Un anno di consultazioni, elezioni, risse dentro e fuori i partiti. Il risultato? Rajoy alla Moncloa per altri 4 anni.
Sono giorni di grande lavoro, per i corrispondenti esteri dei giornali. Mentre negli Stati Uniti la sfida tra Hillary Clinton e Donald Trump è arrivata ai colpi finali (e sembrerebbero colpi piuttosto bassi, a giudicare dalla riapertura dello scandalo delle mail, di cui vi parleremo la prossima settimana), a livello europeo rimangono in corso il processo della Brexit e ancora non si trova una quadra sulla questione dei rifugiati. In Francia si scaldano i motori per le Presidenziali 2017, con un Hollande che non sa neppure se sarà ricandidato. Occupandoci di attualità a tutto campo, non possiamo dimenticare i fatti nostrani, tra il terremoto delle Marche, che sembra non avere mai fine, e la campagna referendaria, che ha raggiunto il suo livello più delirante con il dibattito televisivo tra l’ottantottenne Ciriaco De Mita e il premier Renzi. Ma oggi torniamo a parlare della situazione spagnola, cui abbiamo dedicato approfondimenti già a marzo e a luglio. A quasi un anno di distanza dalle elezioni politiche di dicembre 2015, e a quattro mesi dal bis elettorale del 26 giugno, Mariano Rajoy è stato nuovamente eletto presidente del Gobierno, cioè presidente del Consiglio, ruolo che per altro riveste dal 2011. Per farlo, ha dovuto passare sopra il cadavere (politico) del segretario socialista Pedro Sánchez.
Per riassumere le puntate precedenti, la situazione del Parlamento spagnolo dopo le elezioni 2015 e 2016 era praticamente identica: 137 seggi ai Popolari di Rajoy (centro-destra), 85 ai socialisti, 71 a Podemos (una specie di Movimento 5 Stelle ma convintamente radicato a sinistra) e 32 a Ciudadanos (movimento liberale di centro, con timide aperture a sinistra). Il tramonto del bipartitismo si è tradotto nel più incredibile degli impasse istituzionali, con nessun’alleanza possibile: i socialisti non volevano i popolari, Ciudadanos non voleva Podemos, Podemos non voleva i popolari… la maggioranza di 176 deputati sembrava impossibile da raggiungere.
La maggior parte dei commentatori era convinta che l’unica via veramente praticabile fosse l’alleanza tra centro-sinistra e centro-destra: una Große Koalition, come si dice nel gergo giornalistico. Ma Sánchez era fortemente contrario, in quanto consapevole dei danni che simili alleanze producono in particolar modo al consenso del partito di sinistra: sembrerebbe che gli elettori di centro-destra siano più disposti a tollerare un governo di compromesso, rispetto alla controparte. Se a questa posizione irremovibile, che avrebbe portato in breve a nuove elezioni, si aggiungono i risultati pessimi ottenuti dal PSOE alle regionali di Galizia e Paesi Baschi, si capisce come mai il partito stesso si è ribellato al suo segretario, costringendolo alle dimissioni. 17 su 35 membri del Comitato Centrale si sono dimessi, pur di sfiduciarlo: un gesto simile a quello compiuto dalle alte sfere laburiste contro Jeremy Corbyn, ma che ha colpito nel segno, perché non solo Sánchez ha lasciato la segreteria del partito (I ottobre), ma ha anche rinunciato al suo seggio parlamentare (29 ottobre), pur di dimostrare la propria contrarietà ad un governo di socialisti e popolari.
Domenica 23 ottobre, dopo ore di discussione, il Comité Federal dei socialisti ha deciso che Rajoy sarà nuovamente premier, in barba a quanto era stato ripetuto per oltre un anno: il PSOE, semplicemente, si astiene, facendo sì che i popolari instaurino un governo di minoranza assieme a Ciudadanos.
Dopo un primo tentativo tra mercoledì e giovedì (in cui era ancora richiesta la maggioranza assoluta, ovviamente non raggiunta), Rajoy si è presentato alla Camera (Congreso de los Diputados) sabato pomeriggio per chiedere la fiducia. A quel punto, era sufficiente che i voti a favore fossero maggiori di quelli contrari. I SÌ sono stati 170, esattamente come al voto precedente, ma i NO sono stati 111 e le astensioni 68. ma larga parte del gruppo socialista si è astenuta. Non contando il dimissionario Sánchez, la matematica e il voto palese dimostrano che sono stati ben 15 i socialisti a votare NO, opponendosi alle direttive del Partito.
A questo punto, si apre una nuova pagina nella storia della democrazia spagnola, che a dispetto di tutte le aspettative di cambiamento si trova di fronte al solito governo popolare. Debole, certamente, ma l’unico possibile fino alle prossime politiche. I socialisti sono entrati in una gravissima crisi, con i maggiorenti del partito che hanno firmato un’impegnativa cambiale con la destra e un gruppo di ribelli, guidati da Sánchez, che promette battaglia. Gli scenari futuri sono imprevedibili.
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Nobile Santuario o Monte del Tempio? Una mozione UNESCO mette in conflitto diplomazia e toponomastica
Il patrimonio di Gerusalemme è indivisibile, e ogni comunità ha diritto al riconoscimento esplicito della propria storia e del proprio rapporto con la città. Negare, nascondere o cancellare una qualsiasi tradizione ebraica, cristiana o musulmana, mina all’integrità del sito e va contro le ragioni che hanno permesso la sua iscrizione alla lista dei siti Patrimonio dell’Umanità.
Irina Bokova (nella foto di copertina), 14 ottobre 2016 È una vicenda allucinante, ho chiesto al ministro Esteri di vederci subito al mio ritorno a Roma. Ho chiesto espressamente ieri ai nostri di smetterla con queste posizioni […]. Non si può continuare con queste mozioni finalizzate ad attaccare Israele. […] Sostenere che Gerusalemme e l’ebraismo non hanno una relazione è sostenere che il sole fa buio: una cosa incomprensibile, insostenibile e sbagliata. Ho espressamente chiesto ai diplomatici che si occupano di queste cose che non si può andare avanti così: non si può negare la realtà. Matteo Renzi, intervista a RTL 102.5, 21 ottobre 2016 Le dichiarazioni che avete appena letto appartengono, rispettivamente, alla Direttrice Generale dell’UNESCO – l’agenzia ONU per la tutela del patrimonio culturale – e al nostro Presidente del Consiglio. Cos’è che li ha spinti a parlare, nell’arco di pochi giorni, della situazione di Gerusalemme? La colpa è di una mozione, approvata il 12 ottobre scorso dal Consiglio Esecutivo dell’UNESCO, l’organizzazione ONU che si occupa della tutela del patrimonio culturale. Il testo, proposto da Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan, condanna le politiche di sicurezza di Israele, in particolare per quanto riguarda l’accesso alla Moschea di Al-Aqṣa. Questo famosissimo luogo di culto rappresenta nella tradizione islamica il luogo da cui il profeta Muḥammad è asceso al cielo, al punto che la zona è nota come Al-Ḥaram Al Sharif (الحرم الشريف), cioè “Nobile Santuario”. Benché il documento approvato usi solamente questi termini, il luogo di cui parliamo possiede altri nomi, in quanto oggetto di venerazione anche del popolo ebraico. Prima della distruzione ad opera di Tito nel 70 d.C., infatti, la spianata accoglieva il grande Tempio di Erode, di cui oggi rimane solamente una parte delle mura di cinta, nota come Muro del pianto. Per gli ebrei dunque questo è il Monte del Tempio (הַר הַבַּיִת). Questa complicata toponomastica è rivelatrice della situazione non esattamente pacifica in cui vive questo luogo, parte di Israele da cinquant’anni (Guerra dei Sei Giorni, 1967), ma comunque tra i luoghi di massimo interesse per i fedeli islamici, che per raggiungerlo sono costretti ad attraversare numerosi posti di blocco, subendo controlli che durano ore.
Scrivere una mozione che rinuncia in modo abbastanza esplicito alla doppia denominazione, proponendo solo quella islamica (come a dire che il Monte del Tempio non è patrimonio condiviso da ebrei e musulmani) è una provocazione bella e buona. Non è casuale che la mozione sia stata avanzata da paesi dichiaratamente anti-israeliani. Il punto è che si sia arrivati all’approvazione, grazie ad una particolare composizione dell’Esecutivo e ad un complesso schema diplomatico. L’Esecutivo UNESCO, infatti, è costituito da 58 stati scelti a rotazione sui 195 affiliati all’organizzazione. Vediamo come si sono comportati i membri attuali in occasione del voto:
Gli stati del G7 si sono divisi tra contrari (USA, Regno Unito, Germania) e astenuti (Giappone, Italia, Francia). I politici e i mezzi d’informazione israeliani hanno immediatamente rilasciato dichiarazioni molto dure sul comportamento degli astenuti, ritenuti conniventi con chi desidera la scomparsa dello stato ebraico. L’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI), per bocca della presidente Noemi Di Segni, ha parlato di “voto della vergogna”: “votando in forma definitiva una risoluzione che nega l’identità ebraica di alcuni siti della capitale e unica e indivisibile dello Stato di Israele, Gerusalemme, fra cui il Muro occidentale che costituisce – come è universalmente noto – il luogo più sacro per il mondo ebraico, l’UNESCO si pone fuori dalla storia e scrive, con pesanti responsabilità dell’Italia e degli altri Paesi astenuti e favorevoli, una delle pagine più gravi e al tempo stesso grottesche della storia delle Nazioni Unite”.
Si arriva così alle dichiarazioni con cui ho aperto questo articolo: un tentativo di gettare acqua sul fuoco. A livello internazionale, pare che Brasile e Messico si siano spinti a ritrattare il proprio voto, dichiarandosi (ex-post!) “insoddisfatti”. Per quello che riguarda l’Italia, governo israeliano ed UCEI hanno apprezzato gli sforzi di Renzi, che ha ricondotto la nostra politica estera sulle posizioni filo-israeliane degli ultimi vent’anni. Ma questa breve storia ci dice molto dell’attuale situazione in Medioriente. In sintesi: un documento provocatorio, votato da una maggioranza ristretta e poco rappresentativa (come in tutte le assemblee ONU, ogni stato ha diritto ad un voto, dunque le isole Mauritius contano quanto l’Italia o la Francia), con nessuna conseguenza reale se non un tourbillon diplomatico. Nel 2016, invece di affrontare alla radice la questione israelo-palestinese, siamo ancora fermi alle caselle di partenza.
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Juan Manuel Santos e il sogno di una Colombia pacificata.
Mentre sui social e sui siti d’informazione si discute animatamente sul significato del premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan, una diversa attenzione è stata data al premio Nobel per la Pace 2016, conferito al presidente colombiano Juan Manuel Santos con questa motivazione: «per i suoi sforzi risoluti per portare al termine la lunga guerra civile nel paese che dura da più di 50 anni». In effetti, dal 29 agosto scorso non si sono verificati scontri tra il governo della Colombia e le FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia - Ejército del Pueblo). Il cessate il fuoco, che ha interrotto cinquantadue anni di rivalità feroce, è stato prorogato fino al 31 dicembre prossimo, ed è rimasto in piedi nonostante il fallimento del referendum del 2 ottobre, in cui una ristretta maggioranza dell’elettorato (il 50,24%) ha rifiutato l’accordo di pace stretto tra Santos e le FARC. Cerchiamo di sbrogliare questa complicata matassa.
La guerra fra FARC e governo inizia nei primi anni Sessanta, quando il Partito Comunista colombiano istituisce delle forze di difesa dei piccoli villaggi agricoli, per proteggere i contadini dalle pressioni e violenze dei grandi latifondisti. Nel 1964, un gruppo di questi militanti decide di rifugiarsi nella giungla, seguendo l’esempio di Castro a Cuba pochi anni prima, con l’obiettivo di rovesciare il governo eletto ed instaurare il marxismo: era l’inizio della guerra tra FARC e governo. Di fatto, le FARC non sono mai riuscite a imporre il comunismo, ma hanno minacciato per decenni le istituzioni ufficiali con la loro attività di guerriglia, finanziata dal blocco sovietico e dai proventi del traffico di cocaina. Le loro azioni spettacolari hanno avuto un costo enorme: si calcolano oltre 220.000 morti, per ciascuna delle parti, compresi molti civili innocenti. Con la fine del socialismo reale e l’impegno degli Stati Uniti sul fronte del narcotraffico, le sorti delle FARC sono andate declinando: ad oggi sono rimasti meno di 6000 guerriglieri. Il loro declino non è stato interrotto da azioni a forte effetto propagandistico, ma dallo scarso successo politico, come il rapimento di Ingrid Betancourt. ![]()
Le trattative che hanno portato al cessate il fuoco e all’accordo proposto al referendum di ottobre, hanno richiesto quattro anni di lavoro e sono state condotte a Cuba. Il risultato è stato un documento di quasi 300 pagine, col quale si intende mettere una pietra sopra al passato, garantendo la libertà e sussidi ai guerriglieri che abbandoneranno la clandestinità. Molti esponenti del panorama politico colombiano, come gli ex presidenti Alvaro Uribe, Andrés Pastrana e Ernesto Samper, hanno rifiutato questa impostazione, giudicandola un cedimento alle richieste dei terroristi. Come abbiamo visto, il popolo colombiano li ha ascoltati, votando NO al referendum. Fortunatamente per Santos, premiato quando ancora non si sapeva come sarebbe andato il voto, la situazione è rimasta fluida, e le stesse FARC hanno dichiarato che non intendono riprendere la lotta, a prescindere dal risultato del voto.
Per raggiungere l’obiettivo di un accordo condiviso, Santos ha coinvolto le parti in causa, dai guerriglieri alle famiglie delle vittime, compresi Uribe e gli altri esponenti del fronte del NO. Tra le modifiche che propongono questi ultimi, ricordiamo in particolare il divieto di candidarsi in Parlamento per gli ex guerriglieri responsabili di crimini gravi, e l’obbligo di dichiarare i propri beni, così che possano essere impiegati per il risarcimento alle famiglie delle vittime. ![]()
Santos, esponente del Partido Social de Unidad Nacional (partito di centrodestra nato nel 2005 proprio in appoggio ad Uribe) non ha ancora illustrato la nuova bozza di accordo, ma si trova in una situazione tutto sommato agevole: i guerriglieri non hanno la forza per riprendere la lotta armata, e le forze istituzionali non si sono opposte all’accordo, ma solo ai suoi punti meno “digeribili”. Il premio Nobel, che ai meno accorti è parso fuori posto dopo il referendum del 2 ottobre, potrebbe rivelarsi meritato. Basta aspettare.
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Venerdì scorso si sono svolte in Marocco le elezioni politiche. Con 125 seggi su 395, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (in francese Parti justice et développement, da cui la sigla PJD) dell’attuale primo ministro Abdelilah Benkirane ha confermato la propria posizione al governo, nonostante i toni molto aspri della campagna elettorale. Il PJD è una lista moderata – potremmo definirla di “centro-destra” – e aveva il suo avversario nel Partito per l’autenticità e la modernità (Parti authenticité et modernité, PAM), dalle posizioni liberali e “di sinistra”, che ha ottenuto 102 seggi.
La vittoria di Benkirane non è stata ampia, anche tenendo conto di un’affluenza pari al 43% del corpo elettorale (costituito in totale da 15,7 milioni di cittadini). Tuttavia, il PJD ha tenuto, il che non era scontato. Cerchiamo di capire perché.
In secondo luogo, entrambi i leader dei partiti in gioco hanno una formazione fortemente movimentista. Ilyas El Omari, segretario del PAM, fu condannato in contumacia a 5 anni di prigione, a seguito di una protesta condotta durante gli anni in cui era studente; fu poi graziato mentre era ancora latitante. Il suo cambio di rotta è reso esplicito dal fatto che il PAM è oggi considerato il partito più vicino alle posizioni del sovrano. I suoi elettori abitano in genere le campagne e sono fedeli alla monarchia, dalla quale ricevono l’inclinazione modernista e liberale. Il programma del PAM è infatti basato sull’allargamento delle libertà individuali, in particolare con la liberalizzazione della cannabis, che è una delle principali coltivazioni del paese, pur essendo formalmente illegale.
Tra gli anni Ottanta e Novanta, Benkirane e i suoi fedelissimi hanno abbandonato la clandestinità e assunto posizioni via via moderate, al punto da raggiungere il governo alle elezioni 2011 (curiosamente con 105 seggi, praticamente gli stessi che hanno ottenuto, perdendo, i suoi avversari del PAM venerdì scorso).
Il bilancio di questi cinque anni di governo islamista moderato è così presentato su Wikipedia:
Nonostante le buone intenzioni, i risultati del governo del PJD sono apparsi insufficienti rispetto alle grandi aspettative che aveva suscitato. Benkirane si è giustificato, affermando di essere ostacolato dai “poteri forti”, che in Marocco hanno persino un termine ufficiale: tahakoum, una via di mezzo tra “forze oscure” e lo “Stato Imperialista delle Multinazionali” di cui parlavano la Brigate Rosse quarant’anni fa (non a caso, il termine è nato nella sinistra marocchina degli anni Settanta). Il suo elettorato, costituito soprattutto dalla classe operaia e dalla classe media delle città, ha evidentemente accolto questa giustificazione, garantendogli altri cinque anni di governo. Saranno sufficienti a scardinare il tahakoum?
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E’ ormai notte a Budapest quando arrivano i risultati definitivi del referendum sugli immigrati voluto dal presidente Viktor Orban e dal suo partito di destra Fiedesz. La formazione politica in questione, che per definizione possiamo valutare come populista, nel senso peggiore del termine. In quale senso? Nel significato che dice al popolo quello che il popolo vuole sentirsi dire, come vuole sentirselo dire. E’ così che negli ultimi dieci anni, l’ex membro del Partito Comunista Ungherese prima della caduta del muro di Berlino, sfruttando una debolezza intrinseca della popolazione e una sua immaturità democratica, è salito al potere e lo ha mantenuto senza problemi.
Con riforme apertamente autoritarie e una continua sfida interna ad istituzioni indipendenti come la magistratura, ed esterna nei confronti in particolare dell’Unione Europea, alla quale vengono addossate tutte le cause dei problemi in cui versa il paese, si è ritrovato a godere di una maggioranza molto ampia, ma anche di una vasta popolarità. E’ così che nei mesi scorsi, certo di poter aumentare ulteriormente il proprio controllo sulle istituzioni democratiche, l’ultima proposta del presidente è stata quella di indire un referendum contro le politiche delle quote di redistribuzione dei migranti imposte dall’Europa.
La consultazione referendaria, di per sé, non aveva molto da dire, dato che numerosi sondaggi davano il fronte anti-immigrati in netta preponderanza. Quello che contava per rendere il risultato elettorale valido era arrivare all’agognato quorum del 50% dei votanti. Obiettivo non raggiunto.
I votanti si sono fermati al 43% degli aventi diritto, e poco importa a questo punto se il 95% circa di coloro che si sono recati ai seggi hanno votato a favore dell’ennesima scommessa di un regime simil-fascista mascherato da democrazia, e antieuropeista. Staremo a vedere quello che sul fronte immigrazionista succederà nelle prossime settimane, con Orban che proverà in tutti i modi a forzare comunque la mano sull’Europa. Il vero spunto di riflessione deve essere dato dal livello di democrazia in un paese pienamente parte dell’UE ormai da dodici anni. Si parla di uno stato di circa dieci milioni di abitanti che presenta un parlamento controllato a maggioranza assoluta da un partito di destra come Fidesz, ormai indisturbato al potere da dieci anni. Le forze di opposizione, stando alle ultime elezioni, si fermano infatti al 25% dei socialdemocratici, e sotto di questi i neonazisti di Jobbik con il 20%. Non una bella pubblicità per Budapest. La domanda è: ha senso tenere un paese come questo in una comunità che dovrebbe avere al proprio centro la condivisione di valori ed obiettivi comuni? Ha senso che un paese apertamente autoritario e democraticamente immaturo rimanga all’interno di questa Unione?
A mio avviso la risposta è “No”. Se la Brexit è stato un clamoroso errore che i britannici pagheranno nei prossimi decenni, c’è da sottolineare l’avventatezza con cui nel 2004 si decise di accettare all’interno dell’Unione, stati che non erano evidentemente pronti ad affrontare i processi democratici che l’Unione stessa richiede. Mi riferisco non solo all’Ungheria, ma anche ai paesi baltici, alla Repubblica Ceca e alla Slovacchia.
La necessità di allargare i confini dell’Occidente sempre più verso Est, in aperta sfida alla Russia, e la volontà di associare all’aggregazione militare della NATO, quella politica della UE ed economica guidata dalla Germania, ebbero la meglio. Dodici anni dopo ci ritroviamo con una serie di paesi controllati da regimi di estrema destra, tendenzialmente xenofobi e apertamente antieuropeisti. La sfida alla Russia si sta trasformando in una bomba pronta a minare le fondamenta dell'Europa stessa. Tornando alla situazione ungherese non si hanno difficoltà a dimostrare i problemi per le istituzioni democratiche di radicarsi nel paese, tra la gente. Forte è la sfiducia nel sistema politico corrotto, e ancora più forte è la volontà della popolazione di affidare il proprio futuro alla tipica figura dell'uomo forte, individuato in Orban, retaggio di un passato comunista filosovietico e prima ancora fascista durante gli anni '30. L'Ungheria non è un paese abituato alla democrazia, e non è tantomeno pronto e maturo per essa... Analizzando le percentuali dell'affluenza ai seggi dalla caduta del muro di Berlino ad ogfi, possiamo notare come queste difficilmente superino il 50%, e anche il referendum che nel 2004 decise l’adesione e il futuro ungherese in Europa, arrivò a malapena al 48%. Un disastro democratico insomma, figlio di un popolo che non ha ancora del tutto compreso l’importanza dei processi di voto alla base della società occidentale.
L’Ungheria inoltre, è un paese in forte crisi economica che pretende di ricevere aiuti dall’Europa, senza voler partecipare alle attività della comunità che richiedono l’impegno dei paesi membri stessi, il tutto con l’approvazione o l’indifferenza di un popolo disinteressato e fondamentalmente nazionalista. Per farla breve è una zavorra per l’Europa, di cui l’Europa stessa non può liberarsi, visto che l’attivazione del famoso art.50 si ha solo su richiesta degli stati membri.
Insomma, la lezione ungherese è che bisogna in futuro pensarci bene e con molta calma ad allargare ulteriormente questa nostra comunità così traballante, mentre nel frattempo dobbiamo lavorare molto sul consolidamento interno dei confini comunitari. Inutile in questo momento aggiungere altri paesi membri. Non mi stavo riferendo alla Turchia, ma se qualcuno di voi l’ha pensato, beh…
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Vita e morte di Peres, dal nucleare agli accordi di Oslo
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Venerdì scorso, leader presenti e passati dei paesi più potenti al mondo si sono riuniti a Gerusalemme per i funerali di stato di Shimon Peres, il politico israeliano più noto all’estero. C’erano Obama, Cameron, Hollande, Renzi, Trudeau, Bill Clinton, ma la presenza che ha suscitato più interesse è stata quella di Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, che ha stretto la mano all’attuale primo ministro Netanyahu. Un gesto non da poco, se pensiamo ai rapporti non esattamente sereni tra i due, ma che trova una buona spiegazione nella storia personale di Peres.
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La sua storia è simile a quella di molti altri leader israeliani dei primi decenni di vita dello stato ebraico. Nato come Szymon Perski a Višneva (città oggi bielorussa, allora polacca) nel 1923, raggiunse la Palestina all’età di 11 anni. A seguito dell’esperienza giovanile in kibbutz – le comuni della tradizione sionista – aderisce ai movimenti giovanili della sinistra israeliana, e conosce David Ben Gurion, il “padre della patria” di Israele. Grazie alla fiducia accordatagli da Ben Gurion, compie una promettente carriera nell’esercito, finendo per assumere l’incarico di Direttore generale del Ministro della Difesa (1953). In tale veste riuscì a procurare al proprio paese l’accesso alla tecnologia nucleare, con la fondazione del Negev Nuclear Research Center di Dimona, grazie alla Francia. Benché il governo non lo abbia mai confermato, è opinione diffusa che a Dimona sia ospitato (almeno in parte) l’arsenale nucleare israeliano. Il fatto che Israele possieda armi atomiche ha sempre costituito un deterrente enorme nei confronti dei paesi che ne hanno avversato l’esistenza (Egitto, Iran, ecc.), al punto che si è parlato di Dimona come di una «polizza sulla vita» dello stato ebraico.
A livello politico, Peres ha rappresentato il partito laburista come primo ministro tra il 1984 e il 1986 e tra il 1992 e il 1995; tra il 2007 e il 2014 è stato presidente della repubblica, bilanciando – con le proprie posizioni concilianti – la politica aggressiva di Netanyahu. Parrebbe strano parlare di “politiche concilianti” per un politico proveniente dalle file dell’esercito, persino responsabile del programma nucleare del proprio paese. Il fatto è che la carriera di Peres è stata tanto lunga da trasformarlo, progressivamente, da “falco” in “colomba”. Nel 1994, a seguito della firma degli Accordi di Oslo, ha ricevuto, non a caso, il premio Nobel per la Pace, assieme a Yasser Arafat e Yitzhak Rabin.
Gli Accordi di Oslo rappresentano ancora oggi il principale passo avanti nella risoluzione della questione palestinese. La loro conseguenza più significativa è stata la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese, organo di autogoverno del popolo palestinese, che dopo oltre quarant’anni di invisibilità trovava una legittimazione politica. Se a distanza di vent’anni non si sono compiuti significativi passi avanti rispetto a quelle premesse (tanto importanti che Rabin sarebbe stato ucciso pochi mesi più tardi da un integralista di destra), dobbiamo riconoscere una responsabilità oggettiva all’attuale classe dirigente, tanto israeliana quanto palestinese.
Peres era fatto di un’altra stoffa: consapevole della necessità della pace, non ha mai rinunciato al dialogo con le organizzazioni palestinesi, anche durante la presidenza della repubblica. Se prima era contrario ad ogni compromesso, dalla fine degli anni ’70 ha cambiato opinione e si è impegnato con determinazione per ottenere risultati. C’è chi lo ha paragonato a Don Chisciotte o a Sisifo, l’eroe mitologico che trasportava un masso in cima ad una montagna, per vederlo inesorabilmente rotolare giù. Come Sisifo, Peres non si è mai arreso, e anche a 70 o 80 anni ha tenacemente difeso la propria idea di compromesso. Si badi bene: Peres era un realista, non un pacifista. Era un pragmatico, che ha capito che la pace era una necessità per israeliani e palestinesi.
La sua assenza dallo scenario politico israeliano segna iconicamente la fine di quella tradizione laburista che ha espresso le figure di Ben Gurion, Golda Meir e Rabin. Non è un caso che la sinistra israeliana stia attraversando in questi anni una gravissima crisi. Secondo alcuni, le manca quella volontà di cambiamento che accomunava i vecchi sionisti, nati tra i pogrom e le persecuzioni.
«Ottimisti e pessimisti muoiono alla stessa maniera. Semplicemente, vivono in modo diverso.
Io preferisco vivere da ottimista». (Shimon Peres)
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Novembre 2020
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