello del resto del paese. I partiti politici locali baschi godono di un ampio consenso elettorale sia da destra che da sinistra e autonomamente prendono decisioni per tutta la nazione, senza doversi necessariamente confrontare con le sedi dei principali partiti di Madrid. In questo caso va a rompersi una sorta di contrapposizione storica che vede la destra tipicamente su posizioni nazionaliste e unitarie, e una sinistra che al contrario sostiene movimenti sociali “di liberazione”, anche indipendentisti. Ed è proprio da destra che sono provenute le lotte più feroci per la completa indipendenza del paese basco. A partire dagli anni ’70 il gruppo terroristico dell’ETA, con attentati di solito dinamitardi, ha diffuso il terrore in tutta la Spagna, nel tentativo di far conoscere all’opinione pubblica spagnola e non solo, la rivendicazione indipendentista della Repubblica Basca. Con lo smantellamento dell’ETA e l’abbandono della lotta armata da parte della stessa, nell’ultimo decennio si è proceduto ad una riappacificazione sociale nella comunità autonoma, fatta di ulteriori concessioni, anche in termini economico-fiscali, che gli sono state garantite dal governo di Madrid.
Di queste è stata l’economia in particolare a beneficiarne, e si nota soprattutto grazie al fatto che il PIL procapite della comunità è mediamente più alto rispetto al resto del paese e lo stesso vale per il tenore di vita degli abitanti. Nel frattempo Bilbao, ma anche altre città come Pamplona, hanno sfruttato questo nuovo clima di apertura, trasformandosi in importanti centri industriali e finanziari, ma anche culturali, grazie a notevoli investimenti per l’abbellimento e la restaurazione dei rispettivi centri storici, ma anche per la fondazione di università e musei.
Insomma, in una situazione, di ampia democrazia ristabilita, di pace sociale e di benessere economico, il Pais Vasco, come viene chiamata la comunità autonoma nel resto della Spagna, non può che rappresentare un centro importante, e un esperimento politico esemplare di “unità nella diversità” che contraddistingue molte regioni del mondo. Gli investimenti in cultura ed istruzione, seguendo anche le direttive di un’Europa (speriamo sempre più) unita faranno il resto nel configurare i Paesi Baschi al centro dell’Europa del XXI secolo.
Immagini tratte da:
- Immagine 1 da http://wiwibloggs.com/wp-content/uploads/2016/04/ikurri%C3%B1a-533x400.jpg - Immagine 2 dahttp://www.greatwinecapitals.com/sites/default/file/styl/wide_cropped_medium/public/capitals/bilboa/photogallery/puente-colgante.jpg?itok=u_CRhY4H - Immagine 3 da http://www.miathletic.com/media/galeria/6/5/2/9/3/n_athletic_club_de_bilbao_san_mames_nuevo_estadio-8883925.jpeg74
La politica torna a parlare di povertà, e almeno in Italia qualcosa si muove
Su queste pagine di attualità, abbiamo visto che negli ultimi mesi sempre più movimenti politici dell’Occidente stanno concentrando le proprie iniziative sul tema delle diseguaglianze e dell’emarginazione sociale. Bernie Sanders, principale ostacolo di Hillary Clinton nella conquista della nomination democratica, ha persino rispolverato la parola “socialismo”, che nel lessico politico USA non si sentiva da decenni. Non solo le sue posizioni non sono state respinte, ma anzi ha costruito un consenso tale da incidere fortemente sul programma della Clinton, adesso fortemente inclinato a sinistra (nei limiti di quanto possa essere “di sinistra” il programma di un partito di governo statunitense, ovviamente). In Grecia, nel clima rocambolesco della rinegoziazione del debito, è arrivato al governo un partito fortemente connotato a sinistra come Syriza, il cui leader Alexis Tsipras si è esplicitamente dichiarato «il rivale dell’Europa dei mercati e delle diseguaglianze sociali». Ma potremmo citare anche la popolarità di Pablo Iglesias o Jeremy Corbin, rispettivamente leader di Podemos (Spagna) e del Labour (Regno Unito).
Cos’è che accomuna tutti questi esponenti politici? Un programma fondato sul rifiuto dell’attuale assetto economico-politico, dominato dal capitale e insensibile di fronte al disagio delle popolazioni e della natura. In pratica, si vorrebbero portare avanti gli ideali del movimento Occupy, nato il 17 settembre 2011 con l’occupazione di un parco nei pressi di Wall Street, a New York. Lo slogan di Occupy era we are the 99%: “siamo il 99%”, in contrapposizione all’1% della popolazione mondiale che detiene la maggior parte della ricchezza. La grande crisi iniziata nel 2008, con i suoi effetti nefasti sull’economia mondiale (che ancora oggi paghiamo), aveva le sue origini in pratiche finanziarie pericolose, operate da pochi ma subite da tutti. La povertà, dopo decenni, è tornata al centro del dibattito politico, anche in quei paesi opulenti oggetto di migrazioni da parte di chi fugge dal Sud del mondo. La povertà riguarda percentuali significative delle popolazioni nazionali, non solo gli stranieri migranti, e l’affermarsi di movimenti apertamente xenofobi come il Front National in Francia, l’UKIP in Inghilterra o la Lega Nord in Italia ne è una dimostrazione. A chi si vede sottratti gli standard di benessere di un tempo, l’arrivo del migrante appare come un insopportabile affronto, contro cui lottare attraverso l’appoggio a formazioni politiche razziste.
Per capire come si presenta la situazione della povertà nel nostro paese, abbiamo a disposizione un documento recente ed affidabile. Il 14 luglio scorso, l’ISTAT ha pubblicato il rapporto sulla povertà in Italia riferito all’anno 2015. Secondo le convenzioni statistiche, si sono distinte una povertà relativa e una povertà assoluta.
La povertà relativa viene individuata sulla base della spesa media mensile per persona del Paese, che in Italia è stata nel 2015 pari a 1.050,95 euro. Le famiglie di due persone che hanno una spesa mensile pari o inferiore a questo valore – chiamato “linea di povertà” – sono classificate come povere. Per le famiglie con 3 o più componenti, si moltiplica la linea di povertà per un particolare coefficiente che tiene conto delle economie di scala realizzabili in famiglia.
Nell’anno 2015, risultavano relativamente povere 2.678.000 famiglie, pari al 10,4% di quelle residenti. Questa cifra corrisponde a 8.307.000 persone, di cui oltre due milioni di minorenni.
La povertà assoluta, invece, è calcolata in base ad un paniere di prodotti di prima necessità, in mancanza dei quali si ritiene che la vita non raggiungerebbe standard “minimamente accettabili”. La soglia di povertà assoluta varia in rapporto al luogo di residenza e alla composizione del nucleo familiare, andando dai 490,14 € dell’anziano che vive solo in un paese di provincia del Sud ai 1.909,83 € della famiglia con tre figli che vive nel centro di una grande città del Nord.
Nel 2015, erano assolutamente povere 1.582.000 famiglie (il 6,1% di quelle residenti nel nostro paese), pari a 4.598.000 persone – l’intera Emilia-Romagna, per farci un’idea. Con una percentuale del 7,6% della popolazione italiana, si tratta del dato più alto dal 2005. Il Mezzogiorno è la zona più disagiata, con il 10% delle persone e il 9,1% delle famiglie in questa condizione. In un contesto di questo tipo, lo spettro della fame torna a farsi sentire. Quello che sembrava il fotogramma sbiadito di un film neorealista, è nel 2016 un problema attuale, contro il quale operano istituzioni pubbliche e private. Si spreca tanto cibo – circa 650 grammi a famiglia a settimana, per una cifra annuale nazionale di 8,4 miliardi di euro, secondo Last Minute Market – mentre c’è chi patisce la fame. Tra gli enti anti-spreco, la parte del leone la fa il Banco Alimentare, che organizza ogni fine novembre una giornata nazionale di raccolta del cibo, in cui vengono raccolti fuori dai supermercati prodotti a lunga scadenza da redistribuire alle famiglie in difficoltà. Il 28 novembre scorso, la XIX Colletta Alimentare ha permesso di raccogliere quasi 9000 tonnellate di alimenti, con la collaborazione di 135.000 volontari.
Ad aiutare l’attività dei soggetti come il Banco Alimentare, il 2 agosto scorso è stata approvata in via definitiva dal Senato della Repubblica la cosiddetta “legge antispreco”, che prevede sgravi fiscali per le imprese che regaleranno cibo o medicine in via di scadenza. La legge vuole incentivare l’uso della “family bag”, ovvero la pratica di portarsi a casa gli avanzi del ristorante, così come l’attività delle associazioni che raccolgono dai negozianti i prodotti alimentari a fine giornata.
La lotta agli sprechi alimentari è la risposta al problema della povertà? Certamente no. La risposta al problema della povertà avviene con un contrasto operato a tutti i livelli. Per decenni le forze liberali hanno ritenuto che la soluzione migliore fosse la crescita complessiva dell’economia: per un effetto a cascata, anche i più poveri avrebbero avuto accesso alle briciole dei successi dei più ricchi, affrancandosi dalla miseria. Nonostante l’infatuazione liberale di larga parte delle forze politiche italiane dopo il 1992, ad oggi appare evidente l’esigenza di interventi concreti, che incidano non solo sul lungo periodo, ma sulla situazione immediata. È in questa ottica che il governo italiano ha approvato l’istituzione del Sostegno per l’inclusione attiva (attivo da settembre), un primo passo nella direzione di una legge delega sul tema della povertà. La prossima settimana vedremo il provvedimento in dettaglio.
Fonti e approfondimenti
- Il rapporto dell’ISTAT, http://www.istat.it/it/archivio/189188; - Il sito del Banco Alimentare, http://www.bancoalimentare.it/it; - Sullo spreco di cibo, http://www.ansa.it/lifestyle/notizie/societa/best_practice/2015/10/13/sprechiamo-cibo-il-doppio-di-quello-che-pensiamo.-rapporto-waste-watcher_22c5502b-b86d-417e-b618-720d39aaf1ae.html; - Un’analisi della legge contro gli sprechi alimentari, http://www.vita.it/it/article/2016/08/03/non-sprecare-ora-te-lo-dice-anche-la-legge/140352/; - La legge nell’analisi della Camera, http://www.camera.it/leg17/522?tema=norme_per_la_limitazione_degli_sprechi_e_l_uso_consapevole_delle_risore. Immagini - Vincent Van Gogh, da Wikipedia Spagnola, I mangiatori di patate (1885), Amsterdam – Museo Van Gogh, Pubblico dominio, voce "Museo van Gogh" - Manifesto di Occupy, da Wikipedia Inglese, foto di Seth Cochran – Lavoro proprio, CC0 voce "We are the 99%"; - Gli sprechi alimentari in Europa, infografica tratta da http://www.tuttogreen.it/spreco-alimentare-consigli/.
L’ex first lady Hilary Clinton e il “tycoon” Donald Trump sono i candidati alla successione di Barack Obama alla Casa Bianca. Candidature a confronto
I giochi sono fatti. Le convention dei rispettivi partiti hanno incoronato Hilary Clinton (per i democratici) e Donald Trump (per i repubblicani) contendenti alla corsa per diventare il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America.
La posta in gioco è davvero alta. Diventare presidente degli States non significa solo governare un Paese, ma significa diventare una, se non la persona più potente al mondo. Infatti essere presidente americano comporta oneri e onori che non hanno eguali al mondo, ragion per cui la lotta alla guida degli U.S.A. interessa in modo diretto tutti, americani e non. La sfida tra i due contendenti si annuncia infuocata data la personalità dei diretti interessati. Le primarie sono fonte da preludio ad un confronto annunciato, ma non così scontato come ci si aspettava, per motivi diversi. Da una parte, quella repubblicana, la nomination di Trump è stata un po’ una sorpresa dal momento che partiva svantaggiato nei sondaggi e contrastato anche da un gran numero dei pezzi grossi del suo partito. Dall’altra, quella democratica, la nomination annunciata della Clinton è stata più sofferta del previsto, con lo sfidante Bernie Sanders che le ha conteso il posto fino all’ultimo. Alla fine, comunque, per entrambi i candidati la convention ha fornito i numeri di delegati necessari per essere nominati e candidati alla presidenza. I profili dei due sono completamente agli antipodi. Trump è riuscito col tempo a farsi strada, dapprima nel suo partito e poi tra gli elettori repubblicani incarnando alla perfezione la figura dello uncle Sam, facendo leva su posizioni conservatrici e populiste. È riuscito a far breccia nei cuori dei suoi delegati attraverso una campagna liberale (da buon magnate qual è) e provocatoria; ricordiamo tra gli altri il suo favore ad una maggiore circolazione delle armi, la proposta di innalzare un muro alla frontiere col Messico per impedire l’immigrazione o ancora l’idea di vietare l’ingresso ai musulmani come prevenzione al terrorismo (dichiarazioni che hanno causato numerose manifestazioni anti-Trump). Nonostante dunque l’iniziale diffidenza, Trump non solo ha conquistato la nomination, ma lo ha fatto con dei numeri impressionanti stabilendo il record di delegati. Completamente all’opposto la corsa della Clinton alla nomination. Infatti è partita da una base più solida che le ha consentito di ottenere la nomination, non senza però qualche affanno, arrivando a un inatteso testa a testa con Sanders. La sua è sicuramente una candidatura che rappresenta continuità con la presidenza Obama (durante la quale è stata anche segretario di stato durante il primo mandato), che richiama all’unione di tutti gli americani. Come accaduto per il suo sfidante, la convention di Philadelphia ha alla fine dato in mano alla Clinton la tanto agognata nomination, con tanto di endorsment da parte dello stesso Sanders, oltre che ovviamente del marito, l’ex presidente Bill, e di Obama. Dopo le primarie adesso l’attenzione si sposta tutta sulla campagna elettorale. Ma quali sono specificatamente i programmi dei due candidati? Anche in tal senso le differenze sono abissali. Come detto Trump punta forte sul tema immigrazione e sicurezza ricalcando posizioni protezionistiche (punti cardini della sua campagna sono l’eliminazione del diritto di cittadinanza per nascita e la collocazione di soli statunitensi ai diversi posti di comando). La politica economica è volta a creare nuovi posti di lavori con aumenti salariali attraverso politiche protezionistiche e conservatrici che prevedono soprattutto agevolazioni fiscali per le imprese made in U.S.A. Per quel che concerne la politica estera il tycoon gioca forte sul rapporto con la Russia e con la Cina con i quali vorrebbe allentare la tensione e trovare dei punti di convergenza. Inoltre ha dichiarato di voler impegnarsi nell’impedire la corsa al nucleare dell’Iran e si è detto sfavorevole all’invio di nuove truppe in Medio Oriente e farlo solo se veramente necessario e utile per la lotta all’Isis.
La campagna elettorale della Clinton assume connotati diversi incentrati per lo più sulla questione dei diritti umani (donna e bambini su tutti) sottolineando la continuità con la presidenza Obama. La sua attenzione è rivolta al miglioramento della condizione economica della middle class. Tra i punti salienti del suo programma si può notare: l’uguaglianza sociale, parità dei diritti delle donne di colore, investimenti su energia pulita rinnovabile e ricerca, nozze gay (tema sul quale si avrà un forte dibattito con l’avversario data l’assoluta contrarietà di questi) e soprattutto in campo economico una riforma fiscale che favorisca gli investimenti dei piccoli imprenditori.
Ci aspettano allora più di tre mesi intensi, fatti di meeting e discorsi, di accuse e di provocazioni. D’altronde già durante le primarie i due non se la sono mandata a dire. Trump continua ad accusare la Clinton per la questione email gate, ovvero la violazione sulle norme di sicurezza durante la sua segreteria di stato, per la quale è tutt’ora indagata; mentre la Clinton fa leva sulle posizioni xenofobe di Trump e sui suoi problemi con il fisco.
Di sicuro le elezione del’8 Novembre 2016 sono già a loro modo entrate nella storia, in quanto per la prima volta si sfidano i due candidati più impopolari della storia politica americana. Nessuno dei due candidati sembrerebbe scaldare i cuori degli elettori. Nonostante ciò tuttavia, mai come in questa occasione sono chiamati a compiere una scelta che può determinare le sorti di tutto il mondo. Allora la sfida è aperta. Chi sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America? Immagini tratte da • http://www.bbc.com/news/world-us-canada-35704253 • http://www.termometropolitico.it/1226499_presidenziali-usa-effetto-convention-trump-sondaggi-elettorali-intenzioni-di-voto.html • http://time.com/4427823/dnc-barack-obama-hillary-clinton-embrace-video/
Il titolo di questo articolo, che di per sé può sembrare una battuta, in realtà rappresenta quanto leggiamo sui media relativamente ai terroristi che hanno commesso le ultime stragi.
Andando per ordine, si parte con la strage di Nizza, e con i presunti problemi di depressione, alcolismo, vita sessuale sregolata e quant’altro, che sono stati riferiti sul conto del franco-tunisino che ha travolto centinaia di persone sulla Promenade des Anglais. Si prosegue con la strage che per poco non si è consumata sul treno a Wurzburg, in Germania, in cui un afghano richiedente asilo ha tentato di accoltellare dei poveri malcapitati a colpi di ascia, fortunatamente non uccidendo nessuno. Anche qui si è parlato di un ragazzo disagiato, con problemi di ambientamento nella realtà tedesca. Per non parlare dei fatti di Ansbach, dove un siriano, anch’esso richiedente asilo la cui domanda era stata respinta, stava per farsi esplodere ad un concerto nella piazza locale. La prontezza del personale di sicurezza e il fatto che non avesse il biglietto per il concerto (fortunatamente non era una cima in quanto ad organizzazione) hanno evitato il peggio e indotto il ragazzo a ripiegare su una via laterale. Pare che fosse depresso, in precedenza non mostrava segni di radicalizzazione, aveva sofferto maltrattamenti in Bulgaria e quant’altro. Sui due attentatori di Rouen è stato invece detto poco, si sa che uno di loro aveva 19 anni, aveva provato ad andare in Siria, era stato in carcere, ma fino alla strage di Charlie Hebdo non dava segni di radicalizzazione. Nel mezzo abbiamo la strage di Monaco, in cui Aly Sonboly, il ragazzo che ha ucciso a colpi di pistola 10 persone, compreso sé stesso, risultava essere stato in cura, mostrava disturbi della personalità e altri elementi che fanno effettivamente pensare al gesto di un pazzo. In questo caso la matrice però non era in nessun modo islamica.
Quello che rimane dopo queste stragi, oltre al senso di smarrimento e insicurezza che permea la popolazione, è quindi l’idea, rilanciata da molti organi di stampa, che la maggior parte dei responsabili di questo genere di stragi lo abbia fatto perché disagiato, emarginato, depresso. Un soggetto che ha trovato una forte valvola di sfogo nel terrorismo di matrice jihadista. Evidenziamo subito una cosa. E’ impensabile risolvere il problema del fondamentalismo a base di Prozac, Daparox o qualunque altro medicinale.
Il semplicismo con cui viene affrontato nelle ultime due settimane il problema della lotta al terrorismo lo trovo fortemente limitante e superficiale. Dirò di più, da studente di medicina, lo trovo addirittura offensivo nei confronti delle milioni di persone che in Europa sono sotto trattamento psichiatrico, oppure lo sono stati, in quanto tali analisi spicciole e fuorvianti sulla presunta sanità mentale dei jihadisti generano, a mio avviso, una profonda paura in ampie fasce di popolazione ignorante in materia. Il cittadino medio che guarda il telegiornale e si ciba delle notizie che gli vengono somministrate senza porsi delle domande, percepisce più o meno consciamente nel soggetto che è in cura ad esempio per la depressione (e sono tantissime persone solo in Italia) un potenziale pericolo sociale. Il ragionamento più sbagliato che possa essere fatto in questo caso è nella consequenzialità “persona più o meno normale di religione musulmana”-“disturbo psichiatrico”-“necessità di una valvola di sfogo”-“radicalizzazione”.
Proverò ora a spiegare il perché ritenga tutto questo non solo errato, ma addirittura dannoso per la lotta al terrorismo. Partiamo dal presupposto che l’emarginazione o il disagio socio-economico non è l’unico fattore che può condurre una persona al jihadismo. Uno degli organizzatori della strage di Parigi era figlio di un commerciante benestante di tappeti di Bruxelles, per esempio.
Dall’altra parte c’è il problema del disagio psichico. E’ evidente che una persona che lascia tutto per andare a cercare la morte nei territori controllati dall’IS, non sta del tutto bene. I motivi che stanno alla base della radicalizzazione sono da ricercare però non tanto in disturbi della personalità o di tipo depressivo. I giovani che in loco o altrove aderiscono allo Stato Islamico sono soggetti caratterialmente deboli, talvolta dei falliti nella vita reale, che subiscono il fascino perverso della propaganda jihadista. Loro stessi percepiscono nella copertura jihadista una maschera eroica ed affascinante che possono indossare a piacimento, per sentirsi importanti, talmente padroni della propria vita da cercare la morte per sé e per gli altri. Questo è completamente diverso dal profilo di un soggetto fortemente depresso, che al contrario tende ad isolarsi ed eventualmente cerca di togliersi la vita da solo, non giustificando nella lotta contro un qualsiasi tipo di oppressione la motivazione del suo gesto. Il lavaggio del cervello a cui sono stati sottoposti tali jihadisti da certi Imam è fondamentale, ma spesso molti di loro si sono radicalizzati sul web, dove ricercano in modo spasmodico video di esecuzioni e dove possono condividere con facilità, con altri adepti, pensieri, informazioni, farneticazioni. L’idea di fare qualcosa di illegale, pericoloso e temuto, probabilmente aiuta nella loro idea di essere importanti, quando il mondo reale al contrario li avrebbe già scartati. Non sono nemmeno così convinto che questi credano davvero al fatto che uccidendo quanti più “infedeli”possibile, inermi ed innocenti, vadano in paradiso. Sto parlando quindi di soggetti deboli e indottrinati, non necessariamente psicopatici o depressi. La figura del jihadista è del resto eterogenea, e questo viene ben evidenziato nel libro “Dentro l’IS” , del giornalista tedesco Jurgen Todenhofer, che analizza alcune figure di jihadisti nostrani. Spesso islamici di seconda o terza generazione, uno addirittura tedesco convertito. L’ideologia che sta dietro ai vari gruppi combattenti è variegata e non sempre fa riferimento a quella dell’IS. Si va dall’elemento “redentorio”, in cui un individuo che afferma di aver passato la sua vita immerso nel peccato possa redimersi andando ad uccidere persone in nome di Allah, a quello che lo fa perché sente la necessità di vivere dove vige la Sharia. Tra tutti i personaggi intervistati nel volume non ne ho trovato uno solo che corrisponda alla figura del paziente depresso, solo, emarginato. Tutt’al più del soggetto debole psicologicamente e facile all’illusione, ricollegandomi a quanto detto prima. Quello che è necessario quindi evitare è quindi l’equiparazione tra malattia mentale e fondamentalismo, tra disturbo psichico e jihadismo, che ultimamente un po’ troppe volte viene fatta, anche grazie alle tempestive, quasi euforiche, rivendicazioni dell’IS stesso, che, in difficoltà sul campo, sarebbe pronto a rivendicare anche un furto di gelati se questo facesse il gioco della sua propaganda. I fatti degli ultimi mesi, concludendo, sono il frutto di politiche enormemente sbagliate da parte dei nostri governi e dal pressappochismo che regna nella nostra società. Questi sono elementi che con la retorica del “gesto dello squilibrato”, per sua natura imprevedibile, minimizzano il problema, quasi a sperare che l’ondata passi, fornendo una buona copertura agli errori dei vari apparati decisionali senza riuscire ad arginare effettivamente il problema in questione, ma arrecando indirettamente danno a chi un disturbo ce l’ha davvero ma mai penserebbe a farsi saltare in aria.
Immagini tratte da:
- http://www.cronacadiretta.it/files/news/2014/12/prozac-007.jpg - http://i0.wp.com/www.lindro.it/wp-content/uploads/sites/4/2016/07/Germania- ansbach.jpg?resize=597%2C336 - http://www.rsi.ch/news/mondo/Ansbach-esplosione-al-concerto-morto-lattentatore-7788836.html/ALTERNATES/FREE_480/Ansbach,%20esplosione%20al%20concerto,%20morto%20l'attentatore
Democratici e Repubblicani hanno finalmente un candidato, ma alle Convention non sono mancate le sorprese
A meno di cento giorni dalle elezioni dell’8 novembre, i due partiti che si dividono il consenso della maggioranza degli americani, Repubblicani e Democratici, hanno compiuto la propria scelta, individuando in Donald Trump e Hillary Clinton i candidati alla presidenza degli Stati Uniti. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a scelte fuori dalle consuetudini.
Trump, benché amatissimo dagli elettori delle Primarie, non è mai riuscito a compattare attorno a sé il Grand Old Party (cioè i Repubblicani), e ha pronunciato di frequente dichiarazioni che avrebbero rapidamente posto fine alla carriera di un politico americano, appena pochi anni fa. Come si può pronunciare affermazioni sessiste, omofobe, razziste e poi rivendicarle con orgoglio? La logica del politically correct è stata presa a ceffoni dal magnate newyorkese, che ha fatto un vanto delle proprie intemperanze e fin qui le ha trasformate in consensi. La scelta della Clinton da parte del partito dell’asinello (i Democratici) è stata senza dubbio più scontata, anche perché era la favorita già otto anni fa, quando un misconosciuto senatore dell’Illinois la batté a sorpresa dietro la spinta di centinaia di attivisti. L’effetto Obama non si è ripetuto con Bernie Sanders, il suo attempato rivale dalle idee socialiste. Anche i più delusi elettori democratici non possono negare che la candidatura di una donna, per quanto moderata e “con le mani in pasta” da decenni, sia una svolta di straordinaria importanza. Dopo un presidente nero, un presidente donna confermerebbe l’evoluzione demografica degli USA, stato in cui le minoranze sono sempre più rappresentate. “Abbiamo rotto il soffitto di cristallo”, ha dichiarato la Clinton al momento di accettare la nomination alla Convention di Philadelphia, ultimo passo delle Primarie e primo delle elezioni presidenziali. Vediamo i momenti salienti di entrambi gli appuntamenti.
La Convention repubblicana di Cleveland si è svolta tra il 18 e il 21 luglio. Tra i suoi momenti più intensi, non tanto la nomina di Mike Pence – anonimo governatore dell’Indiana – a vicepresidente di Trump, ma soprattutto l’incredibile discorso di Ted Cruz la sera del 20 luglio. Cruz era stato il concorrente più pericoloso per Trump, e si era ritirato dalle Primarie solo nel mese di maggio. Alla Convention, ci si aspettava che pronunciasse un discorso di riconciliazione, con il classico invito all’unità del partito e a sostenere il candidato legittimamente scelto dagli elettori. Niente di tutto questo: nonostante le aspettative dei delegati, Cruz ha invitato gli elettori a votare secondo coscienza (cioè: “fate come vi pare, ma non votate Trump”), attirandosi l’odio della platea e concludendo il suo discorso tra i fischi. Una scena così incredibile è andata in onda in tutte le TV americane in prima serata, e lascia intendere che Trump non dovrà guardarsi solo dai democratici, ma anche dall’opposizione “interna”.
If you love our country, and love your children as much as I know that you do, stand and speak and vote your conscience, vote for candidates up and down the ticket who you trust to defend our freedom and to be faithful to the Constitution. «Se amate il nostro paese, e amate i vostri figli come so che fate, alzatevi e parlate e votate secondo coscienza, votate per i candidati che confidate difendano la nostra libertà e siano fedeli alla Costituzione». La Convention democratica, svoltasi a Philadelphia tra il 25 e il 28 luglio, ha visto alternarsi momenti retorici notevoli a situazioni imbarazzanti, create perlopiù dai sostenitori di Bernie Sanders. Al grido di Bernie or bust, “Bernie o niente”, i più agguerriti non hanno voluto dare ascolto neanche al proprio beniamino, che ha pronunciato un discorso molto teso in cui sotterrava l’ascia di guerra e riconosceva la vittoria di Hillary, invitando l’intero partito all’unità. Nonostante la matematica gli desse torto da tempo (i suoi voti alle primarie non erano sufficienti alla conquista della nomination già da maggio), Sanders ha aspettato solo la Convention per esprimersi. Se poi c’è ancora qualche “giapponese” che lo vorrebbe candidato dopo il suo ritiro, capite il motivo: Sanders ha aizzato le folle per mesi contro la Clinton e non può certo aspettarsi che si plachino con uno schiocco di dita. In effetti, un grande colpo di scena si è verificato il primo giorno: la presidente del Partito Democratico Debbie Wasserman-Schultz – personaggio misconosciuto, perché in America i funzionari di partito contano pochissimo, e tutto è nelle mani dei candidati – ha rassegnato le dimissioni, in quanto Wikileaks aveva pubblicato delle email riservate da cui emerge che durante le Primarie i Democratici manovravano a favore della Clinton. Niente di illegale, ma certamente di poco opportuno. La sostituta, l’altrettanto sconosciuta Donna Brazile, ha chiesto scusa a Sanders, che si è detto contento sia delle scuse sia delle dimissioni della Wasserman. Il 27 luglio, il cinquattottenne senatore della Virginia Tim Kaine è stato formalmente candidato alla vicepresidenza. Personaggio abbastanza opaco, è stato scelto proprio per non oscurare la candidata presidente. Dalla sua ha l’esperienza e il fatto di venire da uno stato del Sud, regione dominata da quarant’anni dai Repubblicani (il che potrebbe aiutare). Dicevamo dei momenti retorici: in casa democratica hanno parlato alcuni dei più esperti affabulatori della scena politica americana, dal vicepresidente uscente Joe Biden a Bill Clinton, da Barack Obama all’ex sindaco di New York Michael Bloomberg, che era indipendente ma odia così tanto Trump da essersi schierato per Hillary. Il momento più bello non è stato il discorso della candidata, ma quello di una donna giovane, energica e amata dagli elettori. La first lady Michelle Obama, da molti vista come possibile candidata alla presidenza tra qualche anno, ha pronunciato un discorso applauditissimo in cui ha attaccato lo slogan della campagna di Trump: make America great again, “rendi nuovamente grande l’America”. Secondo Michelle, il fatto stesso che lei, afroamericana, viva alla Casa Bianca, un edificio costruito da schiavi, è la prova che l’America è ancora grande.
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...this November, when we get to the polls, that is what we are deciding. Not Democrat or Republican, not left or right. In this election, and every election, it is about who will have the power to shape our children for the next four or eight years of their lives. [...] I wake up every morning in a house that was built by slaves. And I watch my daughters - two beautiful intelligent black young women - play with the dog on the White House lawn. And because of Hillary Clinton, my daughters and all of our sons and daughters now take for granted that a woman can be president of the United States. Don't let anyone ever tell you that this country is not great. That somehow we need to make it great again. Because this right now is the greatest country on Earth. «È questo ciò che decideremo questo novembre, quando ci recheremo alle urne. Non i Democratici o i Repubblicani, la sinistra o la destra. In questa elezione, e in ogni elezione, si decide chi avrà il potere di plasmare i nostri figli per i prossimi quattro o otto anni delle loro vite. Mi sveglio ogni mattina in una casa che fu costruita da schiavi. E vedo le mie figlie – due belle e intelligenti ragazze nere – giocare con il cane sul prato della Casa Bianca. E grazie a Hillary Clinton, le mie figlie e tutti i nostri figli e figlie ora sono certi che una donna può essere il Presidente degli Stati Uniti. Non permettete a nessuno di dirvi che questa nazione non è grande. Che in qualche modo abbiamo bisogno di renderla grande di nuovo. Perché questa, adesso, è la più grande nazione al mondo». Fonti e approfondimenti
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Novembre 2020
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